Andy Tillison (The Tangent)
A Place in the Queue, terza fatica dei Tangent, si annuncia fin da subito come il lavoro più ambizioso della band, senza dubbio una delle uscite più interessanti dell’anno. Abbiamo avuto la possibilità di parlare con il mastermind Andy Tillison, che con grande disponibilità ha raccontato il recente, problematico passato della formazione e le aspirazioni che nutre per il nuovo disco.
Ciao Andy, ormai sono passati due anni dall’ultimo disco dei The Tangent, nel frattempo la line-up della band ha perso diversi elementi di valore e ne ha guadagnati di nuovi. Potresti dirci che cosa è successo?
Eheh, veramente non sono passati esattamente due anni: The World that we Drive Through è della fine del 2004, A Place in the Queue esce a inizio 2006. E’ un anno e mezzo, ma in effetti due suona meglio (risate, ndg). Riguardo ai cambi di line-up, devi considerare che quando abbiamo iniziato non pensavamo di diventare una band a tutti gli effetti. All’inizio abbiamo semplicemente provato a suonare assieme, ne è uscito un album, è piaciuto e alla fine ne abbiamo fatto un secondo, poi siamo finiti a fare un tour… chi se lo aspettava di arrivare al terzo?
Come hai detto tu poi, col tempo, le cose sono cambiate ed è stato necessario inquadrare meglio la situazione. Riguardo all’addio di David Jackson… posso dirti semplicemente che lui ha dovuto lasciare per dedicarsi alla reunion dei Van Der Graf Generator, e visto che loro sono uno dei miei gruppi preferiti, posso senz’altro ritenermi felice per la band.
Roine invece è sempre molto occupato, segue troppi progetti aveva bisogno di più spazi personali, di più tempo, è comprensibile. Poco dopo anche Zoltan ha dovuto lasciare. Dopo i loro addii, pensavamo fosse la fine dei Tangent.
In quel periodo siamo andati in Francia, Sam (Baine) e io. Stavamo facendo un trasloco e per tre settimane siamo rimasti senza linea telefonica, così non abbiamo sentito nessuno. Non pensavamo neppure che ci fosse più una band. Poi quando siamo tornati abbiamo scoperto dal nostro manager Ian Oakley che avevamo già una nuova chitarra e una nuova batteria: Krister (Jonnson) e Jaime (Salazar), due grandi musicisti. Inoltre seppi che Theo Trevis aveva chiesto di suonare ancora con noi sull’album successivo, e anche live! Anche Jonas (Reingold) era desideroso di rimanere… avevamo di nuovo una band, è stato meraviglioso! Ovviamente dispiace dover salutare i vecchi compagni, ma è bello poter accogliere i nuovi.
I Tangent sono una band internazionale, tra te e la maggior parte degli altri membri intercorre una distanza tutt’altro che indifferente. E’ difficile lavorare insieme in queste condizioni?
Certamente è difficile, ma pian piano ci stiamo abituando. D’altra parte, se ci pensi, l’essenza delle band degli anni settanta consisteva nel lavorare continuamente con le nuove tecnologie, come i diversi modelli di tastiere. Non abbiamo deciso di provare con internet. Dopo due album su cui abbiamo lavorato in questo modo, e soprattutto dopo che la rapidità dello scambio di informazioni in rete è aumentata in modo esponenziale, anche per noi è diventato più facile lavorarci. Ora possiamo ascoltare nello stesso tempo quello che suoniamo e correggerlo in diretta. Ci sono davvero molte nuove possibilità, e sono molto contento di creare qualcosa che coinvolge diversi territori. Probabilmente è qualcosa che farà storcere il naso ai più conservatori, ma in fondo tutte le innovazioni quando vengono attuate per la prima volta incontrano qualche opposizione, ma se non si prova non si può sapere se darà o no buoni risultati.
Bene, ora andiamo diretti al punto: non credo proprio che A Place in the Queue sia il solito album di prog rock onesto ma tutto sommato ordinario, per struttura e composizione credo che possa sperare di lasciare un segno nella storia del rock progressivo, e credo che in qualche misura la band ne sia consapevole e nutra delle comprensibili ambizioni sul suo futuro. Sbaglio?
No, non posso negare di averne di ambizioni, e anche per questo il giudizio che hai espresso mi rende davvero felice. Volevo fare un disco con sostanza, qualcosa di più profondo di quello che spesso si ascolta oggi. Sono partito con l’idea di fare qualcosa di unico, e per non dimenticare mai questo proposito durante i lavori ho tenuto davanti a me una copia di Tales from a Topographic Ocean degli Yes. Non certo per ispirarmi alla musica, naturalmente, ma mi sono detto: “voglio fare un disco di questo livello, ma a modo mio, qualcosa che fra trent’anni sarà ancora ascoltato”. Spero di esserci riuscito.
Che cosa mi puoi dire della sua creazione? Come nasce A Place in the Queue?
Questa è una domanda complicata. Ho iniziato a suonare presto, dopo il mio arrivo in Francia. Non ho resistito a suonare la tastiera. Per quanto riguarda il concept, beh, non è esattamente un concept in senso stretto perché non c’è una sola storia, ma tutti i testi dell’album ruotano attorno al concetto della fila. Oggi le persone sono tutte come impilate in una lunga fila, e ognuno dipende in qualche modo da chi gli sta davanti. Il dipendente dipende dal proprio capo, il capo ha a sua volta un altro capo, poi la ditta, i compratori e così via, fino ad arrivare ai politici più potenti, come Bush, che a sua volta dipende dalla gente povera… se ci pensi, alla fine è un cerchio.
Il motto di tutti sembra essere: “non lamentarti, lavora e basta, e non fare mai domande”. Tutto l’album contiene dei piccoli messaggi, e a questo si riferisce anche GPS Culture. Il dogma è “compra questo, compra quello”, a prescindere da quello che ti serve. E alla fine si finisce di fare ciò che dicono i media, senza che ci sia davvero una ragione.
E’ un concept trasversale, diverso da quelli che si sentono di solito.
Penso che un album come questo sia appetibile non solo ai cultori del genere ma anche a coloro che hanno una formazione musicale un po’ diversa. Ci sono molte influenze di stampo jazz, altre dalla musica classica, e persino un brano come “The Sun in my Eyes” che potrebbe avere successo come singolo dal buon impatto commerciale, un po’ come accadde agli Yes con Roundabout. Tra l’altro il suo motivo principale mi ricorda un po’ “Don’t Let Me Be Misunderstood” degli Animals. Che cosa pensi a tal riguardo?
Veramente non ci avevo pensato… dovrei riascoltare le due canzoni, così su due piedi non saprei che cosa dirti.
Per quanto riguarda il tuo paragona con gli Yes, sicuramente è un paragone molto prestigioso che mi rende molto fiero, ma sinceramente non ci avevo pensato in questi termini. Voglio dire, anche a me in effetti era venuto in mente un possibile parallelo con Roundabout, ma l’altro termine per me non era The Sun in My Eyes bensì GPS Culture. The Sun in My Eyes nasce un po’ come esperimento un po’ dal mio amore per la disco music. Mi piace molto la disco, ci sono delle canzoni che fanno parte della colonna sonora della tua vita e io la sento un può come parte di essa. Alla fin fine nella disco si fa grande uso dei sintetizzatori, ha contribuito a sviluppare la tecnologia… così ho pensato di collegarla al prog, e quello è il risultato. A molti ne è piaciuta, hanno detto che stonava con il resto dell’album, c’è anche chi esprimendo un parere sull’album ha parlato quasi solo di quella canzone… a parte tutto, voglio dire, sono solo tre minuti e mezzo, se non ti piace puoi almeno ascoltare gli altri settantasei!
Comunque per quanto riguarda l’album in generale, volevamo fare qualcosa che fosse un po’ come un doppio album, ma contenuto in un solo cd. Penso che ottanta minuti di musica siano abbastanza, e poi il fatto che uno non debba cambiare disco quando è finito il primo è anche una questione di comodità… secondo me è meglio evitare le interruzioni quando si ascolta un album per intero, ma considerata la durata penso che A Place in the Queue si possa proprio definire un doppio album su un singolo disco.
Le suite di lunga durata sono ormai parte integrante della tradizione del prog rock, ma questa è una delle prima volta che mi capita di trovarne due di questa durata sul medesimo disco. Sai che i fan sono molto esigenti, e che per il prossimo album ti chiederanno qualcosa ancora in più… che cosa hai in mente di escogitare per il tuo prossimo lavoro?
Ah, proprio non lo so, come ti ho detto all’inizio non pensavamo neanche di fare un secondo album…
Comunque ho qualche idea interessante da parte e ho intenzione di tentare un esperimento che penso nessuno abbia ancora tentato. Il disco che ho in mente naturalmente manterrà lo stile dei Tangent ma suonerà in modo diverso.
Che cosa intendi?
Vediamo… hai presente Discipline?
Dei King Crimson? Sicuro.
Ecco, in quel disco manca qualcosa. Naturalmente è qualcosa che è stato omesso appositamente, e io ho intenzione di fare qualcosa del genere sul mio prossimo disco. Ho già scritto un paio di canzoni, ma c’è ancora molto da fare… per ora di più non posso dirti.
Bene, vorrei chiederti allora quali intenzioni hai per l’altra tua band, i Parallel or 90 Degrees. Hai intenzione di conciliare l’attività delle due band o di privilegiarne una a scapito dell’altra?
Beh, i Po90D sono fermi da un po’ di tempo, ma non ho intenzione di accantonarli perché è un progetto a cui tengo molto. Sicuramente è diverso dal prog moderno, e anche dai Tangent sicuramente, diciamo che sono più della scuola dei Radiohead che dei Genesis.
Comunque non posso certo dire, come magari fanno i Porcupine Tree, che non sia prog. Noi proviamo a fare qualcosa che sia prog, ma anche nuovo, con influenze molto diverse, tipo R’n’B e death/thrash. Torneremo sicuramente e registreremo qualcosa in Francia.
Penso che il tuo amore per la scuola di Canterbury, per gli Yes e per il rock progressivo in generale sia ormai chiaro a tutti. Sull’album però, come ho già detto, sono presenti anche rilevanti influenze di altri generi. Puoi parlarci un po’ delle tue origini musicali?
Certo. Devi sapere che fin da quando ero piccolo casa mia è stata piena di musica. Avevamo un pianoforte e un’ampia collezione di musica classica. I miei primi ricordi musicali sono legati a Beethoven, Mandel e Prokofiev. A scuola invece mi sono avvicinato al rock, eravamo all’inizio degli anni ’70, e alla fine ho scoperto il prog rock per caso, quando un amico di famiglia portò a casa nostra un disco dei Van Der Graaf Generator. Tra il 1977 e il 1978 ho iniziato anche a suonare in una prog band, ma non erano più gli anni migliori per quel tipo di musica, e il progetto naufragò. In seguito ho iniziato a suonare in una band hardcore/thrash… non mi ci vedevi a fare hardcore, vero?
Ehm, direi proprio di no. E adesso che cosa ascolti?
Guarda, penso che oggi la scena rock sia decisamente in salute, ci sono molti gruppi validi. Di recente per esempio ho ascoltato un ottimo album di prog rock italiano, la band si chiama La Torre dell’Alchimista, sono veramente bravi. Poi ci sono tanti altri buoni album come quelli dei Flower Kings e degli IQ… non si può dire che manchi la qualità.
Ultima domanda: quando venite in Italia?
Non lo so ancora, ma spero presto, anche perché non ci sono mai stato. Spero per il prossimo tour!
Lo spero anche io. Grazie delle risposte e auguri per il futuro! Ciao!
Grazie a te Riccardo, e un saluto a tutti i lettori di Truemetal. Ciao!