Recensione: Red Before Black
Nessuna intro di rito, nessun convenevole, nessun compromesso. “Red Before Black”, il quattordicesimo album dei maestri di Buffalo, attacca come un cane rabbioso, come un treno in corsa travolge tutto quello che incontra e lascia tramortiti già dal primo ascolto. Tre anni fa “A Skeletal Domain” era piaciuto, pur avendo mostrato qualche lieve calo a livello di ispirazione. Questa volta, invece, i Cannibal Corpse hanno sì scelto ancora una volta la strada “facile”, ossia quella dell’aggressione, estrema, totale, devastante, ma con la differenza che nel nuovo lavoro di momenti interlocutori non ce ne sono: death metal integrale, con un attitudine quasi thrash per per essenzialità ed istinto. Ma in questi casi le etichette contano poco.
“Only One Will Die”, il pezzo posto in apertura, è una vera e propria dichiarazione di intenti. Basico, diretto e deciso come una opener in un disco del genere deve essere, dove la ritmica dissennata è intervallata da rari cambi di tempo che non fanno altro che evidenziare la cattiveria del brano. Fa il paio con la successiva title track, altro pezzo immediato e veloce: in poco più di sei minuti, due tracce che fanno intendere la totale mancanza di compromessi dell’intero album. Bisogna aspettare il terzo pezzo “Code Of The Slashers”, già disponibile da settembre, per notare qualche divagazione sul tema: minutaggio più alto e una struttura simmetrica, con una parte introduttiva lenta e trascinata che lascia spazio ad un’esplosione sonora particolarmente incisiva e che si conclude riprendendo il tema iniziale rallentato. E se in “Shedding My Human Skin” è il refrain che colpisce, con il titolo ripetuto ossessivamente da un George Fisher tanto omogeneo nel cantato quanto convincente, in un pezzo come “Firestorm Vengeance” è il gran lavoro di ritmiche, di palm muting e di sei corde in generale che riappacificano con il metal estremo, se mai ce ne fosse stato bisogno. Sia chiaro, di Cannibal Corpse stiamo parlando, un gruppo con una carriera enorme alle spalle che non ha nulla da dimostrare, se non la propria capacità di continuare ad essere vivo (parolone quando si ha a che fare con certe liriche) e all’altezza degli act più giovani ed entusiasti. Ma i Nostri non hanno raggiunto tale popolarità per caso e canzoni come quelle del presente lavoro ne sono un ottimo esempio: pur non aggiungendo nulla a quanto già prodotto dalla band, sono ancora ispirate e dal gran tiro, praticamente prive di passaggi a vuoto o comunque mai banali. E in questo senso, abbiamo una “Scavenger Consuming Death” che cerca di essere più ricercata e che mostra una delle più grandi qualità della band, ossia la capacità di saper mediare tra parti veloci e stacchi cadenzati all’interno dello stesso pezzo o “In The Midst Of Ruin” che con i suoi tecnicismi in alcuni momenti ricorda il rifferama tanto caro ai Death. C’è quindi tecnica, ma, come ci hanno abituato i Cannibal Corpse, nella giusta dose, per brani che nascono tutti per essere suonati dal vivo. E un altro elemento che conferma questa impressione è il fatto che l’intero album riesce ad essere brutale ed orecchiabile allo stesso tempo e “Destroyed Without A Trace” è un esempio lampante, dove la strofa portante è una vera e propria rampa di lancio che accompagna all’esplosione del chorus principale (“Given away…life is taken away!”).
Con una copertina questa volta fumettistica, semplice e brutalmente ignorante, “Red Before Black” (che vede il ritorno del fido Erik Rutan alla produzione) è il classico album che intrattiene, che si mette quindi nel lettore per il semplice piacere che la musica può darci. A quasi trent’anni dall’esordio, i Cannibal Corpse si confermano i capiscuola assoluti del metallo estremo, per storia, carriera, costanza e per il rispetto di cui godono tra i fan. E questo nuovo album è solo l’ennesima conferma di questo status. Di routine oramai si tratta, ma è un’efferata routine che non annoia e che è ancora decisamente ispirata. Basta? Sì.