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Speciale: Il rumore non accetta meriti

Di Dwight Fry - 12 Dicembre 2018 - 12:00
Speciale: Il rumore non accetta meriti

Il 29 novembre 2018 la musica reggae è stata inserita dall’Unesco nell’elenco dei “beni immateriali dell’umanità”. Un titolo onorifico di altissimo prestigio.
La Giamaica ha avviato i festeggiamenti e dopo dieci minuti una nuvola di fumo impediva ai satelliti di vedere cosa succedeva sotto la coltre. Da allora non s’è saputo più nulla.
Stringato il commento del Primo Ministro, Andrew Holness: “mandate altri accendini”.

Quindi il reggae sì e il metal no.
Eppure, pochi mesi fa, il Wall Street Journal ha scritto che “il metal è la nuova world music”. La “National Academy” di Warwick sostiene che i metallari siano più intelligenti degli altri fruitori musicali.
Poi però premiano il reggae. Bah.
Vien da chiedersi per quale motivo, precisamente, sia entrato a far parte del patrimonio Unesco. La motivazione ufficiale è questa:
“per il suo contributo al dibattito internazionale su questioni di ingiustizia, resistenza, amore e umanità”.
D’accordo. Ma il metal non è mica da meno.

“INGIUSTIZIA”: negli ambienti metal quasi tutto è ingiustizia, dalla carenza di sesso femminile sotto al palco all’eccessiva presenza di sesso femminile sopra al palco, dai concerti disertati ai concerti con troppa gente, dai CD a quindici euro ai biglietti VIP a mille euro, dai Greta Van Fleet alle Babymetal, dal massacro degli Indiani d’America (“cry for the Indians…”) alla presenza di robaccia nella birra (“Univirtuous brewers ruined the business spoiling”). Il concetto di “ingiustizia” è ampio quindi noialtri, nel dubbio, ci infiliamo dentro di tutto, non solo robetta come l’apartheid o la tratta degli schiavi.

“RESISTENZA”: se scorrete i testi dei gruppi metal e vi divertite a scovare locuzioni come “don’t give up”, “carry on”, “hold on”, “never surrender”, “no surrender”, “stand up” oppure parole come “refuse”, “resist” (a volte nel medesimo titolo), “fight”, “war”, “battle”… sappiate che per sottolinearle tutte vi serviranno le matite realizzate dalla Faber Castell negli ultimi quindici anni. Nel “DeMaio”, prestigioso vocabolario metallico rilegato in pelo (5 pagine, 70 euro), ci sono soltanto quelle parole e “warrior”. Aggiungete “fire”, “land”, “legend”, “sword” e un po’ di ghiaccio e avrete la versione italiana aggiornata, lo “Staropoli”.

“AMORE”: beh, qua si sfonda una porta aperta. Quasi tutti i gruppi metal hanno composto almeno una canzone che parla di amore, poi se qualcuno lo interpreta in maniera inusuale (“Fucking the rotting, my semen is bleeding. The smell of decay seeps from her genital cavity”) non bisogna fargliene una colpa. Il mondo metal accetta tutti i tipi di amore, chiunque ne sia il destinatario, non fa distinzione tra uomini, donne e cadaveri.

“UMANITÀ”: ecco, qua magari scricchioliamo un pochino, tra “people = shit”, incitamenti a bruciare chiese, ossa di amici vendute su eBay. Ma stiamo facendo passi avanti. Perfino Phil Anselmo ha messo la testa a posto, voci di corridoio lo indicano come quinto Teletubbies nella prossima stagione. Già pronta la colonna sonora dei Cannibal Corpse.

***

Ok, ora seriamente.
Il reggae possiede senza dubbio le caratteristiche che gli vengono attribuite, nulla da obiettare. Il riconoscimento dell’Unesco fa un po’ “specie protetta” ma si tratta comunque di un premio importante. Dubito che il metal lo otterrà mai, d’altronde certi riconoscimenti non è che interessino un granché, a chi lo ascolta e a chi lo suona. Sinonimo di riconoscimento è “approvazione” e se c’è una cosa che il mondo metal non ha in grande simpatia (a parte Lars Ulrich) è l’idea che qualcuno debba “approvarlo”.

Ingiustizia, resistenza, amore, umanità… ottime tematiche ma rappresentano solamente una piccolissima parte del pantheon metallico. Il metal ha un approccio sfaccettato e gode di una ricchezza di contenuti clamorosa, rispetto ad altri generi musicali.
Soprattutto, il metal fa risaltare i risvolti nascosti dell’esistenza umana e questo non lo rende un granché popolare.

Parla di sentimenti, come il reggae, ma non si tira indietro nell’esporre dettagliatamente quelli di carattere negativo: rabbia, dolore, disperazione, distacco, follia. Parla d’amore? Anche. Non è il tema più frequente, d’accordo, ma ne parla. E parla anche del suo contrario, la morte, quasi sempre con fini catartici. Parla pure di sesso. Un sacco di sesso, talvolta malato perché sì, malattie, patologie e morte sono parte integrante della vita e il metal, stronzo com’è, ce lo rammenta con una frequenza e un senso dello humour che non troverete da nessun’altra parte, men che meno nel reggae.

Ingiustizia e resistenza all’ingiustizia? Temi sentitissimi. Nei paesi di lingua spagnola e portoghese, talvolta pure francese, è tutto un fiorire di gruppi heavy metal più o meno “impegnati”, non saranno notissimi qua in Italia ma dalle loro parti sono o sono stati dei miti (gente come Paul Gillman, Alta Tensão, Alvacast, Zarpa, Satan Jokers, Ángeles Del Infierno, Obus, o i più famosi Trust e Mago De Oz). Di ingiustizia sociale si sono occupati innumerevoli gruppi di power americano, thrash e hardcore-thrash, death, persino grind. Eppure il metal fa qualcosa che altri generi musicali non fanno: espone il punto di vista della vittima e (in modo asettico) sovente anche quello del carnefice, e sappiamo bene quanti malintesi abbia generato questo approccio.

Quanto all’umanità, basta leggere il recente comunicato stampa di Gary Holt, con quel “FAMIGLIA” scritto a caratteri cubitali e il cuore a pezzi mentre saluta amici e fan per andare ad assistere il padre morente, o rileggersi cosa diceva il compianto Chuck Shuldiner mentre affrontava la sua battaglia contro il cancro… o partecipare a qualche festival underground e vedere i gruppi che si aiutano a vicenda per portar fuori la strumentazione… per capire quanta umanità circoli ancora oggi nella parte verace del metal.

Viviamo tempi in cui pare non esista più nulla di speciale; tutto è stato appiattito e il metal, dicono, è una musica come le altre. Sarà…
I tempi ci chiedono di essere modesti ma c’è gente che, a furia di bagni d’umiltà, s’è pulito quel poco di metallo che gli era rimasto addosso. Se non ti entra sottopelle, questa musica, va via facilmente. Ecco, forse è ciò che si può invidiare oggi al reggae: un’identità ancora solida e una coesione che il metal sta perdendo per correre dietro a questo “pensiero debole”, in cui uno vale l’altro.

A me invece piace pensare che, al di là dei riconoscimenti che possono essere attribuiti a questo e quello, il metal o una parte di esso andrà avanti come ha sempre fatto, badando al sodo e piazzando sullo sfondo le gare di popolarità. Una musica con caratteristiche proprie, coi suoi pregi e i suoi difetti, ma rude, determinata e indifferente, come un pianeta libero che basta a se stesso.