Recensione: Sunhead
Plini Roessler-Holgate, classe 1992, è l’esempio vivente di come le strade che portano alla ribalta musicale possano essere infinite. Autodidatta che suona da quando aveva nove anni, amante delle chitarre Steinberger dal design minimale, Plini intende la musica quale continuo bagno di creatività che ha come stella polare il sound visionario ed eclettico di Steve Vai, arricchito, però, da sonorità djent e metal. Appena ventenne il chitarrista di Sydney è riuscito a far conoscere e apprezzare i sui brani attraverso un uso intelligente dei social media e rifiutando il rigido schema che vede il full-length come principale modus operandi discografico (ma ci sono altre eccezioni, come i Protest The Hero di Pacific Myth). Nel giro di pochi anni ecco, allora, che la sua discografia si arricchisce in modo esponenziale di singoli ed EP gustosi: dopo il pregevole Handmade Cities, Sunhead, uscito a fine luglio, è l’ultimo della fortunata serie. Questa manciata di nuovi brani tutti da gustare arriva dopo il singolo apripista “Salt+Charcoal” e alcuni momenti live di tutto rispetto: la performance al Download Festival (durante il quale il giovane mastermind è stato il primo a salire on stage proponendo musica senza parti cantate), il Be Prog! My Friend di Barcellona, oltre a un tour di successo in Europa con Arch Echo e Mestis. Nei venti minuti di Sunhead, oltre alla rodata coppia ritmica Allison–Grove, troviamo ospiti di riguardo, tra cui John Waugh al sax in “Flâneur” e il jazzista professore al Berklee College Of Music Tim Miller a regalare un assolo di chitarra nella title-track. Con queste premesse non resta che tessere l’elogio dei venti minuti che compongono l’uscita.
“Kind” è un opener dall’approccio fusion che si riscopre metal negli ultimi 120 secondi e in questa duplicità risiede la sua bellezza: il main theme suonato inizialmente in modo furtivo e sornione esplode in chiave djent stupendo l’ascoltatore. Non serve troppa tecnica e mille idee (chi ha detto Next To none?), Plini si rivela accorto (a maggiore ragione considerata la sua età) nel dosare saggiamente le frecce al proprio arco. “Salt + Charcoal” è un altro brano dall’ottima longevità: buono l’approccio alle dinamiche, così l’affiatamento con la parte ritmica (ben valorizzato in fase di mixing il basso). Le poche parole cantate dall’ospite Devesh Dayal rendono il pezzo vicino alla genialità ideativa di Steve Vai e Devin Townsend, i numeri tutelari di certo prog. di recente corso. Ma è la seguente “Flâneur” ha meritarsi la palma di migliore composizione dell’EP. Tra echi jazz e concessioni al genio di Frank Zappa, Plini realizza un brano dal sicuro fascino, eclettico e “maturo”, che da solo vale l’acquisto del platter. In calce la titletrack è l’ennesimo refrigerio sonoro, con la gradita presenza del citato Tim Miller, a fare le veci di Allan Holdsworth.
La musica di Plini si può odiare o amare, vive di accostamenti arditi tra sonorità vellutate e crepuscolari ad altre metalliche ed aspre, prendere o lasciare. Per chi vuole ancora sognare e divertirsi ascoltando musica di spessore Sunhead è un cammeo tutto da scoprire. Sul fronte live, infine, il “guitar hero” sarà impegnato in un nuovo tour europeo in autunno con tappa a Arctangent, al Brutal Assault e con tanto di headline show all’Islington Assembly di Londra, per poi fare da gruppo spalla – scusate se è poco! – a Between the Buried and Me e Tesseract. Metallaro avvisato…
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)