TrueMetal.it presenta: ‘From The Depths’ Vol 07
TrueMetal.it continua a mantenere vivo l’interesse per quelle incredibili band che vivono nel sottobosco underground. Di seguito le recensioni di alcuni album provenienti da questo mondo prezioso e vivace. Buona lettura.
Alice Tambourine Lover – ‘Down Below’’
Con la musica di Alice Tambourine Lover si viaggia. Lontano.
Verso mete oniriche, stravaganti, fuori dai radar e dalle coordinate stilistiche del rock tradizionale così come siamo soliti intenderlo sulle pagine di questo portale.
‘Desert Rock’: definizione che vuol dire tante cose ma, mai come in questo caso specifico, pare assumere delle sembianze davvero pertinenti ed azzeccate.
Un’eco straniante, stordente, allucinata. Un costante ‘effetto morgana’ che grazie a melodie ovattate, cantilenanti, ipnotiche, ottiene l’inatteso esito di rivelarsi davvero efficace nel descrivere panorami polverosi, immobili nell’arsura canicolare di dune sabbiose e pietraie assolate.
Le slide guitar appena accennate ma onnipresenti, le ritmiche che non urgono ma semplicemente accompagnano, insieme alla voce di Alice Tambourine (al secolo Alice Albertazzi), soffusa, sussurrata, evanescente, sono ingredienti di un’esperienza praticamente unica nel panorama musicale odierno.
Nulla a che vedere con la granitica intransigenza dello stoner, niente di affine all’hard rock stradaiolo o a qualche forma stralunata di blues. Semplicemente il rock bisbigliato dal vento del deserto. Quello che, come suggerito dal titolo del brano ‘Blow Away’, spazza via e soffia lontano i pensieri, disperdendoli verso un orizzonte sconfinato dai contorni indefiniti e trasognati.
Visionario, immaginifico, bizzarro, insolito. Un progetto talmente fuori dagli schemi da risultare quasi un piccolo capolavoro.
Voto 80/100 (Fabio Vellata)
https://www.facebook.com/alicetambourinelover/
Label: Go Down Records
Tracklist:
Down Below
Dance Away
Blow Away
Follow
Into The Maze
Rubber Land
Train
Surround You
Lineup:
Alice Albertazzi – Voce / Chitarre / Percussioni
Gianfranco Romanelli – Dobro / Chitarre / Harmonica
Dandy Brown – Voce in Dance Away
Sergio Altamura – Chitarra in Train
Andrea Albertazzi – Harmonica in Rubber Land
Blackhearth – ‘Blackhearth’
Arrivano dai Paesi Baschi, precisamente da Durango, i Blackhearth, sestetto dedito ad un heavy di matrice classica ispessito però da un importante apporto tastieristico che, traendo ispirazione da nomi di grosso calibro come Axel Rudi Pell, Brainstorm, Nocturnal Rites, Stigma IV e Jag Panzer, tenta la strada impervia delle soluzioni più improntate all’atmosfera avvolgente (quasi prog a voler esagerare) che non all’impatto diretto ed immediato.
Al netto di qualche ingenuità probabilmente dovuta ad un minimo d’inesperienza, il progetto può dirsi comunque già foriero di esiti interessanti.
Il lavoro svolto dalle chitarre di Alex Hernàndez e Endika Ortega, unito al tappeto prodotto dalle già citate tastiere di Julio Veiga, offre soluzioni talora ricche e fascinose, plumbee, evocative, in linea con la tetra copertina che accompagna questo primo album autoprodotto dalla band. Artwork che in qualche modo sembra voler ricordare ambientazioni orrorifiche un po’ alla King Diamond.
Non male il songwriting, ancora perfettibile ma già alla ricerca di qualcosa di personale ed elaborato, base fondante per la tessitura di pezzi piuttosto intricati quali ‘Tarker’s Mills’, ‘The Magician’ e ‘Blakhearth’, titanica traccia conclusiva di oltre undici minuti che si pone quale vessillo e manifesto programmatico del gruppo Basco.
Non convince del tutto la voce del singer Alain Concepciòn, a tratti un po’ monocorde, peccato non troppo grave in una panoramica complessiva che descrive comunque una band dal sapore profondamente underground dotata però di discreti numeri e qualche buona idea.
Un passaporto che potrebbe valere, in futuro, lo sdoganamento verso le fasce un po’ più alte delle scene heavy europee.
Voto 70/100 (Fabio Vellata)
https://www.facebook.com/blackhearth.metal
Autoprodotto
Tracklist:
Fying Away
Tarker’s Mills
Face The Enemy
The Truth You’ve Missed
Earls of Darkness
The Magician
Blackhearth
Lineup:
Asier Larrea – Batteria
Alex Hernández – Chitarre
Endika Ortega – Chitarre
Alain Concepción – Voce
Jorge Sánchez – Basso
Julio Veiga – Tastiere
Hunternaut – ‘Inhale’
Si affacciano al debutto discografico gli Hunternaut, quartetto bresciano radicato profondamente alle radici di un grunge oscuro, plumbeo, denso e disperato che non lascia dubbi sulle fonti d’ispirazione.
Alice in Chains, Soundgarden, Pearl Jam, Stone Temple Pilots: inevitabili muse da cui ‘Inhale’ recupera principalmente gli stati d’animo più cupi, compatti e privi di luminosità.
Il mondo degli Hunternaut non sembra mai indugiare in un mood solare o in qualche modo ottimista: lungo le otto tracce proposte le sensazioni che si rincorrono non lasciano spazio a momenti di apparente serenità. Il nervosismo, l’irrequietezza ed il perpetuo retrogusto amaro, malinconico, figlio di un disincanto alimentato da cieli color piombo e visioni chiuse dal cemento, si riverberano in un songwriting rabbioso e pessimista.
Anche quando il tiro diminuisce, come nella ballad ‘Out There’, l’impressione è sempre quella di un qualcosa di depresso e ineluttabile. Quasi demoralizzante.
In tutta onestà e proprio in forza di un profilo quasi mortifero nella propria accezione inquieta, l’ascolto di un disco come ‘Inhale’ apre ad un paio di dubbi consistenti. Anzitutto, la possibilità reale che un po’ di noia s’impossessi del fruitore prima della fine dei quaranta minuti di durata. Tutto da verificare inoltre, il potenziale concreto di una proposta che sarebbe risultata forse underground anche negli anni novanta, periodo storicamente più ricettivo nei confronti di suoni simili.
Hanno senza dubbio dei numeri (voce, chitarre, sezione ritmica: tutti compiono egregiamente il proprio dovere), ma l’impenetrabile coltre caliginosa, le atmosfere costantemente chiuse e piovose che evocano gli Hunternaut con i loro brani rischiano di rappresentare un deterrente per molti eventuali fruitori.
Magari a loro piace proprio così.
Noi, dal canto nostro, non possiamo purtroppo negare di esserci annoiati un po’…
Voto 60/100 (Fabio Vellata)
https://www.facebook.com/HunterNautBand/?rc=p
(R)esisto Distribuzione
Tracklist:
Oxidize
Inside me
Backbone
Soap bubbles
Hundrends of scars
Inhale
Out there
I’ll be there
Lineup:
Cristian Longhena – Voce / Chitarre
Stefano Ronchi – Basso
Luca Prandelli – Batteria
Alessandro Biasi – Chitarra
Onydia – ‘Reflections’
Con ‘Reflections’, i symphonic metaller Onydia portano in musica una gamma di idee che fanno della melodia e della struttura ‘non ordinaria’ il loro trademark. Non possiamo parlare di progressive metal, sebbene a tratti si possa riconoscere nelle trame quella speciale attitudine che fa la felicità di chi si aspetta un qualcosa di strutturato da un brano. Non possiamo nemmeno parlare di gothic metal, in quanto manca lo spessore magnificente nel tempo messo in opera da band quali Tristania o Within Temptation. Altresì vero è che i musicisti ci sanno fare alla grande, sia vocalmente, sia strumentalmente. Purtroppo non riesco però a trovare lo slancio artistico, quel ‘click’ nell’orecchio che ti fa dire ‘Wow, qui c’è qualcosa di notevole’. Tutto suona un po’ troppo canonico e nemmeno il grandioso lavoro sui suoni ad opera dei Kick Recording Studio (Fleshgod Apocalypse) eleva l’interesse dell’ascolto. I grandi amanti del genere sapranno sicuramente smentirmi.
Voto 60/100 (Nicola Furlan)
https://www.facebook.com/onydiaband/
Label: Revalve Records
Tracklist:
The Unknown
Breath
Silence
The Memory of My Time
My Paradise
The Colour of Nothingness
A New Safe Path
Dyaphany
Lineup:
Luca Zamberti – Drums
Daniele Amador – Guitars
Eleonora Buono – Vocals
Zenit – ‘Black Paper’
Gli Zenit sono una progressive metal band italiana alle prese con una sorta di progressive metal particolarmente interessante. Mi spiego. Quando si approccia ad un disco progressive metal (mi si passi la licenza nell’etichettare un genere non etichettabile per ovvie ragioni), nella maggior parte dei casi si colgono gli stilemi dei grandi maestri del genere: Shadow Gallery, Dream Theater e compagnia al seguito. Sono pochi invece quelli che hanno il coraggio di osare sulla scia degli innovatori del genere (leggasi dietro le righe Devin Townsend piuttosto che Between the Buried and Me). Ecco, gli Zenit fanno parte di questo secondo modo di intendere la progressività di un songwriting. ‘Black Paper’ contiene dei picchi di genialità notevoli, delle sezioni soliste brillanti, dei riff pregni di groove e tanta personalità, già riconoscibile. Il full-length manca però di coerenza stilistica, nel senso che da band che ‘osano tanto’ ci si aspetta anche un disco che ‘dica tanto’ per cui, per chi li conoscesse, mi riferisco allo spessore di album di band quali Pain of Salvation o Devin Townsend (già citato). Ai dischi di questi la band dovrebbe puntare. Sembra ambizioso? Sì, ma il gruppo sembra avere anche i mezzi per questa sfida ovvero quella di far parte di quei gruppi che garantiscono che un disco venga ricco più per il titolo e non solo per la band che lo ha composto. Infine, ma qui gioca forte il solo gusto personale, non mi piace il growl ad opera di Andrea Pedruzzi, troppo poco corposo. In definitiva, a parer di chi scrive, la strada è quella giusta.
Voto 67/100 (Nicola Furlan)
https://www.facebook.com/Zenit.Italy.Official/
Label: Time To Kill Records
Tracklist:
Zenit
Wraith
Above and Below
Crow’s Perch
King Of Lies
The Prophecy
Black Paper
Nadir
Lineup:
Federico Fracassi – Vocals
Simone Prudenzi – Guitars
Andrea Pedruzzi – Bass
Daniele Carlo – Drums
Nebula – Holy Shit
I Nebula sono un po’ una di quelle leggende a confine tra il mainstream (in quanto conosciutissimi dagli amanti del genere) e l’underground, una di quelle band iperattive nel circuito dello stoner (marcatamente hard rock)/sludge che porta con sé quel rispetto degno di chi ha saputo vivere e promuovere, alla grande, un certo movimento artistico. ‘Holy Shit’ è il quinto disco della loro carriera ed esce dopo tredici anni dall’ultimo ‘Apollo’. C’è poco da dire in termini musicali: zero orpelli compositivi a favore di un approccio diretto, fortemente ‘hard’ e non privo di contenuti ricercati a partire (o a chiudere come meglio preferite) dalla morbida ‘The Cry Of A Tortured World‘ piuttosto che dalla cosmica sludge oriented ‘Man’s Best Friend‘. Certo, in ‘Holy Shit’ ci sta tanto tanto mestiere, però di quello fatto bene potete starne certi!
Voto 76/100 (Nicola Furlan)
https://www.facebook.com/NebulaBand/
Label: Heavy Psych Sounds
Tracklist:
Man’s Best Friend
Messiah
It’s All Over
Witching Hour
Fistful of Pills
Tomorrow Never Comes
Gates of Eden
Let’s Get Lost
The Cry of A Tortured World
Lineup:
Eddie Glass: guitars/vocals
Dennis Wilson: bass
Ruben Romano: drums
Brutal Order – ‘Homo Homini Lupus’
‘Homo Homini Lupus’ è l’EP d’esordio dei brasiliani Brutal Order. Il loro è un Thrash, non troppo esasperato, pienamente influenzato dalla Old School della Bay Area.
I cinque brani che compongono il lavoro si ascoltano volentieri, sono abbastanza articolati e suonati bene, dimostrando che il gruppo è compatto, forte ed è pronto a sbarcare nel mondo discografico.
Certo, qualcosa deve essere aggiustato. Per prima cosa ci vuole un po’ di originalità, per non rischiare di finire in mezzo ai molti che si tendono a scordare, e poi gli arrangiamenti devono essere un po’ più curati per dare più completezza e diversificazione ai brani (ad esempio ‘Homo Homini Lupus’, ‘Working Till Death’ e ‘Brutal Order’ finiscono tutte con un lungo assolo, come troncate).
Per il resto l’EP ha un buon tiro, con dinamiche e melodie che ne accrescono l’interesse, la voce non è tra le migliori ma è comunque apprezzabile, le ritmiche sono incisive sia quando sono cadenzate sia quando accelerano e gli assoli hanno la loro importanza.
In poco più di venti minuti i ‘Brutal Order’ ci fanno sapere che sanno essere veloci e diretti, come in ‘Homo Homini Lupis’, pesanti ed aggressivi, come in ‘Working Till Death’ ed energici ed arrabbiati come in ‘Revolution Or Self Destruction’. Insomma, una band dal buon potenziale che deve trovare la sua strada e speriamo lo faccia con il primo album.
VOTO: 65/100 (Andrea Bacigalupo)
https://www.facebook.com/brutalorder/
Label: autoprodotto
Tracklist:
Homo Homini Lupus
Burn
Working Till Death
Brutal Order
Revolution Or Self Destruction
Lineup:
Tiago Xaves – Vocal and guitar
Randall Silva – Guitar
Risaldo Silva – Bass
Lulu Batera – Drums
Asphaltator – ‘World Asphaltation’
Molto interessante questo ‘World Asphaltation’, EP d’esordio dei romani Asphaltator pubblicato autonomamente all’inizio del 2017 e composto da sei pezzi, per la durata complessiva di poco più di mezz’ora.
Il loro è un Thrash che pesca al cento per cento dalle produzioni anni ’80, senza neanche fare un tentativo per addentrarsi in sperimentazioni o proporre qualcosa di più moderno. Ma più che subire l’influenza di quei grandi gruppi, la cui maggior parte resiste ancora oggi, gli Asphaltator ne mantengono la tendenza, tirando fuori quella sana e sprezzante cattiveria di un tempo che puntava a contestare qualsiasi cosa non andasse, dalla corruzione della società, ai clichè religiosi, alla violenza … insomma, tutte tematiche tremendamente attuali.
Il mini album, dotato di un buon sound, superficialmente e volutamente grezzo ma corposo, che non nasconde la passione e le capacità tecniche degli artisti, è intriso di amara aggressività ma anche di buone andature melodiche. La voce è sporca e grintosa, sa esprimere rabbia ma anche disperazione; le ritmiche sono serrate e marziali, gli assoli importanti. Questi si protraggono con lunghi e vorticosi scambi, uno per cassa, ponendo evidenza sulle differenze di stile tra le due asce e ricalcando quanto accade concretamente sui palchi. Insomma, se ‘World Asphaltation’ fosse stato stampato trentacinque anni fa, sarebbe emerso comunque in mezzo a tutti quei grandi dischi dell’epoca, proprio perché dotato di alcuni elementi particolari che lo avrebbero reso interessante e speciale proprio come avviene oggi.
Buona l’idea di concludere il lavoro trasformando il brano ‘The Power of Love’ di Huey Lewis and the News, costituente la colonna sonora del film ‘Ritorno al Futuro’ del 1985, in un pezzo Metal carico di ironica energia: futuro, passato non contano per gli Asphaltator, solo il presente. Attendiamo, con vero interesse, il primo album.
VOTO: 70/100 (Andrea Bacigalupo)
https://www.facebook.com/asphaltator
Label: autoprodotto
Tracklist:
Army of Darkness
Good Friendly Violent Fun
Progress Is a Crime
God Is Dead
World Asphaltation
The Power of Love (Huey Lewis and the News cover)
Lineup:
Flavio Falsone- singer
Fabrizio Kasparek – guitar
L. J. R. – guitar
Emiliano Laglia – Bass
Megasteph – Drums
Walkyrya – ‘The Invisible Guest’
Carriera che si sviluppa su un lasso di tempo molto lungo quella dei Lucani Walkyrya, partiti nel 1999 in quel di Potenza e con all’attivo due demo (‘Walkyrya’ del 2004 e ‘The Banished Story’ del 2005’) ed un album autoprodotto nel 2013 dal titolo ‘End Line …’.
Passati altri cinque anni, fatta qualche modifica alla propria lineup e concluso un contratto con la label Time to Kill Records, il combo si rimette in pista con ‘The Invisible Guest’, nuovo Full-Length pubblicato il 5 giugno 2018.
Il nuovo lavoro si presenta con un sound non troppo estremo ma robusto, di forte impatto, basato su ritmi potenti posseduti da una forte anima scura e rabbiosa. Si sente l’ispirazione tratta dal Thrash anni ’90 fusa con elementi più moderni, con continui passaggi che alternano la dura potenza con la melodia più coinvolgente, espressa essenzialmente durante i refrain e gli assoli.
Aumenta l’aurea oscura la voce di Vincenzo Santopietro, di base già profonda ed irosa, dai toni cupi, riesce a passare al growl ed allo scream più maligno senza apparente sforzo, incrementando l’enfasi dei brani.
Le composizioni privilegiano la dura cadenza del tempo medio, intervallato da accelerazioni e partiture più tirate. Tra queste si pongono in evidenza l’opener ‘Black Hills’, una vera schiacciasassi, la veloce ‘All the Time’, che cala come un’ ascia su un ceppo, con un refrain esaltante quanto diretto, ‘Evil Crown’, una sequenza di strofe malinconiche che s’induriscono violentemente con un continuo alternarsi di sensazioni ed emozioni e la conclusiva ‘Out of Brain’, irosa e sostanziale.
Lavoro molto maturo questo ‘The Invisible Guest’, curato nei particolari e ricco di emozioni, eleva di parecchio la qualità dei Walkyrya, che fanno un buon passo in avanti e trovano la loro strada. Assolutamente da non perdere.
VOTO: 70/100 (Andrea Bacigalupo)
https://www.facebook.com/walkyryaband/
Label: Time To Kill Records
Tracklist:
Black Hills
Open Grave
All The Time
Drive Angry
Evil Clown
Venom Tears
Out Of Brain
March Or Die
Lineup:
Vince Santopietro – vocals
Federico Caggiano – Guitar, chorus
Arcangelo Larocca – Bass
Tiziano Casale – Drums
Nefesh – ‘Panta Rei’
Ascoltate progressive metal e non avete mai sentito parlare dei Nefesh? Male! I marchigiani hanno sempre onorato la loro carriera con uscite sempre di qualità altissima e volte a soddisfare ogni tipo di palato fino, raccogliendo purtroppo molto meno del seminato ingiustamente, oseremmo dire. La loro terza prova ufficiale, ‘Panta Rei’, è un disco come sempre molto bello, complesso e che ancora tenta di provare a dire qualcosa in un universo pressoché stantio come quello del progressive metal attuale. Strutturalmente è un disco che concettualmente parte dalla fine, Outro, e si dipana in tre trilogie volte a rappresentare la vita a livello interiore. Io, Noi, Voi. I primi brani delle trilogie sono sempre completamente in inglese, con musiche più dure e strutture meno regolari: i secondi sono sempre completamente in italiano, con musiche decisamente più soft, strutture più semplici e musiche più rilassate e i terzi sono un mix delle due forze opposte precedenti con testi in italiano e inglese che richiamano le due diverse spinte interiori. C’è di che leccarsi i baffi e il disco non delude affatto le aspettative. Troviamo come sempre il grandioso Paolo al microfono (peccato abbia da poco lasciato la band), la sezione ritmica e le tastiere sono variegate e sempre al servizio del pezzo e la chitarra di Luca non è mai banale o fine a se stessa. I Nefesh sono una band particolarmente versatile e passano con naturalezza da momenti violenti a ballad acustiche di pregevole fattura; ‘Shades And Lights’, ‘Contaminations’ e questo nuovo nato costituiscono un ottimo sunto di come poter suonare prog senza per forza esagerare coi funambolismi. La chiave del genere è l’equilibro e i Nefesh in questo sono sempre stati maestri; per una band che di fatto suona pochissimo dal vivo la cosa è sorprendente.
“La realtà è una realtà che cambia con noi stessi. Possono esserci realtà staticamente vere? Quando finiamo il percorso con la sensazione di aver capito la realtà delle cose ci ritroviamo a riaffrontare le problematiche iniziali che ci avevano poi portato a cercare delle risposte dentro di noi e poi fuori. È un eterno ritorno che però scorre, e progredisce tornando su se stesso sempre diverso, come una ruota che girando su stessa procede nel suo cammino”. Luca Lampis
Questo ci vuole insegnare ‘Panta Rei’ e questo ci insegna, è un’opera che non si svela subito ma che richiede parecchi ascolti e molta dedizione soprattutto verso il concept alla base. Nel momento in cui ci si entra dentro lo si ascolta sempre con piacere e non viene alla noia praticamente mai; è uno di quei dischi che, se avesse avuto il nome di una band famosa a caso sopra e una super-produzione, avrebbe fatto sfracelli. Dategli assolutamente un’opportunità, siamo certi che sarà in grado di darvi una lunga fila di soddisfazioni.
Voto: 80/100 (Gianluca Fontanesi)
Label: Sliptrick Records
Tracklist:
Outro (Preludio Al Ritorno)
Trilogia: Il Ritorno
Panici
Luce Candida
The Hidden Sun
(Preludio Al Divenire)
Trilogia: Il Divenire
The Hell You Are!
Vite Condivise
Please Stay
(Preludio Al Risveglio)
Trilogia: Il Risveglio
Be Damned!
Costellazioni
A New Inner Vision
Intro
Line Up:
Paolo Tittarelli: Voce
Luca Lampis: Chitarra, Testi
Diego Brocani: Basso, Doppio Basso
Michele Baldi: Batteria
Stefano Carloni: Tastiera
Dish Is Nein – ‘Dish Is Nein’
Ormai quasi un anno e mezzo fa è uscito, questo primo EP della formazione nata sulla pietra tombale dell’esperienza Disciplinatha (come Cristiano e Dario hanno definito la sequenza costituita dal cofanetto “Tesori Della Patria” -2012- e dal documentario “Questa Non E’Un’Esercitazione” https://www.youtube.com/watch?v=iLB2uq3FSDA -2015 ).
E quando è uscito l’EP, per me (e non solo, direi) è stata una bomba.
Al di là del sapore abbastanza Ministry/Al Jourgensen del primo singolo (video) uscito, ‘Toxin’, si capiva dal testo che erano tornati a bruciare il fuoco e l’ispirazione delle origini, ma in un contesto che è quello di nuovi orizzonti offerti dalla piena maturità stilistica (e intellettuale).
Se c’era qualcosa che distingueva i Discliplinatha dei primi due vinili erano una spietata cattiveria e un’intelligenza affilata, letale. Cose che si erano poi smussate e perse negli anni 90. E si ritrovano oggi in ‘Dish Is Nein’ mescolate a una nuova profondità di prospettiva, a un inedito lirismo, ad un’amarezza quasi militante. E musicalmente ad un pieno abbraccio di sonorità industriali dove la chitarra di Dario è ancora ben presente ma non dominatrice assoluta.
Coloro che 30 anni fa “hanno saputo tirare fuori al momento giusto l’estetica più sbagliata”, che 30 anni fa criticavano e negavano, e per questo furono criticati e negati, sfoderano un coro alpino e un Cristiano quasi teatrale nel recitare ” Per mutilare Dio/ Servito è il ferro di due mondi almeno/Per terminare l’uomo/ Ne bastan dieci grammi forse meno/Il peso di una chiave, di un dozzinale anello, di una vite/Il calibro, registra solo il vuoto/Le forme le funzioni son finite”(‘La Chiave’).
‘Macht Frei’ forse richiama un’evoluzione del suono dei primi Disciplinatha (immaginatela senza tastiere e con la sola chitarra a far tutto), e alla fine arriva l’ideale anti-singolo di sempre, ‘Eva’. Se “Buone nuove io non ne ho”, comunque, in fondo, “La primavera è finita/ ma forse la vita comincia da qui”.
(Heintz Zaccagnini)
https://www.facebook.com/DishIsNein/
Label: Contempo Records
Tracklist:
la chiave della libertà
Toxin
L’ultima Notte
Macht Frei
Eva
Finale
Lineup:
Dario Parisini – Chitarra
Cristiano Santini – Voce
Justin Bennet – Batteria
Marco Maiani – Basso