Avantgarde Doom Heavy Prog Rock Progressive

Intervista Malombra (Mercy)

Di Mickey E.vil - 5 Agosto 2023 - 8:00
Intervista Malombra (Mercy)

Ancora una volta Black Widow Records si prende cura del suo raffinato pubblico, questa volta la frangia più oscura. Trent’anni ed oltre di luci e di tenebre che si compenetrano nell’originalissima ricetta sonora dei genovesi Malombra renderebbero fiero Fogazzaro stesso dei suoi ierofanti del decadentismo in musica. La parola a Mercy, storica voce di questo piccolo esercito dell’oscurità!

Ciao Mercy, come va? Ti va di raccontare ai lettori di TrueMetal la genesi – risalente al 1994 – e l’effettiva registrazione – nel 2022 – di T.R.E.S.?

Ciao Mickey, un saluto a tutti i lettori di TrueMetal.

Da dove iniziare? Forse dal tenere per fermo che nel corso di un triennio scarso, grosso modo dal ’92 al ’95, Malombra visse una stagione estenuante. Parliamo di attività frenetica, letteralmente insonne.

Per intenderci: tutto il materiale che i nostri ascoltatori hanno conosciuto con i nostri primi due lavori, più quello di quest’ultimo, più una quantità di altre composizioni delle quali solo una parte trovò sbocco, magari in altre forme, in lavori e progetti successivi ed alle quali aggiungerei altri spunti ancora a tutt’oggi mai più riesaminati, hanno tutti, dicasi tutti, visto la luce in quel periodo.

In generale, oltre che ad essere una fase di grande ispirazione e creatività, lo fu anche di larga condivisione di tempo, vita, esperienze.

La nostra sala prove, dove passavamo molto tempo a improvvisare, aveva finito per diventare una sorta di porto franco dove diverse compagnie di persone andavano e venivano, portando a loro volta influenze e suggestioni. Un microcosmo assai originale, stravagante e libertario, ma del quale oggi, avendo fisiologicamente esaurito ogni tendenza ad idealizzarlo, non mi riesce difficile scorgere anche una componente disfunzionale della quale, al tempo, ero solo parzialmente consapevole. Il problema, del resto, non era solo mio.

Con Teo è stato abbastanza semplice riprendere le fila di questo progetto proprio perché lui è il solo, a parte me, ad avere nel frattempo fatto i conti con un bel po’ di “demoni”, per dirla in senso buddista, che al tempo ci agitavano come instancabili marionette.

E’ stato in primo luogo il franco riconoscimento di quella nota malsana, vagamente patologica, che riecheggiava costantemente sottofondo a quel parossismo vitale che ci ha messi nella condizione di riapprocciare quel materiale con una differente consapevolezza.

Il resto lo chiamo mestiere. Ma quello, se perseveri, ad un dato momento te lo ritrovi tra le mani per logica di natura, anche se poi ciò che ci ha portato a raccogliere cocci sparsi da oltre un quarto di secolo non è stata consapevolezza che nasce dall’esperienza. Bensì l’avere nel frattempo toccate con mano la fragilità e la brevità delle esistenze.

Di colpo l’ipotesi che queste ideazioni non si rivelassero mai dopo che, in un tempo lontano, erano state così importanti, così centrali per noi, ci è parsa molto mesta e deprimente.

Una sorta, vi prego di scusare la sfumatura melodrammatica, di anticipo di morte.

Ma dopotutto ogni rinuncia definitiva, ogni accantonamento “una volta per sempre” di un progetto quale altra sensazione potrebbe evocare?

Com’è stato, quasi trent’anni dopo, approcciarsi a quei brani con la consapevolezza e la tecnologia musicali odierne?

A conti fatti è stato quasi rilassante.

Non tanto per via della semplificazione tecnologica, pane quotidiano dei miei compagni, ma che di mio continuo a non padroneggiare qualificandomi, non senza qualche pudore, quale perfetto analfabeta digitale. Quanto piuttosto per la sorprendente tranquillità d’animo, la sfumatura di salutare disincanto con cui, dopo decenni, abbiamo rimesso le mani in un simile garbuglio di spine e di ortiche.

Vediamo se mi riesce di spiegare.

La verità è che non era affatto scontato che le cose sarebbero andate in porto senza incidenti. Sto parlando anche e soprattutto della sfera emotiva e dello stato dell’umore. Non esagero se ti dico che, negli anni ’90, tutto il materiale di “T.R.E.S.” venne scritto, registrato in fase di pre-produzione in uno stato di perenne male panico.

E’ stato un salto nel buio perché all’epoca, mentre il tutto prendeva sinistramente forma, le amicizie andavano in frantumi, grandi amori terminavano tristemente, ansie, dubbi, fobie di ogni genere avevano preso dimora là dove un tempo c’erano solo voglia di musica, di stare assieme e di sballare. La verità, insomma, è che mentre questi brani nascevano avevano iniziare ad accadere delle cose, alcune delle quali abbastanza dolorose da minacciare, almeno in teoria, di riaprire vecchie ferite se solo ci fosse arrischiati a farle riemergere dalla cripta.

E’ stato abbastanza rinfrancante l’essersi scoperti sufficientemente induriti da saper opporre al rischio d’una rimembranza spiacevole l’impietoso confronto con i veri dolori, i veri lutti e le vere perdite che nel frattempo alla vita è piaciuto infliggerci.

Sicché ci si è ritrovati infine a maneggiare questi antichi ordigni emotivi come fossero rasserenanti balocchi.

E poi non è neppure così vero che esperienza, disincanto e senso della misura siano sinonimi di imbolsimento senile. Chi lo afferma il più delle volte parla per se stesso, anche se non lo sa.


Quali tematiche sono state approfondite nei testi dell’album?

Qui si fa difficile, o meglio si fa complicato produrre una doverosa sintesi.

Mettiamola così: nella prospettiva “storica” i testi riflettono abbastanza plasticamente gli interessi intellettuali e le fascinazioni estetiche che allora mi avvincevano.

Il rovescio della medaglia riguarda la dimensione di crescente paranoia, le ossessioni montanti e, in generale, la sensazione, perfettamente percepibile nelle vecchie tracce, di un’atmosfera che si andava progressivamente intossicando.

Per cui direi che è nella prospettiva dell’oggi, invece, che le cose si fanno oggettivamente più interessanti. Intanto perché si conferma, una volta di più, l’antica e mai abbastanza risaputa relazione tra visione anticipatrice, oracolare, profetica o come ti piace chiamarla, e patologia mentale.

Lo sciamano delle società tradizionali, il bagatto degli Arcani Maggiori, la “donna saggia” della Wicca, il negromante, ma pure il prete di campagna che crede fanaticamente nel potere terapeutico della preghiera, solo per citarne alcune, non sono unicamente configurazioni archetipiche o letterarie, ma pure qualcosa di più prossimo e concreto.

Esse curano proprio in quanto malate. Restituiscono equilibrio e senno proprio perché folli. Scorgono possibili e lontanissime evoluzioni del presente proprio perché su questo presente esercitano una visione alterata, distopica o comunque variamente visionaria o disapplicata.

Così può capitare che un brano nato da una sorta di trascrizione scritta di getto in versi liberi, appena sveglio, per memorizzare un incubo avuto nel corso di una notte trascorsa in circostanze molto particolari, stiamo parlando di “Baccanalia”, si trasformi in un’osservazione niente affatto convenzionale, idilliaca e rassicurante dell’idea di “classicità”.

Oggi tutti sanno che temi e concetti del genere sono stati la malta con cui sono stati edificati colossi editoriali come per esempio Adelphi, ma a quei tempi noi ci sintonizzavamo con determinate realtà “iniziatiche” solo per puro fiuto.

Sotto questo punto di vista, se potessi, candiderei “Cerchio Gaia 666” al novero dei super classici della rock-profezia.

Originariamente concepito per riecheggiare uno dei miei dischi preferiti di ogni tempo ossia “666” degli Aphrodite’s Child, quel brano ha mostrato fin da subito di voler prendere percorsi tutti suoi, assai lontani da quel disco comunque inarrivabile.

L’idea tematica che ne esce oggi è quella di una cerchia di miliardari e di potenti, adepti di culti gnostici, che decidono di imporre al pianeta una svolta “green”. Una transizione che prevede, tra le altre cose, un poderoso “alleggerimento del carico”. Miliardi di “bocche inutili” da “obliterare” mediante un ben modulato uso di guerre, carestie, pandemie, collassi economici innescati da politiche orientate alla decrescita. Il tutto, beninteso, nel furore e nel sangue degli antichi rituali isiaci e shivaiti, ma con debita agenda ambientalista e politicamente corretta sottobraccio. Vi ricorda qualcosa?

Tra l’altro, certi archetipi non esistono solo come entità agenti al di fuori della sfera fisica ma costituiscono una sorta di “repertorio iconico” al quale spiriti vigili, “avvertiti”, attingono, talvolta volontariamente altre meno. Questo, nota bene, è esattamente ciò che intuì brillantemente Jung e che, acrobaticamente a mio avviso, Jodorowsky ha più di recente ricondotto a una dimensione non-elitaria, anzi francamente popolare.

A riprova di ciò ti riporto un episodio recentissimo.

Non so se hai seguito la serie televisiva di produzione spagnola “30 Denari”, condotto da quello che è, senza dubbio, il mio regista preferito tra quelli attualmente viventi, ossia Alex De La Iglesia.

Non mi dilungo sulla trama, basti sapere che il tema di fondo è esattamente lo stesso di cui sopra: elités praticanti culti anti-umani.

Ebbene, la sequenza prossima al finale della prima stagione della serie, dove sale al soglio il papa gnostico, e quella centrale di “Cerchio Gaia 666”, scritta anch’essa come trascrizione poetica di un incubo notturno, dove canto della cerimonia d’incoronazione dell’Anticristo, sono perfettamente identiche. Con i bastioni di un’antica rocca e le logge di un santuario millenario decorate di “brunastri festoni”, ovvero resti di migliaia di animali e di infanti, parimenti innocenti al cospetto di Dio, sacrificati e trasformati in “elementi decorativi”, brulicanti di larve e di mosche.

Chiunque sia dotato di un minimo di sensibilità può cogliere oggi l’intrinseca nota satanica e apocalittica dei tempi in corso, ma nei primi anni ’90 era tutt’altro che scontato.

Nell’album, comunque, c’è molto altro, compresi giochi di citazioni incrociate che potrebbe riuscire divertente individuare. Invito tutti a giocare.

Come di consueto, Black Widow Records offre ai fan delle strepitose edizioni fisiche in vinile e cd. Ti va di parlarne (anche dell’artwork) e che significato ha per te il formato fisico in quest’epoca digitale?

Chiarisco subito: per noi esiste solo la dimensione fisica, mentre quella digitale, che pure mi dicono oggi necessaria, è, tutto al più, tollerata.

Chiarito ciò è evidente che non potevamo che riconfermare lo storico deal con BWR che nella fisicità del prodotto musicale crede quanto e forse più di noi.

Poi, in ordine ad un’altra tradizione, quella dei vinili psichedelici e progressivi risalenti all’età dell’oro della musica moderna, abbiamo pienamente sposato l’idea secondo la quale il disco dovrebbe aspirare ad essere un’opera d’arte “totale”. Comprensivo dunque di una sua componente letteraria, di una figurativa e, in generale, orientato per sua natura al mondo delle cose durevoli, fatte a regola d’arte.

Un tempo la somma delle competenze necessarie a costruire un disco che aspirasse a cavarsi dall’anonimato era oggettivamente impressionante. Oggi, specie nelle produzioni mainstrem accade l’esatto contrario. Tagliare sui costi è la parola d’ordine. Un arrangiatore? Che roba è? Si mangia? Un illustratore, magari titolato nel mondo delle arti figurative? Ma che sono queste robe da boomer?

Oggi esistono solo marionette che ci mettono la faccia, o molto più facilmente il culo, e poi, se proprio va di lusso, la voce. Un produttore, cosiddetto “di grido”, che spippola con mouse e software ed avoca a sé tutta la componente sonora. Ed a suonini rachitici e tutti uguali corrispondono copertine tutte uguali, con il consueto ritratto in primo piano del* solist*, visto mai che la gente non dovesse riconoscerl*, dopo magari averl* vist* in televisione per un anno intero.

Alla faccia di queste poveracciate gabellate per tendenza a noi è piaciuto estendere la ricchezza tematica alla sfera visiva.

Anche tutta la parte grafica, ma tu lo avrai di sicuro sgamato, è una sorta di labirinto di rimandi.

Per limitarci alla sola front-cover ti basti sapere che essa nasce dall’unione di due iconografie particolarmente intrise di “potere”.

La base è fornita da uno dei quadri che, insieme al celebre “Angelus” di Millet, detiene una fama tra le più funeste e, in generale, è stato “casualmente”presente quale sfondo ad alcuni tra gli scarti storici più fatali della storia europea. Stiamo parlando, naturalmente, de “L’Isola Dei Morti” di Böcklin nel cui impianto, però, abbiamo montato l’immagine di una celebre villa che si affaccia sul Lago Maggiore ed a cui, secondo la tradizione, Fogazzaro si sarebbe ispirato per provvedere un’ambientazione al suo romanzo “Malombra”. Ora, siccome in questo disco è presente anche il nostro brano eponimo, modellato sul romanzo che in origine ci fornì l’idea per il nome, ci è parso pertinente procedere con questo montaggio. Il quale, attenzione, non è farina del nostro sacco, ma costituiva la locandina della versione cinematografica dello stesso romanzo datata 1942.

Pensavo che questo groviglio di citazioni non fosse tanto facilmente dipanabile e invece, tra i nostri ascoltatori, c’è stato chi lo ha puntualmente colto. E questo la dice lunga sul tipo di pubblico che, modestamente, in questi anni ci è riuscito di fidelizzare.

“Progressive”, “Dark” e “Heavy” sono gli aggettivi che vengono utilizzati per definire il sound dei Malombra. Come riuscite a far coesistere “pacificamente” questi tre aspetti nella vostra musica?

Mah, in verità queste distinzioni si facevano al tempo in cui iniziammo e, sebbene da più parti si parlasse già di crossover e di integrazione tra generi, i vari pubblici, allora ancora molto nutriti, resistevano a percepirsi autonomi e separati dagli altri, sotto un profilo più che altro antropologico prima ancora che musicale od estetico. Noi, invece, non ce ne siamo mai curati e, semmai, abbiamo sempre salutato ogni felice sintesi che ci riusciva di far quadrare come una sorta di punto messo a segno. Oggi, poi, che si sono viste e sperimentate tutte le commistioni possibili e che è la nostra stessa età a metterci al riparo da ogni rischio di settarismo, resta davvero solo il piacere di fare musica e di inseguire le ispirazioni più disparate.

Aggiungerei che, forse, tra tutte le formulazioni di Malombra che si sono succedute quella attuale non è solo quella più orientata ad uno sfuggente, seppur vivido “spirito originario”, ma è anche quella che può vantare la maggior coesione interna in materia di gusti.

Oggi più che mai sono centrali figure che, almeno sotto l’aspetto tecnico, non sono comprimibili entro i limiti di genere che poc’anzi citavi. Parliamo di David Bowie, anche se poi ci si divide in merito ai suoi “periodi”, di Scott Walker, per il quale si replica il medesimo scenario, o di tutto l’universo Roxy Music-Eno-Velvet Underground- Reed- Cale-Nico e via dicendo.

Ma, in generale, teniamo in gran conto soggetti musicali auto-compresi e coerenti. Per intenderci: cosa hanno in comune Paul Roland, Tony Wakeford dei Sol Invictus o Mario “The Black” Di Donato, tanto per citare i primi che mi vengono in mente? Nulla, tranne avere perseverato nei decenni ad edificare e puntellare una loro poetica personalissima, inattaccabile, in nulla e per nulla imitabile, attraversando momenti di luce e di buio con eguale fermezza. Solcando il susseguirsi delle mode con la medesima, pacifica noncuranza.

Ecco: noi ci sentiamo così.

Il prossimo 6 agosto suonerete al Porto Antico Progfest 2023, dopo “eoni” di assenza daia palchi. Come vi state preparando e cosa possono aspettarsi i fan da questo vostro ritorno in sede live?

Beh, che dire? Pur senza eccesso di ubbie e di ansie, visto che sappiamo molto bene che da lì non è che dipenda chissà quale carriera futura, cerchiamo di preparaci in modo adeguato, come si conviene a persone e a musicisti seri.

E vi posso anticipare che la formazione che vedrete in azione si distinguerà per coesione e quadratura poiché agli ego dei singoli si è deciso fin da subito di privilegiare l’insieme, la “botta”, come si dice in gergo.

Va da sé che, dato il contesto, il repertorio presentato sarà abbastanza stringato e in larga parte limitato al disco da promuovere. Per un viaggio più approfondito nel repertorio storico di Malombra ci saranno occasioni più prossime di quanto immaginate.

Ora siete impegnati nella preparazione del live e nella promozione di T.R.E.S. Cosa possiamo aspettarci dal futuro discografico, immediato e remoto, da parte dei Malombra?

Non scendo nei dettagli visto che parte di essi non sono ancora chiarissimi neppure a noi, Ma, ad occhio e croce, ci ritroviamo abbastanza materiale per le mani da tenerci occupati per i prossimi dieci anni.

Quali sono le tue impressioni circa la scena musicale indipendente italiana di oggi?

Prima servirebbe chiarire cosa intendiamo per “indipendente”. Dal punto di vista della pertinenza letterale del termine io sono stato negli ultimi due decenni, con il progetto IANVA, un campione di indipendenza assoluta.

Ma siccome so bene che, in Italia, la definizione di “rock indipendente” designa un insieme di stilemi musicali, di tic ideologici, di poetiche fatte col prontuario nonché di frequentazioni di “amichetti” da conseguire lungo un ben preciso asse politico-editoriale, allora ne penso oggi quello che ne pensavo trent’anni fa. E che non mi pare sia neppure più il caso ribadire.

In verità e almeno per me una fase in cui i cosiddetti gradi di separazione non parevano più così blindati c’è stata. Più precisamente al tempo della mia amicizia con Dario Parisini dei Disciplinatha e in cui molti dovettero mordersi la lingua quando si palesò che le liriche del loro ritorno, sotto il monicker Dish-Is-Nein , sarebbero state in grandissima parte onere mio. Ma poi Dario ci ha lasciati e io sono tornato il puzzone di sempre. Sicché, se vai a scorrere tutte le recensioni uscite di quel disco, parrebbe che i testi si siano scritti da soli visto che il mio nome non salta mai fuori una volta che sia una, neppure per sbaglio o per svista. Questo, nota bene, non è vittimismo. E’ solo l’ennesima conferma che quel mondo è irrimediabilmente blindato da pennivendoli, da ruffiani e da miserabili incapaci di vivere con onore, da galantuomini. E questo è vero oggi come al tempo in cui ancora mi andava di perdere del tempo a denunciarli come tali.

Se invece poi per indipendente intendi più estesamente non-mainstrem, allora le cose si complicano ulteriormente.

Anni fa credetti molto, sbagliando e pagandola carissima, nelle possibilità della cosiddetta scena folk apocalittica o folk noir di diventare un credibile elemento aggregante per una dissidenza socio-politica che, in quanto necessaria, non avrebbe tardato a palesarsi. Almeno così pensavo. Ma, anche in quel caso, non avevo calcolato l’incredibile modestia della statura morale, umana ed artistica di certi agit-prop di quella scena che, si noti bene, hanno avuto davanti al naso, senza mai percepirla per quella che realmente era, un’occasione storica di diventare rilevanti e l’hanno mandata a puttane per il solo gusto di cercare di buttarla in culo a noi.

Non resta che il comparto Doom e Occult che, devo riconoscere, continua a produrre lavori interessanti e persino più vari ed in evoluzione di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi al principio di questa voga. Ma siccome sono stato scottato fin troppe volte, seguo i lavori a debita distanza anche se, senza riserve, faccio il tifo affinché questa scena si affermi sempre di più.

Cosa può trovare uno storico fan nei Malombra del 2023 e cosa può trovarvi un giovane fan che si approccia alla vostra musica per la prima volta?

Chiamo ciò che resta della nostra storica fanbase a supportarci a Genova e assicuro loro che non se ne pentiranno.

Riguardo ai giovani il discorso è differente. Ogni qualvolta mi rapporto con un ventenne di oggi ho sempre l’agghiacciante sensazione che tutto ciò che per noi è stato storico, importante, formativo, vitale, finanche leggendario è esattamente come se non fosse mai esistito.

Gli è riuscita, dopotutto, ai padroni dei giochi di creare in batteria la figura del consumatore perfetto: ingozzabile senza limiti di spazzatura e di effimero proprio perché deprivato della facoltà di percepirsi dentro una dimensione storica, sequestrato com’è dentro le logiche della simultaneità social.

Per cui ci sarebbero ben altri fondamentali che consiglierei ad un giovanissimo che inizia oggi ad approcciare i nostri mondi sonori. Noi non siamo che dei discepoli e neppure tra i più bravi.

Consiglierei invece senza riserve noi e, in generale, tutti i progetti a cui ho partecipato solo a chi mi chiedesse di spiegargli il concetto di onestà tradotto in musica. Ecco: questo si. Ma anche in questo caso saremmo comunque in copiosa compagnia, grazie al cielo.

Quale saluto e messaggio finale manderesti ai lettori di TrueMetal?

Auguro a tutti ogni bene, ma invito altresì a coltivare la forza d’animo per poterlo, all’occorrenza, presidiare, questo bene. Ci attendono tempi paurosi, ma interessanti. Noi speriamo di essere di ispirazione o di conforto a qualcuno che già li scruta con preoccupazione, ma anche con fermezza.