TrueMetalStories: Alcest, ricordi di un altro mondo
TrueMetalStories: la rubrica in cui presentiamo band giovani e pronte a sfondare, o band di lungo corso che ancora non hanno ricevuto il successo che meritano.
Tutto inizia anni fa, verso la fine degli ‘80.
«Avevo dei flash, delle brevi apparizioni che sembravano provenire da altri mondi, o forse da altre vite. O per lo meno questa è la mia interpretazione. Da piccolo mi accadeva ovunque, ma crescendo si presentavano soprattutto quando ero in diretto contatto con la natura, ad esempio camminando in un bosco. Era come se la natura fosse un ponte tra questo mondo e un altro. Ma la cosa che mi sconvolge di più è che ho sempre sentito di appartenere a quel mondo, e non a questo. […] La musica degli Alcest è l’unico modo che ho per non lasciar sfuggire queste esperienze».1
Stéphane Paut è un bambino apparentemente come tanti altri, che vive un’infanzia spensierata in una piccola cittadina di provincia nel sud della Francia. Ma, a volte, ha delle visioni, che lo turbano e lo rapiscono in uno stato di estasi. Non lo racconta a nessuno; inizialmente perché pensa che sia normale; poi perché capisce che non lo è. Crescendo le visioni si fanno più rare, fino al giorno in cui non si presentano più.
Il passatempo preferito di Stéphane è la musica: è un vero talento e sa suonare la chitarra, la batteria e il basso. A 14 anni scopre il black metal e si vota all’oscurità più completa. Stinge amicizia con tale Ludovic Faure, e insieme fondano una band NSBM, tali Dor Daedeloth, sotto il cui moniker registrano un demo intitolato «Aryan supremacy». Stéphane, che suona la batteria, si ribattezza Neige, ‘neve’. Ludovic sarà più tardi conosciuto come La Sale Famine de Valfunde o, più semplicemente, Famine. Quella band, invece, diventerà i Peste Noire. Ma questa è un’altra storia.
L’appetito di oscurità dell’adolescente Neige non si sazia. Lo stesso anno, nel 2001, fonda anche un altra band black, i Mortifera. Anche quest’esperienza, però, lo lascia insoddisfatto. Neige sente di avere qualcosa di diverso da dire, e sente di aver bisogno di altri mezzi per farlo. Decide quindi di risuscitare un piccolo progetto solista al quale aveva dato il via nel 1999: si chiama Alcest, nome scelto unicamente per il suo suono e senza un significato specifico.
Con l’aiuto di Famine e un altro membro dei Dor Daedeloth dà alla luce un demo, «Tristesse hivernale». Quest’ultimo è composto da quattro pezzi che oggi definiremmo depressive black metal. Quattro pezzi partoriti dalla mente di un quattordicenne che aveva scoperto il black metal l’anno prima. Quattro pezzi certamente derivativi ma di quelli che, anche quando li ascolti, fai fatica a crederci. Ma se hai orecchio per il DSBM lo capisci subito: questo Neige ha talento. E tanto.
Tuttavia, nonostante le ottime premesse, la cosa subisce un’immediata battuta d’arresto. Stéphane riconosce quel biennio, 2000-2001, come un periodo permeato da un’oscurità nella quale non si sente a suo agio. «Cercavo di essere dark. Dico ‘cercavo’ perché non lo ero mai a sufficienza. Cercavo di essere una persona malvagia, ma non mi riusciva un granché bene».2
Si apre così una nuova fase creativa, una faticosa ricerca di una propria voce, meno malvagia e più personale. Entra nei Phest, band dal sound oscuro ma melodico nella quale suonerà il basso, e dà inoltre vita, insieme ad Audrey Sylvain e Fursy Teyssier (fondatore dei Les Discrets) ad un altro progetto, che continuerà con ottimi risultati fino al 2009: gli Amesoeurs.
Neige continua parallelamente a dedicarsi al progetto Alcest. Decide di renderlo una one-man band ed è forse questo l’elemento decisivo: la ricerca musicale condotta nella libertà creativa più assoluta dà infine il suo primo frutto nel 2005. Si tratta di un EP la cui importanza non deve essere sottostimata.
2005 – Le secret
L’EP s’intitola «Le secret» (‘il segreto’) ed è pubblicato dalla Drakkar Productions in 1000 copie. È composto da due tracce di circa 15 e 13 minuti e dà il via al movimento più rivoluzionario della storia del black metal: il blackgaze. Il nome indica naturalmente la mescolanza tra black metal e shoegaze, ma il genere è noto anche come post-black metal in quanto spesso, più che allo shoegaze, il black viene mescolato al post-rock.
Se ascoltiamo «Le secret», sforzandoci di lasciare da parte preconcetti o pregiudizi di sorta, sentiamo questo. Il primo brano, omonimo, da sfoggio di un drumming che ricorda il Burzum dei bei tempi e che sostiene delle chitarre molto distorte e ossessive. Questi elementi di black canonico sono però accompagnati da altro: gli accordi delle chitarre sono (anche) in maggiore; e, quasi avvolta e soffocata dalla massa sonora circostante, c’è la voce in clean di Neige, simile a quella di un bambino per timbro ed interpretazione. Il feeling è malinconico o, per lo meno, nostalgico: il tutto è dominato da una profonda dolcezza. La parte finale del brano è caratterizzata da una sezione più movimentata e vicina al black metal classico, seguita infine da un arpeggio simile a quello d’apertura. «Elévation», seconda e ultima traccia, è invece caratterizzata da melodie celestiali, accompagnate da elementi più classicamente depressive.
«Le secret» si dimostra quindi effettivamente assai radicato nel black metal, ma accanto a questa matrice ne è presente un’altra, più dolce e melodica, soprattutto nella title-track, che può essere assimilabile, per lo meno a livello di atmosfera, al post-rock e allo shoegaze più leggero. I brani sono ottimi, anche se non perfetti; va inoltre sottolineato che la loro formula è ancora lontana dall’essere aderente a quello che oggi definiamo blackgaze. Ma l’importanza di questo EP è data dal fatto che esso costituisce le fondamenta dalle quali il genere si svilupperà in futuro. A sottolinearlo ci penserà anche la Prophecy productions, che nel 2011 lo ripubblicherà in veste rinnovata e con l’aggiunta di una nuova registrazione dei due pezzi.
2007 – Souvenirs d’un autre monde
Dopo «Le secret» l’attenzione di Neige si sposta altrove. Intorno al 2006, in seguito alla evidente incompatibilità ideologica con Famine, lascia i Peste Noire. Tuttavia questo non gli impedirà di cantare e suonare ancora per la band in qualità di ospite (avete presente la voce disumana in «Dueil Angoisseux», uno dei brani black metal più strazianti di sempre? Sì, è Neige.). Ritornerà solo momentaneamente in formazione nella band nel 2007 per «Folkfuck Folie», dopo il quale i rapporti tra i due vengono per sempre troncati.
Neige rimane invece fedele all’altra sua creazione, gli Amesoeurs. Nel 2006 la band registra infatti un bellissimo EP intitolato «Ruines humaines», che costruisce il primo risultato discografico della band. L’EP racchiude in sé le tracce dei nuovi traguardi musicali di Neige portati, in parte, più in avanti, ma è orientato in una direzione stilistica molto più dark, urbana e disperata di quella del progetto Alcest.
Se l’obiettivo di quest’ultimo è quello di raccontare le visioni beatifiche del piccolo Stéphane, infatti, la strada sonora da prendere sarà piuttosto quella della nostalgia, della natura e della luce. Su queste premesse si concretizza il primo vero album del progetto Alcest, «Souvenirs d’un autre monde». Il disco è, ancora oggi, considerato da molti il migliore della band, e all’uscita ha un successo notevole; questo anche grazie al contratto ottenuto con la Prophecy productions, etichetta perfetta per gli Alcest i quali, data la latitanza di Falkenbach, diventeranno la sua band di punta.
Il sound in quanto tale è difficile da definire, come spesso avviene coi capolavori: questi ultimi escono sovente da qualsiasi schema, segno di una creatività che scavalca i limiti imposti dalle nomenclature e dalle etichette di genere. Il disco riprende il discorso iniziato con la prima traccia di «Le secret» e lo porta molto più in là nella direzione della dolcezza e della melodia. Il cantato è interamente clean e culla l’ascoltatore con morbide nenie, così come le chitarre acustiche e il tappeto di chitarre elettriche, dal suono caldo e pastoso. Di black, a livello sonoro, non rimane davvero che qualche indizio: la distorsione delle chitarre e il drumming a tratti molto intenso sono forse gli unici elementi restanti.
Ma questo disco – ed è questo che lo rende profondamente opposto al black metal – incarna in maniera perfetta la poetica della luce e della nostalgia; è la rappresentazione di quell’oltremondo perduto per sempre da Stéphane bambino. Così, ad esempio, «Printemps éméraude» (‘primavera di smeraldo’) altro non è che una descrizione di una visione:
Les sous-bois au printemps Sont une voûte céleste Constellée d’émeraudes. Les feuilles des arbres dansent Avec la brise légère Et les rayons du soleil Pour que sa lumière Les transforme en joyaux. |
I sottoboschi in primavera Sono una volta celeste Costellata di smeraldi. Le foglie degli alberi danzano Con la brezza leggera E i raggi del sole Così che la sua luce Li trasformi in gioielli. |
La seguente «Souvenirs d’un autre monde» (‘ricordi di un altro mondo), che dà il titolo all’album, esprime il sentimento di Neige di appartenere a quella dimensione misteriosa:
D’où je viens le temps n’existe pas, “N’aie crainte, à présent tout est fini |
Da dove vengo io il tempo non esiste, ‘Non aver paura, è tutto finito ora |
Se il testo di «Les iris» sembra invece inintelligibile, è invece perché lo è. Si tratta infatti di suoni liberi, che non seguono alcuna regola oltre a quella dell’eufonia. L’espediente può sembrare bizzarro, ma in realtà è una trovata geniale ed ha un senso profondo. In questo modo, infatti, l’ascoltatore viene messo nella stessa situazione del piccolo Stéphane: viene posto di fronte ad uno spettacolo dalla bellezza sublime ma assolutamente incomprensibile. E, davanti ad esso, non ha altra scelta che abbandonarsi alla contemplazione estatica.
Anche sulle ultime tracce dell’album si potrebbero spendere parole di lode. Va certamente menzionata «Sur l’autre rive je t’attenderai» (‘Sull’altra riva ti aspetterò’), che risulta forse il brano migliore del lotto in virtù dell’angelica voce di Audrey Sylvain dei già citati Amesoeurs. Si tratta dell’unica parte dell’album a non essere eseguita da Neige; e, anche per questo, acquisisce un valore simbolico notevole.
2010 – Écailles de lune
Dopo aver pubblicato, nel 2009, lo stupendo album «Amesoeurs» con la band omonima (che di lì a poco si scioglierà), Neige torna agli Alcest e decide di cambiare le carte in tavola. Per il nuovo disco, intitolato «Écailles de lune» (‘scaglie di luna’), decide di far entrare in formazione un altro membro: trattasi di Winterhalter, batterista che per altro aveva sostituito Neige nei Peste Noire per qualche tempo. Winterhalter non partecipa al processo di composizione ma il suo contributo è evidente nel prodotto finale.
L’album presenta infatti delle influenze black molto più pronunciate del precedente, e questo non solo grazie al (comunque parziale e limitato) ritorno dello scream, ma anche in virtù del drumming, a tratti davvero potente come, ad esempio, nell’ottima «Écailles de lune (part II)». Le ritrovate influenze black si mescolano in modo equilibrato alle soluzioni melodiche già sperimentate nell’album precedente, dando così vita ad un blackgaze più equilibrato nelle sue due parti: la formula è ora perfettamente codificata e il genere è maturo.
Ma come si coniuga lo scream lacerante con la dolcezza e la nostalgia del concept sotteso agli Alcest? Neige la spiega così:
«Le urla vengono dalla mia parte non umana: rappresentano la mia frustrazione per il fatto di essere umano ora, e per il fatto di non riuscire più a provare le cose che provavo da piccolo e raggiungere quel mondo. È una cosa che, se canto dolcemente, non posso esprimere al meglio. Le urla altro non sono che la voce della condizione e della frustrazione umane».3
Percées de lumière Au bord de l’onde Je m’abreuve à sa lumière, Là haut un ciel Ivre de lumière, |
Fenditure di luce Sul bordo dell’onda Mi abbevero alla sua luce, Là, in alto, un cielo Ebbro di luce, |
Se la formula è perfetta, l’album lo è un po’ meno, soprattutto nella sua seconda metà, nella quale mostra un lieve calo di ispirazione rispetto a «Souvenirs…». Fortunatamente le prime tre tracce sono invece di qualità altissima. Da segnalare, oltre la già citata «Part II» della title-track, la splendida «Percées de lumière», sicuramente la canzone migliore del lotto e forse tra le più memorabili dell’intera discografia alcestiana.
2012 – Les voyages de l’âme
Nel periodo successivo a «Écailles de lune» Neige si mantiene assai attivo in altre band (Glaciation, Lantlôs, Old Silver Key). Al contrario, il nuovo lavoro degli Alcest, pubblicato nel 2012 col titolo di «Les voyages de l’âme» (‘i viaggi dell’anima’) è l’album della stasi. Dopo aver codificato una formula vincente in «Écailles de lune», Neige sembra fermarsi a godersi il risultato raggiunto, quasi prendendosi una pausa dalla sua inquieta e perpetua ricerca musicale.
Il disco, attesissimo da critica e pubblico, si attesta quindi sulle posizioni già acquisite in precedenza, dando agli ascoltatori esattamente quello che si aspettano. L’impatto emotivo dei brani è, come sempre, immediato e profondo. Manca forse, tuttavia, quella fiamma vitale e quell’originalità che caratterizzava i brani degli altri dischi. L’elemento più vistoso nella composizione dell’album è, banalmente, il numero di tracce, che passano dalle sei dei due dischi precedenti ad otto: il risultato è comunque un buon album, ma più diluito e meno incisivo rispetto ai precedenti.
Ottima l’opener, intitolata «Autre temps», ma soprattutto «Faiseurs de mondes» (‘creatori di mondi’): quest’ultimo è il pezzo emozionalmente e sonoramente più variegato. Spazia dai ritmi e dalle melodie distese e cristalline ad un black intensissimo: il finale è un crescendo al cardiopalma, con blast beat e tremolo sparatissimi che provocano brividi alti così.
All’uscita dell’album, la critica e il pubblico sono quasi unanimi: l’album è bello e non c’è niente che non vada, ma urge un cambiamento per evitare l’ormai imminente stagnazione. Neige ne è consapevole, e il cambiamento avverrà con l’album successivo. Oh, se avverrà.
2014 – Shelter
Poco prima dell’uscita del nuovo album, Neige rifletteva con queste parole sulla direzione degli Alcest e sul loro sound:
«Non sono sicuro che gli strumenti elettrici siano esattamente il mezzo adatto per il mio scopo [quello di creare uno stato di trance, ndr]. Se potessi sostituire tutto con dei cori, penso che la cosa comincerebbe ad essere più vicina a quello che ho in mente. So che sembra kitsch, ma nella mia testa riesco proprio a sentirlo! […]. Non penso che riuscirò mai ad essere soddisfatto finché non riesco a trasporre tutto in una dimensione musicale molto più pura. Pensa: prendi le note delle chitarre e di tutto il resto e, invece di suonarle, le canti: ecco, se io potessi avere a disposizione cinquanta persone alle quali far cantare le melodie, Alcest sarebbe quello. Ma, dal momento che non ho abbastanza soldi per farlo, far esprimere gli Alcest attraverso il metal è l’unico modo che ho per rendere i brani sufficientemente potenti. Quello di cui sono alla ricerca è il suono dell’amore, è il suono degli ‘angeli’ (anche se non mi piace usare questa parola perché viene sempre fraintesa); melodie pure e cristalline, che sono la cosa più vicina a quello che ho provato durante le mie esperienze. […] In definitiva, penso di non poter più tenere gli Alcest nella dimensione del metal. In quell’ambito ho fatto tutto quello che potevo, ora devo voltare pagina e trovare dei nuovi modi per arrivare a quello che voglio esprimere».4
E «Shelter», primo album dal titolo inglese, è davvero l’album del cambiamento: prodotto in Islanda negli studi di Birgir Jón Birgisson (Sigur Ròs), si apre al mondo anche tramite svariati ospiti. Tra di essi spicca Neal Halstead, cantante degli Slowdive, una delle due band shoegaze più famose di sempre. L’intento è chiarissimo: quello di abbandonare in modo più assoluto il black (e il metal in generale) e puntare con decisione verso l’altro polo da sempre presente nel progetto. Gli Alcest realizzano, così, un album di puro post-rock.
Parte del pubblico è aspramente ostile alla mossa, altri comprendono e plaudono. La verità, però, stavolta non sta nel mezzo: «Shelter» è un bellissimo disco, punto. È un belissimo disco che rinuncia ad essere originale per seguire il sentimento. È l’album della liberazione, del ‘coming out’; è il «The cult is alive» degli Alcest.
Il disco tratta del concetto di shelter, appunto, di rifugio. «È semplicemente un posto sicuro nel quale rifugiarsi, è quella cosa segreta che tutti abbiamo dentro, e alla quale ricorriamo quando la vita intorno a noi va troppo veloce e ci provoca ansia», spiega Neige. «[…] Può essere qualsiasi cosa: una persona, un film, la musica. È quel qualcosa che ti ricorda chi sei, come uno specchio. […] Per me è la relazione che ho con il mare. Adoro passare del tempo al mare, godendomi piccoli momenti di semplicità, distaccato dallo stress della vita, seduto sulla spiaggia a guardare le onde».5
Tutta l’estetica del disco ruota infatti intorno al mare e, inevitabilmente, al sole. Sì, perché «Shelter» è un disco incredibilmente solare; non c’è altra parola che possa definirlo più accuratamente. Ed è questa la vera differenza rispetto a tutti gli album precedenti. Sonoramente, infatti, è sì molto lontano dal disco del 2010 e da quello del 2012 – di qui lo shock di alcuni ascoltatori –, ma, a ben vedere, non è così diverso rispetto al debut «Souvenirs d’un autre monde». Sono però le atmosfere, distese e sognanti, estatiche e prive di sofferenza (solari, per l’appunto) ad essere radicalmente diverse.
Il pezzo migliore? Probabilmente l’ultimo, dal titolo che riassume tutti i significati di quest’album: «Délivrance», ‘liberazione’.
2016 – Kodama
Dopo le melodie ariose e solari di «Shelter», Neige sente il bisogno di tornare su un terreno più personale e più energico. Il nuovo disco nasce così come una reazione all’album precedente. Il titolo, «Kodama», è un vocabolo giapponese che significa sia ‘spirito degli alberi’ sia ‘eco’ ed è tratto da «Princess Mononoke», celebre film d’animazione di Hayao Miyazaki al quale tutto l’album s’ispira.
Gli Alcest recuperano qui elementi black come lo scream e il blast beat, che permettono di dare vita a un brano intensissimo e straziante come «Éclosion» (‘fioritura’, ‘apertura’). Allo stesso tempo, però, sperimentano con tonalità e melodie nuove, tratte in parte dalla tradizione musicale giapponese: nasce così la title-track, che apre il disco in modo a dir poco spettacolare.
Il disco si caratterizza, in generale, come il più sperimentale e il più tecnico della storia della band. C’è molta testa in «Kodama», e questa è una grande rivoluzione, per una band che ha sempre puntato esclusivamente sul cuore. Il risultato, fortunatamente, è davvero eccelso anche questa volta, e lascia ben sperare per il futuro.
L’eredità degli Alcest
Arriviamo così al 2017: in 16 anni di storia gli Alcest si sono guardagnati uno ampio stuolo di fan fedelissimi e oggi godono di un’ottima fama in tutto il panorama metal. Oltre al merito di aver creato degli album meravigliosi, possono vantare anche quello di aver dato vita ad un genere, il blackgaze, che ha segnato insieme la fine e il rinnovamento del black metal per come lo conoscevamo: un fenomeno certo controverso (chi ha detto Deafheaven?), ma estremamente rilevante per tutto il panorama metal.
Ma, in definitiva, gli Alcest (e il blackgaze in generale) sono davvero black? Se sì, in che misura? La questione è stata dibattuta ad nauseam, proprio perché tutte le risposte possibili sembrano ugualmente corrette. Proviamo così: la musica degli Alcest non solo non è black, ma è il suo opposto; e tuttavia è legata indissolubilmente a quest’ultimo.
Di primo acchito sembrerà forse una risposta senza senso, ma questo è un fenomeno al quale la storia del metal ha già assistito almeno un’altra volta, e per di più in un caso celeberrimo. Perché, per certi versi, mutatis mutandis, la nascita del blackgaze per mano degli Alcest è molto simile a quella della NWOBHM per mano degli Iron Maiden. Questi ultimi cominciarono infatti a fare la musica che fecero anche come reazione all’onnipresente punk, che odiavano e dal quale volevano allontanarsi; eppure il loro primo album aveva un’impronta punk enorme. Così è successo per Neige. Per prendere distanza dal black metal e da quello che rappresentava ha creato un nuovo genere, che ha un’estetica diametralmente opposta ma che a livello sonoro ne è pesantemente debitore.
Ma lasciamo da parte le questioni relative alle etichette, la cui importanza è sempre discutibile. Il vero merito degli Alcest, infatti, è principalmente un altro: ha fatto scoprire a una generazione di blackster brutti e cattivi di avere un cuore. La musica di Neige ci si è infilata sotto le borchie e sotto il cerone, e ci ha sciolti dall’interno. Ci ha insegnato l’estetica del bello e del celestiale, a noi che quella roba lì ci faceva schifo. Ci ha insegnato a partecipare ai concerti con un mezzo sorriso, ci ha insegnato ad abbandonarci all’emozione, e magari anche a lasciarci scappare una lacrimuccia, lì, davanti al palco e in mezzo a tutti. E ci ha resi partecipi di un mondo misterioso e sovrannaturale, che forse non abbiamo mai visto come il piccolo Stéphane, ma che abbiamo ascoltato e al quale ora sentiamo di appartenere un po’ anche noi.
Francesco “Gabba” Gabaglio