Recensione libro: Sebastian Bach – La mia vita e gli Skid Row
Sebastian Bach
LA MIA VITA E GLI SKID ROW
I Cicloni 31 – 384 pagine + 8 a colori – 16×23 – ISBN 978-88-94859-12-6
€ 22.00
Questo tour non era affatto come quelli con Aerosmith, Bon Jovi o Motley Crue. Qui c’era un’atmosfera più estrema. Continuavamo a essere dei bevitori convinti. Girava anche un sacco di cocaina. Devo sottolineare che non ho mai visto una volta Snake, Rachel o Scotti sniffare cocaina. Ma ne girava tanta, anche grazie ai fan del metal estremo che presenziavano a questo tour in particolare.
Io avevo già iniziato a rendermi conto che, di fatto, la cocaina fa schifo. Oggi la odio proprio. Ti fa sentire in modo orribile. Stare con chi sniffa, se tu non lo fai, è straziante. Si mastica le labbra. Si mangia la faccia. Puzza. I sudori della cocaina sono terribili da sopportare. Le scoregge da cocaina sono le più mortali del mondo.
Lascia che te lo dica, caro lettore: quella merda è orribile. Che droga terribile da usare. Non ti fa nemmeno sentire bene, dopo un po’ che la usi. Secondo me, se andate a una festa, vi servono solo erba e vino. Tutto il resto vi trasforma nel Televenditore Death Metal Satanico.
Che questa storia vi serva come monito.
Quanto appena letto è tratto dalle pagine 245 e 247 dell’ultimo libro griffato Tsunami Edizioni sul mercato, intitolato Sebastian Bach, la mia vita e gli Skid Row, traduzione italiana a firma Stefania Renzetti di 18 an Life on Skid Row, edito in lingua originale nel 2016 da HarperCollins. Naturalmente, scorrendolo, verrete anche a sapere chi si cela dietro al Televenditore Death Metal Satanico.
Quando un belloccio come Sebastian Bach, di professione cantante, approdò al mondo dell’Hard and Heavy, sul crepuscolo dei formidabili anni Ottanta, molti duri e puri arricciarono il naso. Abituati (anche) a personaggi come Udo Dirkschneider, David “Rock” Fenstein, Garry “Flabby” Dalloway [Rip, grande!] e Steve “Dobby” Dawson, tanto per citare quattro eroi dell’Acciaio difficilmente accostabili a degli Adoni, il trovarsi di fronte un biondone di un metro e novanta, dal fisico atletico e dai tratti fortemente femminili mise in guardia più di un ultras, ma non solo. Già esistevano David Lee Roth e David Coverdale, sex symbol di un’intera generazione di appassionati, entrambi però ampiamente sdoganati da discografie pesanti ed eccessi vari, quindi considerati degli eroi tout court. Diverso il discorso per Jon Bon Jovi, che non veniva nemmeno preso in considerazione, perché proprio di “altra parrocchia”…
Sebastian Philip Bierk, nato a Freeport (Bahamas) il 3 aprile del 1968 e auto proclamatosi pomposamente Sebastian Bach, prendendo a prestito il nome del celebre compositore barocco Johann Sebastian Bach (1685-1750), ebbe il merito di far ricredere molti degli scettici nel momento in cui, dopo alcuni trascorsi nei Kid Wikkid e nei Madam X, approdò agli Skid Row e fece apprezzare la propria notevole ugola sulle note di Piece of Me, 18 and Life, Youth Gone Wild e I Remember You, tratte da quel disco di Hard Rock scintillante e sufficientemente metallizzato che fu appunto l’omonimo del 1989 del combo del New Jersey.
La vera differenza, il ragazzone, la fece poi alive, palcoscenico ove senza trucco alcuno sfoderò una voce da urlo – nel vero senso della parola – spazzando via pregiudizi su pregiudizi. Personalmente lo ricordo insieme con i suoi Skid Row in apertura dei Motley Crue periodo Dr. Feelgood in quel di Milano il 18 ottobre 1989 al Palatrussardi. Prestazione maiuscola quella di Sebastian, possente e decisamente sopra la media, concerto nel quale lui e la sua band si conquistarono i meritati allori anche in terra italica convincendo più di un prevenuto. Un’altra volta, se la memoria non mi inganna, dimostrò di avere due colleoni così nel momento in cui duettò a chi arrivava più in alto con Ralf Scheepers all’interno di un festival in terra germanica.
Seguì poi Slave to the Grind nel 1991 e le luci della ribalta durarono ancora per un po’, tanto che nel corso della propria carriera Bach arrivò a vendere più di venti milioni di dischi, sia come solista che come cantante degli Skids.
Sebastian Bach, la mia vita e gli Skid Row, come da titolo esplicativo, narra appunto le gesta e le disgrazie di Sebastian, persona dotata di una sensibilità molto accentuata che oltre al successo ha anche preso in mezzo ai denti le botte che la vita riserva prima o poi a tutti: un divorzio lacerante, una casa distrutta e l’allontanamento dalla band che l’aveva consacrato. Il doversi reinventare totalmente, tanto da approdare a Broadway facendosi un mazzo così fa di Sebastian Bach uno di noi, uno che pur essendo una rockstar continua a considerare idoli alcuni suoi colleghi – Axl Rose, Ace Frehley e i Kiss in generale, Steven Tyler, Nikki Sixx – e che sa essere superiore a molti di loro mettendo una pietra sopra a qualche sgarbo di troppo, comperando i dischi e facendoseli autografare…
Pur non avendo il livello di sbraco e decadenza di The Dirt, The Heroin Diaries e La Bestia, quest’ultimo nato in casa Tsunami dispensa perle di depravazione senza economia di sorta. Ad esempio, probabilmente per motivi di sovrabbondanza, il “buon” frontman invece di vedere di combinare qualcosa di interessante con una bellissima e disponibilissima donzella in calze autoreggenti a rete, tacco dodici e poco altro addosso, decide che sia più arrapante lasciare legata lei e la sua finissima lingerie sexy in balia del vento e degli sguardi dei passanti sul terrazzino al di fuori della stanza dell’albergo, mentre lui si gusta un programma alla televisione… Se poi vi incuriosisce approfondire gli effetti dello speed, dell’erba, del quaalude e della cocaina su di un essere umano, nella fattispecie lo stesso Sebastian Bach e altri buontemponi – Ace Frehley, Lars Ulrich, i Pantera – il libro fornisce casistiche a go-gò, ampiamente comprovate, di fronte alle quali le sue mega sbronze di Jack Daniel’s, vino e birra paiono esercizi da educande.
Stefano “Steven Rich” Ricetti