Gothic

Recensione libro: No Celebration, la biografia ufficiale dei Paradise Lost

Di Stefano Ricetti - 31 Agosto 2024 - 7:20
Recensione libro: No Celebration, la biografia ufficiale dei Paradise Lost

NO CELEBRATION

La biografia ufficiale dei Paradise Lost

di David E. Gehlke

424 pagine, soft cover

Formato: 16×23

ISBN: 978-88-94859-88-1

EDIZIONE AGGIORNATA con un capitolo aggiuntivo

25 Euro

Tsunami Edizioni

 

Se la memoria non mi gioca brutti scherzi No Celebration costituisce un unicum nel mondo letterario della Tsunami Edizioni. Il libro vide infatti la luce nel 2020 in edizione limitata de luxe con copertina rigida.

Sono passati quattro anni da allora e la biografia ufficiale dei Paradise Lost approda ora sul mercato nella più classica versione standard con copertina dal cartonato usuale – la cosiddetta soft cover – ma soprattutto con l’aggiunta di un capitolo in più rispetto alla tiratura primigenia intitolato Obsidian, Dolore Reverenziale che, come facilmente arguibile, tratta le vicende legate al loro disco del 2020, pubblicato sotto Nuclear Blast.

Tradotto da Stefania Renzetti – l’edizione originaria risale al 2019, No Celebration, The Official Story of Paradise Lost – e con la prefazione di un signore del rumore quale Karl Willetts dei Bolt Thrower quest’ultimo nato in casa Tsunami Edizioni assomma a 424 pagine illustrate, nel senso che non vi è il tipico inserto di sedici facciate con le foto consecutive a colori ma i vari scatti trovano spazio all’interno del narrato, rigorosamente in bianco e nero.

Nati nella ridente – si prega di leggere con l’adeguato humor – Halifax, West Yorkshire, agglomerato urbano posto fra Leeds e Sheffield nel 1988 i Paradise Lost hanno dimostrato, nei fatti, un’unità di intenti e una coesione invidiabile. Dopo ben sedici album e alcuni decenni di milizia metallica continuativa le cronache riportano la stessa line-up per ben 4/5, a eccezione del batterista: se ne contano cinque in veste ufficiale più una manciata scarsa di turnisti.

Una storia, quella di Nick Holmes (voce), Greg Mackintosh (chitarra, tastiere), Aaron Aedy (chitarra) e Steve Edmonson (basso) che andava assolutamente raccontata, anche per capire come quattro personalità tutt’altro che arrendevoli come le loro siano sopravvissute agli alti e bassi che hanno segnato la traiettoria artistica ed umana dei Paradise Lost.

Una band che ha segnato nel profondo le linee guida della musica cupa e malinconica, attraverso quanto scritto dentro album seminali quali Gothic e Icon per poi ripiegare su sé stessa voltando le spalle alle proprie radici per virare verso territori elettronici legati ai Depeche Mode, con i due album One Second e Host. Scelte che hanno pesato come macigni nell’economia del gruppo. Nel momento in cui lo zoccolo duro dei  die hard fan ti rinnega incondizionatamente accusandoti di alto tradimento è dura continuare ma i ‘Lost non hanno mollato e pian piano si sono ricostruiti sia la reputazione – ragionando per iperboli – che l’immagine sfornando nel 2017 quello che il complesso definisce il disco più pesante di sempre, ovvero Medusa e il recente Icon 30, del 2023, nient’altro che la registrazione ex novo di Icon, in occasione dello scoccare del trentesimo anniversario, una sorta di certificazione postuma della probabile vera essenza dei Paradise Lost.

Un miscuglio ben riuscito, il loro, fra Doom, Death e Gothic che li porterà a vendere, secondo delle stime abbastanza attendibili, ben due milioni di album in tutto il mondo sino a oggi. Cifre da capogiro, per un gruppo che ha sempre perseguito i propri obiettivi senza cedere più di tanto ai vari inevitabili compromessi ai quali si deve giocoforza sottostare quando si arriva in alto.

No Celebration, a cura del giornalista musicale americano David E. Gehlke, distilla tutta la storia dei Paradise Lost, senza escludere nulla, vizi e virtù compresi, per il tramite di una certosina raccolta di informazioni e immagini direttamente dai protagonisti, ossia i vari componenti presenti e passati del gruppo ma anche da alcuni addetti ai lavori che hanno avuto a che fare con loro, assumendo così le stimmate di biografia ufficiale. Nonostante sia ben chiaro e ultra-certificato che Holmes & Co. non siano né i Motley Crue né i Van Halen, quello che manca al libro è un po’ di pepe proveniente dal backstage. Ma trattasi di peccato veniale, data la notevole quantità di ciccia ricompresa all’interno del volume.

 

Nick Holmes:

Molte band, in particolare i gruppi Death Metal, fanno ogni volta lo stesso album e non capisco la loro mentalità. E non intendo uno o due dischi. C’è gente con una carriera trentennale che fa ancora lo stesso album [cit. pagina 69]

 

Paradise Lost: una band con il gusto innato della sperimentazione.

 

 

Stefano “Steven Rich” Ricetti