La scomparsa di Lemmy dei Motörhead e la fine del mito ai nostri giorni
Sulla mia piccola agenda dei concerti c’è ancora segnata la data dell’11 febbraio prossimo. C’è scritto: Motörhead e Saxon. Non riesco a cancellarla, ma so bene che le cose non saranno mai più come prima. Perché la morte di Lemmy è una tragedia irreversibile per il mondo del metal, del rock, della musica tutta.
Nell’angusto limite dell’universo musicale, non esagero: è una tragedia irreversibile. E così è semplicemente perché Lemmy sarà insostituibile. Non si tratta di malinconico passatismo, affondato nei bei tempi che furono, ma della oggettiva constatazione di come le circostanze non permettano più l’imporsi di personaggi, ancor prima che di persone, come Lemmy.
Una tragedia irreversibile per il rock, dunque. Gli epocali cambiamenti che il digitale ha comportato nel mondo della musica a livello di produzione, diffusione e fruizione dei suoi prodotti sono scaturiti nell’omicidio della figura della rockstar e nella fine delle grandi rock band. Ciò non significa che oggi non nascano più nuovi, eccellenti gruppi, ma che nessuno di essi diventerà gli Iron Maiden, che nessuno dei loro componenti diventerà Lemmy. I tempi non lo consentono più. Non me la prendo con il digitale e non ho niente contro l’evoluzione del mondo. Se così fosse, non avrebbe neppure senso scrivere queste parole per una rivista on-line. Ma i cambiamenti comportano cambiamenti, creano nuove forme e qualche volta distruggono la possibilità stessa che ciò che prima era normale a un certo punto non possa più accadere. Pensate agli amanuensi nelle abbazie medievali e alle loro miniature sui codici: una competenza che l’invenzione della stampa rese inutile, castrando la possibilità stessa che nuovi geni del miniare diventassero tali. Non fu un male; fu soltanto l’avanzare dei tempi.
Così è lo stato del rock nel 2015: un mondo che volle essere decadente costretto a osservare l’inevitabile, eterna fine dei propri miti, cosciente che non saranno sostituiti.
Nessuno più potrà essere come Lemmy, così come non ci sarà più un Ozzy, un Mustaine, un Dickinson, o un Halford. Non si tratta sempre di vite di eccessi, per questo solo affascinanti: a mancare sarà la favola, il mito, ovvero ciò che alimenta il potere fascinoso del rock e lo rende evento e fenomeno sociale. Quanti messaggi in questi giorni hanno scritto di solchi di vinile consumati dagli ascolti e di concerti attesi e poi vissuti, sudati, urlati, ad ascoltare e, in ultima istanza, ammirare quell’uomo che suonava rock ‘n roll. La fruizione mordi e fuggi che il digitale consente (e forse costringe) toglie il terreno stesso di cui si alimenta la nascita del mito; la miriade di produzioni discografiche che arriva ogni mese nelle nostre casse impedisce l’affermarsi della favola.
Per queste e altre ragioni, la morte di Lemmy è una tragedia irreversibile. Perché il rock vive di Lemmy, ancor più di quanto Lemmy vivesse di rock. E noi stessi, prima di essere seriosi ascoltatori, siamo fan appassionati: è la passione che mi fa scrivere queste righe, è la passione che vi ha condotto su queste pagine. E la passione è il cuore che batte per una musica che è più che musica: una musica che pulsa perché incarnata in chi di essa si fa portavoce sul palco e muove, commuove, stritola i nostri animi là, sotto quel palco.
Se fossimo solo razionali ascoltatori di musica di qualità, non saremmo qui a constatare quanta tristezza consapevole scaturisca dalla morte di Lemmy. Perché la verità è che i Motörhead non pubblicavano un gran disco da anni e i colti critici avranno ripetuto chissà quante volte che suonavano più o meno sempre le solite tre canzoni, cambiandone un po’ il titolo e qualche nota qua e là. Ma non siamo solo freddi ascoltatori di quelle band che hanno avuto l’opportunità di dirci molto più delle note delle loro canzoni e che, insomma, ci hanno resi quel che siamo: scusate se è poco.
Per questo, dunque, eccoci qui a dire che la morte di Lemmy è una tragedia irreversibile: è una grossa slavina che cade da una montagna che si sgretola di anno in anno, è il simbolo della fine di un mondo che mai più esisterà. Le rockstar, le grandi band saranno studiate come un fenomeno che ebbe il proprio terreno fertile nello splendido mondo occidentale della seconda metà del novecento. Il buco che lasceranno quando tutte saranno finite sarà colmato da altro, certamente: ma questa è ragione senza cuore, qualcosa che adesso non ci possiamo, non ci vogliamo permettere. Adesso, quel cuore è solo inondato di una gran tristezza, perché su quella montagna ci siamo saliti tante volte, per consolarci, per esaltarci, per sentirci vivi. E ora sembra di assistere alla lenta agonia di un padre che fu forte e sicuro e che ci ha tirato grandi; e appare così debole in quel letto d’ospedale.
La morte di Lemmy va oltre se stessa, come la musica dei Motörhead andava oltre se stessa. Per questo, assistiamo, impotenti, a una tragedia irreversibile.
di Carlo Passa