Vario

Andre Matos

Di - 11 Marzo 2008 - 9:38
Andre Matos

I promo day, per gli artisti, sono spesso interminabili tour de force nei quali una fittissima agenda di impegni regola la giornata ed è così che, come spesso accade, i ritardi accumulati diventano fondamentali e quella che doveva essere un’intervista “face to face” con Andre Matos diviene, nonostante la tarda ora, una lunga e introspettiva chiacchierata (in parte in italiano ed in parte in inglese, ndr) nella quale il disponibilissimo singer brasiliano si racconta sia come artista che come uomo. Buona lettura.

Servizio a cura di Marco Ferrari e di Gaetano Loffredo

Ciao Andre, innanzi tutto grazie per la tua disponibilità e soprattutto complimenti per lo splendido “Time To Be Free”, ma toglici una curiosità: come mai la scelta di un’uscita anticipata sul mercato giapponese?

Grazie a voi e soprattutto scusate il ritardo. Prima di tutto l’uscita anticipata in Giappone è dovuta a motivi di protezione del mercato discografico di quel paese. Infatti dovete sapere che un prodotto venduto su quel mercato ha un costo molto più elevato rispetto all’importazione dello stesso prodotto da altre parti del mondo. Se il disco fosse uscito in contemporanea mondiale oppure se fosse uscito prima sul mercato europeo la maggior parte degli acquirenti lo avrebbe acquistato di importazione con i conseguenti danni economici per tutto l’ambiente nipponico. A tale riguardo vi devo chiedere scusa per il fatto che l’edizione giapponese del disco comprenda, come sempre, una bonus track che, oltretutto, trovo sia davvero ben riuscita e mi sarebbe piaciuto poterla inserire a livello mondiale. Il secondo motivo è questo: per il mercato europeo cercavamo un partner professionale per la produzione e la distribuzione del disco, e siamo stati fortunati a trovare la SPV che ha fatto un ottimo lavoro anche in termini di promozione. Mi spiace solo per l’attesa che i fan europei hanno dovuto sostenere, cosciente, comunque, che uscite su diversi mercati in tempi così diversi abbiamo permesso di trovare il disco immediatamente su internet, ma questo è un altro discorso e sono cose che capitano, sempre che nessuno metta in rete direttamente il master o, come purtroppo spesso capita, il promo che viene distribuito alle testate giornalistiche per le recensioni. Comunque, devo dire che non mi è dispiaciuta questa uscita differita in quanto ci ha permesso di fare una promozione in prima persona dell’album, cosa che, seppur faticosa, è molto importante. Devo anche sottolineare che il tutto è stato reso più semplice dalle ottime recensioni che l’album ha ricevuto un po’ ovunque e il riscontro positivo non può che aiutare ad affrontare con maggiore serenità i numerosi impegni.

 

Parliamo del titolo che hai dato all’album che, secondo noi, nasconde qualcosa di decisamente personale. E’ così?

La risposta non è così semplice, o meglio, deve essere approfondita per non apparire banale e scontata. Prima di tutto, la libertà espressa nel titolo del disco rispecchia una mia scelta professionale. Vorrei sottolineare che questa nuova avventura non deve essere intesa come un mio progetto solista, piuttosto è quella che amo definire una “solo band”: finalmente una band in cui i membri, liberi dal proprio passato,  possono esprimere la propria libertà musicale.
Un altro motivo, che è direttamente ricollegato al primo, è che  per riuscire a rendere viva la nostra nuova sfida professionale tutti i membri della band si sono dovuti per prima cosa sentire loro stessi, liberi di far parte o meno di un nuovo progetto, e la commistione di questi elementi ha dato il senso di libertà musicale che ho da sempre ricercato nella mia carriera. E’ proprio per questa continua ricerca di una nuova immagine e di una nuova via che il nuovo lavoro ed i successivi non suoneranno mai come un disco pubblicato con gli Shaman, allo stesso modo per cui i dischi che avevo composto con gli Shaman non suonavano come i lavori dei vecchi Angra. Nella fase di songwriting mi sono sentito finalmente libero di poter proporre la musica che sento mia, ricca di tutte le influenze che mi hanno fatto crescere come musicista e ho potuto spaziare liberamente mischiando diversi stili musicali. Questo è il modo di lavorare per re-inventare la mia musica ed evolverla in continuazione. Comunque voglio rassicurare tutti in chiave futura: nonostante abbia un’indole che mi porti alla continua ricerca di novità, non farò mai musica techno (risate, ndr) in quanto l’amore che nutro per la musica metal e la musica classica rimarrà sempre e mai sarà un freno alla creatività, ma uno stimolo per trovare sempre nuove soluzioni.
Questa è la risposta più direttamente collegata al nuovo lavoro musicale e alla scelta di un titolo così importante. D’altra parte c‘è anche un altro significato della parola “libertà”, molto più personale, ma non legato soltanto alla mia vita, ma più in generale legato alla vita di tutti noi. Questo significato lo si può leggere nel concept su cui è basato l’intero disco, che ho usato come filo conduttore nella stesura dei brani, sia per quanto riguarda le musiche, sia per i testi. Il messaggio di fondo è legato alla frase, spesso abusata, per cui ognuno di noi dovrebbe, nel corso della vita,  ricercare la propria libertà. Viene abusata da giornali, libri, film, abusata nei talk show senza capire che la vera libertà la possiamo trovare solo dentro noi stessi. Basta guardare il mondo nel quale viviamo, un mondo in cui le distanze si sono annullate, un mondo virtuale e consumistico nel quale ci muoviamo spesso dimenticandoci della cosa veramente importante: il rapporto con le altre persone. Non che tutta la tecnologia sia negativa, ci mancherebbe, anzi i nuovi metodi di comunicazione ti permettono di mantenere contatti anche con persone dall’altra parte del mondo, ma spesso si tende a comportarsi in maniera individualista e materialista in una continua ricerca di successi lavorativi e riconoscimenti economici. E le persone credono che questi siano gli strumenti con i quali realizzare i propri sogni e vivere liberi.
Il titolo dell’album, “Time To Be Free” vuole avere anche un altro significato: se si vuole la libertà bisogna lavorarci fortemente e investire il proprio tempo per cercare di essere una persona ineccepibile nell’etica; i valori devono essere il faro che indica la rotta da intraprendere, soprattutto in un mondo che cambia così velocemente come il nostro.

Parlando delle canzoni dell’album vorrei iniziare da “A New Moonlight”, ed è impossibile non fare riferimento a “Moonlight”, la prima canzone che hai composto. Pensiamo che abbia un significato particolare per te inserire questo pezzo nel disco che porta il tuo nome. Nell’ascoltare la nuova versione si ha l’impressione che sia stata composta con più libertà, come appunto richiama il titolo dell’album, rispetto a quella precedente che seguiva più la linea classica di Beethoven. Cosa ne pensi? Quando e perché hai deciso di riproporla?
 
La risposta è semplice e complessa allo stesso tempo perché “Moonlight” è la canzone che considero più importante nella mia carriera in quanto, è vero, è il primo pezzo che ho composto a 17 anni, ma è anche il primo successo che ha permesso ai Viper di farsi conoscere. Nonostante più persone mi abbiano chiesto di rivederla, fino ad ora non ne avevo mai sentita la necessità e proprio per la sua importanza non vedevo di buon occhio un eventuale restyling.  La scelta di inserirla ora nel primo lavoro che porta il mio nome ha, per me, un significato anche simbolico e legato alla libertà compositiva di cui ho goduto e sono soddisfatto di tutte le novità inserite nel brano sia in termini musicali che di testi. Un esempio è la lunga introduzione, molto suggestiva, nella quale ho cercato di mettere in musica la visione di un “chiaro di luna”. Tutto il lavoro svolto su questo pezzo è stato un po’ come terminare un libro iniziato molti anni fa: ho rivisitato il mio passato con gli occhi di una persona adulta utilizzando le esperienze vissute. Sono decisamente contento del risultato e credo che per i fan  possa essere un gioco divertente provare a scoprire le differenze tra le due canzoni e, vi assicuro, ce ne sono parecchie.

 

Dopo il tuo split con gli Angra, passando dagli Shaman e ora con il tuo nuovo progetto è indubbio che il tuo stile di comporre sia cambiato. Secondo te, come? Ti senti ancora rappresentato dai tuoi vecchi successi?

Il cambiamento sicuramente c’è stato ed è questo il motivo per cui ho voluto lavorare con molta attenzione al nuovo progetto in quanto, come primo album, era importante dare una chiara idea ai fan di quale fosse il nostro percorso musicale e su quello che vorremmo sviluppare nel futuro, partendo, in ogni caso, dal nostro background musicale e dalle nostre esperienze. In tale ottica abbiamo ricercato un sound più fresco e moderno, seppur più complesso, anche se a dire il vero queste ricerche le ho sempre portate avanti durante la mia carriera. Ed è proprio questa mia ricerca continua uno dei motivi per il quale ho cambiato così spesso nella mia vita artistica: quando un gruppo si afferma con un determinato sound è molto difficile riuscire a sperimentare, ed in tal senso sono molto soddisfatto di “Time To Be Free” in quanto è un album con caratteristiche ben precise, ma con un sound ricco di sperimentazioni che ci daranno nuovi stimoli per il futuro e questo non certo per ricercare il successo, come al contrario fanno molte band, ma semplicemente come espressione della mia/nostra musica di cui l’azzardo e la sperimentazione sono parte integrante.

 

Tornando alla “solo band” ed ai suoi componenti, devo farti i complimenti per aver scoperto il “bimbo-prodigio” che suona la batteria: Eloy Casagrande. Come l’hai conosciuto?

Quando il batterista, che originariamente doveva far parte della band, è stato impossibilito ad unirsi a noi abbiamo fatto delle audizioni per trovare un sostituto all’altezza, e tra i vari aspiranti si è presentato Eloy che era già un musicista conosciuto dagli addetti ai lavori in Brasile, una rivelazione che a soli 14 anni aveva spazzato via la concorrenza in un concorso internazionale  per batteristi negli Stati Uniti. La sua tecnica e velocità ci hanno subito impressionati, tanto che provando una versione accelerata di “Carry On” non riuscivamo a seguirlo: però vi assicuro che ora riusciamo a stare dietro al suo ritmo folle e vi stupiremo in sede live così come è successo alla fine dello scorso anno durante il tour in Giappone. Nonostante la giovane età si è trovato dall’altra parte del mondo, grazie ai permessi firmati dalla madre, e si è comportato in maniera veramente professionale. Oltretutto anche il rapporto personale si è dimostrato ottimo e noi siamo pronti a trattarlo quasi come fosse un figlio e a dargli consigli utili.

A proposito di tour, quando avremo il piacere di vedervi in Italia?

Purtroppo, il ritardo dell’uscita dell’album sul mercato europeo ha comportato il necessario slittamento del tour. Probabilmente, se il disco fosse uscito in contemporanea col Giappone, in questo periodo saremmo stati proprio in tour in Europa. Posso annunciare che il tour europeo sarà molto lungo e specialmente in Italia vorremmo poter fare almeno 4 date, e non me ne vogliano gli abitanti di questa accogliente città, preferirei non suonare a Milano in quanto l’Italia è geograficamente molto estesa  e non possiamo pensare che i fan  possano venire sempre a Milano. Mi piacerebbe, quindi, toccare città diverse come ad esempio Napoli, Roma, Firenze, oppure, per il nord, Torino.
Il tour partirà sicuramente dopo l’estate e con molta probabilità nel mese di settembre anche se purtroppo, per il momento, non posso essere più preciso.

 

Tornando in tema di canzoni ricordo che avevi scritto Lisbon dopo un viaggio nella capitale portoghese, una città che ti rimase nel cuore tanto da dedicarle un brano profondo. Da Lisbon a Rio, cosa ti ha spinto a offrire il tuo tributo alla città brasiliana invece?

Beh ho preso il primo aereo e sono arrivato a Rio (risate, ndr). A parte gli scherzi hai perfettamente ragione, “Lisbon” è una dedica ad una città speciale e a cui sono molto legato. L’abbiamo anche riproposta oggi in versione unplugged con Fernando Ribeiro (cantante dei portoghesi Moospell, ndr) come special guest e visti gli ottimi legami che ci legano è stata una cosa molto speciale per me. Per quanto riguarda “Rio”, l’origine della canzone non è sicuramente legata ad un viaggio, ma ad un film brasiliano che mi ha particolarmente colpito, “City Of God”. Questo film, profondo, narra le vicende degli ultimi quarant’anni avvenute all’interno del quartiere più povero della città brasiliana che viene appunto chiamato la “città di Dio”. Forse non lo sapete, ma nonostante io sia nato e viva tutt’ora a San Paolo la mia famiglia è originaria di Rio e la conoscenza di queste due città me ne ha fatto notare le differenze, enormi. San Paolo è la capitale economica del Brasile, un po’ come Milano in Italia, città molto grande ed estesa con un centro molto ricco ed una periferia molto povera, e questi due mondi difficilmente vengono a contatto. Rio invece è una città molto più a misura d’uomo anche per la sua particolare collocazione geografica, stretta tra il mare e le montagne. Ovviamente anche a Rio c’è una forte differenza di vita tra ricchi e poveri, ma la vera particolarità è che non avendo periferie ben distinte la vita di queste persone si svolge negli stessi luoghi e prevede, spesso, situazioni difficili e umanamente molto toccanti. E’ questo che ho voluto raccontare nella canzone.

Tornando alla solo-band, come mai hai fatto solo ora la scelta di proporti da solo? Avevi paura di esporti in prima persona?

Certo, la paura c’era, in termini di carico di responsabilità, ma ti assicuro che la scelta di formare una band con il mio nome era diventata l’unica via perseguibile. Lungo l’arco di tutta la carriera mi è sempre stato chiesto se non era il momento per un progetto solista, ma sia con gli Angra che poi successivamente con gli Shaaman è stato impossibile dedicarmi ad una carriera solista in quanto tutte le mie attenzioni erano rivolte alla band e al nostro lavoro. Dopo l’ultimo split mi sono fermato un attimo a chiedermi cosa avrei voluto fare, e capii immediatamente che non avrei potuto continuare ad usare il nome “Shaaman”, la band era “esplosa” e non avrebbe avuto senso portare avanti il progetto con altre persone. A tal proposito rimasi molto sorpreso quando qualcuno decise di riesumare il monicker “Shaman”, oltretutto senza il nostro consenso. Chiaramente la scelta di utilizzare il mio nome per la band, mi ha caricato di grandi responsabilità e ha richiesto un impegno maggiore rispetto al passato, nonostante fossi abituato a partecipare in ogni fase di creazione di un album anche in precedenza. Tale responsabilità fa si che io abbia l’ultima parola su tutto ciò che riguarda la band, ma non in senso negativo e “tiranneggiante”, perché non mi è mai piaciuto imporre le mie idee al resto della band. Oltretutto la scelta è stata anche fatta per dare immediata visibilità alla band perchè l’utilizzo di un altro monicker avrebbe significato un lungo periodo di promozione per far capire alle persone che ero io il cantante della band. Ultimo motivo, e forse il più importante, è che forse così non mi chiederanno più quando lascerò la band: è un po’ difficile separarmi da me stesso (risate, ndr).

 

Di recente abbiamo intervistato Ricardo Confessori e non è stato gentilissimo nei tuoi confronti. Parlava di te come di una persona egocentrica e “strana”, quasi un despota, e mi ha svelato il segreto che c’era dietro al cambio di monicker: da “Shaman” a “Shaaman”. Dice che è stato un tuo “vezzo” per tentare di vendere qualche copia in più. Vuoi replicare?

Generalmente non amo replicare a questo tipo di provocazioni, però è interessante vedere come le persone che hanno lavorato con te ti puntino il dito contro una volta che te ne sei andato. La cosa buffa è che all’epoca del cambio di monicker eravamo tutti d’accordo sull’aggiunta di una “a”. Avevamo deciso il cambio per problemi legali legati ai diritti del nome e i nostri avvocati ci hanno consigliato di fare un piccolo cambiamento. Nel momento in cui dovevamo scegliere quale cambiamento apportare abbiamo provato un piccolo gioco, ovvero quello di andare da una chiaroveggente, anche perché il tutto ci sembrava evocativo ed in linea con il nome “Shaman”, e all’epoca eravamo tutti divertiti. Per quanto poi riguarda l’essere considerato egocentrico e un dittatore non sono ovviamente d’accordo. Se proprio mi si deve attribuire un aggettivo direi, piuttosto, che sono un perfezionista e forse per alcune persone questa mia caratteristica è difficile da assecondare, è più facile puntare il dito contro di me che ammettere i propri limiti.

Per concludere vorremmo semplicemente ringraziarti per la tua disponibilità, nonostante la tarda ora, e per la tua sincerità.

Grazie mille a voi,  è sempre un piacere rispondere a domande interessanti e allenare un po’ il mio italiano.

Marco Ferrari e Gaetano Loffredo