Off The Metal: Dolore – 2020: I Sette Teschi Di Andromeda
Un percorso comune a molti metallari conclamati è quello di avvicinarsi al cinema horror. Può accadere per spontanea predisposizione preesistente alla musica, oppure proprio attraverso il viatico dell’universo borchiato, tradizionalmente impegnato a veicolare contenuti di stampo orrorifico, esoterico, soprannaturale o comunque connessi a doppio filo a sentimenti oscuri e ansiogeni. Il metallaro è fatto così, gli piace rimestare nella pece nera, c’è poco da fare. Approdati all’horror, il salto verso il cinema di genere tout court è un attimo; non necessariamente tutti lo compiono, ma molti seguono questo schema. A quel punto gli orizzonti si ampliano, temporalmente e qualitativamente. Chi preferisce la fantascienza, chi il post atomico, chi il western, chi il thriller giallo, fatto sta che verosimilmente nomi come Bava, Argento, Fulci, Martino, Lenzi, Castellari, Deodato, Margheriti diventano familiari, si acquisisce una certa esperienza di determinati codici linguistici, canoni e cliché impiegati nel cosiddetto “cinema bis”. Conseguentemente ci si impratichisce anche delle musiche che commentano quelle immagini, ed è così che arrivano i nomi dei Goblin, dei Pino Donaggio, dei Bruno Nicolai, dei Franco Micalizzi, dei Nico Fidenco, oltre che naturalmente dei mostri sacri, nonché premi Oscar, come Ennio Morricone o Jerry Goldsmith. Osservata questa premessa, l’album dell’artista palermitano Dolore (nickname assai promettente….), “2020: I Sette Teschi Di Andromeda“, diventa quasi una tappa obbligata per chi si riconosce nella descrizione testé fatta. 14 tracce che costituiscono una ideale colonna sonora di un film mai realizzato, o forse di più film ipotetici ed immaginari che Dolore aveva in testa e che ha deciso di musicare nonostante il principio di realtà ne smentisse l’esistenza.
Sono già diversi i lavori pubblicati sotto tale monicker (dietro cui si cela il polistrumentista Giorgio Trombino), e questo “2020: I Sette Teschi Di Andromeda” è solo l’ultimo in ordine di arrivo, pubblicato lo scorso halloween (credo sia un’abitudine in casa Dolore, la data in effetti si presta). Anche guardando l’artwork che accompagna la musica, si intuisce subito che non siamo esattamente ed esclusivamente collocati sul pianeta horror, qui i pianeti contano eccome ma sono diversi, tutt’al più possiamo parlare di fanta-horror dato che la fantascienza risulta essere indubbiamente una delle principali fonti di ispirazione dell’album. Dolore stesso cita Terrore Nello Spazio di Bava, e ad esso accomuna le esperienze sonore derivate dai Goblin più elettronici (ad esempio quelli di Zombi), Giorgio Moroder e persino John Carpenter regista ma – è bene ricordarlo – anche autore delle musiche dei suoi stessi film. In effetti l’incipit di “L’Ospite” mi ha fatto subito venire in mente le atmosfere di 1997: Fuga Da New York. Il mondo post atomico è probabilmente quello più sinergico con queste musiche, di sicuro con il primo tris in scaletta (comprendente anche “Labirinto Di Circuiti“, “Inspiegabili Globi Luminosi“. Ritmiche sintetiche in 4/4, abbastanza martellanti, sulle quali si poggiano le visioni sci-fi di Dolore, intrise di cinefilia che mette in fila il suddetto Carpenter ma anche Alien, Terminator ed i vari epigoni tricolori come i vari I Gladiatori Del Futuro, I Predatori Dell’Anno Omega, 2019: Dopo La Caduta di New York, etc., passando per la fantascienza “pura” di Bava, de L’Umanoide di Aldo Lado o magari anche di Star Crash di Cozzi, perché no). Segue poi una sezione mediana della scaletta (che va da “Infinita Solitudine Stellare” a “Ciò Che Attende Nell’Ombra“, per un totale di 4 brani), dove i bpm rallentano o cessano del tutto, e veniamo accolti nello spazio siderali, da qualche parte tra laboratori hi-tech, navicelle interstellari e misteriose esplorazioni di remote profondità galattiche, dove lo spirito del miglior Bava (Mario) effettivamente ci accompagna come un novello Virgilio dantesco. Sta per accadere qualcosa, il senso di minaccia incombe, indubbiamente qualcosa attende nell’ombra, forse dobbiamo prepararci all’arrivo di Alien (2) Sulla Terra, come preconizzato da Ciro Ippolito nel lontano 1980.
C’è spazio per Bava padre ma anche per Lamberto, il figlio, dato che l’elettronica sferzante di Dolore, quando viene usata come un’aggressione ai limiti del rock, echeggia i metamondi di celluloide di Le Foto Di Gioia o di Demoni. Il titolo del disco fa riferimento ad un nutrito retaggio cinematografico, che va dal film omonimo del ’71 (Andromeda Strain in originale), alla serie televisiva americana creata da Gene Roddenberry (quello di Star Trek), e allo sceneggiato RAI del ’72 A Come Andromeda (con Paola Pitagora e Claudio Cassinelli), a sua volta remake di uno britannico trasmesso nel ’61 dalla BBC ed andato parzialmente perduto. Oltre all’indubbio talento di Dolore, alla sua capacità di creare piccole grandi colonne sonore estremamente accattivanti, evocative e piene di fascino misterioso ed enigmatico, mi ha davvero stupito quanto i titoli corrispondano magnificamente al sound. Spesso accade che nella musica strumentale i titoli siano piuttosto velleitari, talvolta neppure in sintonia con quanto si ascolta (con il musicista del caso perso ad inseguire i propri fantasmi); nel caso di “2020: I Sette Teschi Di Andromeda” invece tutto si tiene egregiamente. E davvero una propagazione infestante quello che ascoltiamo in “Propagazione Infestante“, così come in “Impossibile Avviare Procedura Di Ritorno” (tra le migliori tracce del lotto) viviamo anche noi l’ansia del possibile mancato ritorno verso casa, intrappolati da qualche parte, in uno zoo di mostri cosmici e – ovviamente – affamati.
Tutto è brillantemente al proprio posto in questo album e quando si arriva alla fine la sensazione di aver visto un film (oltre all’averne ascoltato la soundtrack) è fortissima, quasi psicotropa. Come Dolore riesca in questa illusione non è dato sapere; forse si tratta del suo bagaglio cinefilo estremamente ricco e stratificato, forse “solo” della sua destrezza e del suo genio musicale. Alla fine poco importa, quel che conta è che per circa tre quarti d’ora abbiamo ascoltato ottima musica e tutto sommato si è trattato di un’esperienza consumata oltre le barriere del suono, capace di coinvolgere l’immaginazione e gli occhi della mente (e della nostalgia ottantiana e cinefila). Decisamente consigliata ai metalkid in cerca di un po’ di evasione dalla routine.
Marco Tripodi