Ashent (Onofrio Falanga e Alessandro Cossu)
Una band relativamente giovane, gli Ashent, in giro, almeno a livello ufficiale, solamente da sei anni. Purtuttavia oramai maturi ed indipendenti, grazie a dischi interessanti come Inheritance, uscito a settembre. Proprio per questo, Truemetal ha deciso di reincontrare la band. Questa volta alle nostre domande hanno risposto i titolari delle sei corde, Onofrio Falanga e Alessandro Cossu.
Bentrovati. Ho deciso di aprire l’intervista con due domande rivolte ad Alessandro, in qualità di (semi)nuovo acquisto.Vorrei sapere in che modo sei entrato a far parte della band.
Alessandro:
Ripensando a come tutto è cominciato mi accorgo che ormai ne è passato di tempo! Con gli Ashent ho cominciato a suonare più o meno nel periodo in cui è uscito “Deconstructive”, quindi stiamo parlando del 2009, anche se la mia entrata in formazione è stata ufficializzata un po’ più tardi. A quel tempo io e gli altri non ci conoscevamo e il tramite è stato Raffaello Indri, chitarrista ora negli Elvenking e mio insegnante anni addietro, che ci ha messo in contatto. Dopodichè c’è stato il provino e, per qualche motivo, tra tutti hanno scelto me.
Leggendo le vostre bio ho notato che hai passato un anno negli Stati Uniti. Raccontaci come hai trovato questa esperienza.
Alessandro:
Ci sono stato un anno esatto, tra il 2005 e il 2006. Il motivo che mi ha portato là è stato frequentare i corsi al GIT di Los Angeles. Si tratta della scuola dove tra gli altri hanno studiato e insegnato Paul Gilbert, Frank Gambale, Brett Garsed e molti altri. Lì ho avuto modo di suonare e studiare con grandi musicisti tra cui Jeff Kollman, Scott Henderson, Allen Hinds e Chris Broderick (al tempo non era ancora entrato nei Megadeth). Sono partito in un periodo in cui la mia indole era ancora quella propriamente metal, e invece ho finito per interessarmi a tutt’altro, soprattutto agli studi in ambito jazz e fusion che poi sono diventati il mio interesse principale. E’ stata una bellissima esperienza dal punto di vista musicale e non. Ma generalmente la domanda che mi viene posta più di frequente a riguardo è perché io sia tornato in Italia, che devo dire è una cosa che ogni tanto mi chiedo pure io.
Per quanto la proposta Ashent suoni davvero originale, noto che esiste una certa base comune al Prog/Power italiano. Esistono band che prendete a modello?
Onofrio:
In oltre 10 anni di attività, questa domanda ci è stata posta puntualmente quasi in ogni intervista e, con un po’ di imbarazzo, devo ammettere di trovarmi in difficoltà a rispondere, tanto ora come la prima volta. Onestamente non ci sono punti di riferimenti precisi, non ne abbiamo mai avuti in passato, e credo che quest’approccio si palesi concretamente nelle composizioni dei nostri 3 dischi.
Suoniamo chiaramente prog-metal, questo è certo; amiamo miscelare stili diversi, architettare arrangiamenti complessi a sostegno di canzoni comunque sempre orientate alla melodia e alla fruizione. Tuttavia non esistono gruppi ai quali gli Ashent fanno il verso: il nostro obiettivo è stato sin dall’inizio, quello di tentare di portare avanti un percorso musicale che fosse originale o quanto meno personale. In quest’ottica, la rivoluzione che ha interessato la line-up tra Deconstructive (2009) e l’ultimo nato Inheritance (2012) è stata gestita proprio con il fine di sparigliare ulteriormente le carte in gioco, arricchendo la nostra proposta con importanti elementi di novità: la personalità di Titta dietro al microfono è sicuramente una certezza. E musicisti come Alessandro e Gilles (tastierista e sassofonista) sono stati arruolati proprio per la loro capacità di aggiungere interessanti sfumature sonore, portando ulteriore freschezza, in un contesto dove le canzoni in cantiere già presentavano un deciso slancio verso il “nuovo”.
Alessandro:
Diciamo che nelle nostre intenzioni non c’è mai stata l’idea di fare un gruppo prog “alla maniera di”. Ovviamente in un modo o nell’altro alcuni elementi tradiscono l’appartenenza a questo genere, anche se l’etichetta musicale serve più che altro per questioni di praticità, in modo da avere una linea guida da seguire durante il processo compositivo, cioè avere idea di dove vogliamo andare con la nostra musica; allo stesso tempo occorre dare dei riferimenti anche a chi ascolta, perchè possa rapportare la nostra musica a gruppi che già conosce. In sostanza ognuno di noi ha dei riferimenti molto personali, alle volte anche completamente diversi rispetto a quelli degli altri e che molto spesso sono completamente estranei al mondo prog-metal. Penso che questa sia una cosa buona perchè, indipendentemente dai risultati ottenuti, un tipo di mentalità di questo tipo permette di non preoccuparsi eccessivamente delle imposizioni poste da un determinato genere musicale che inevitabilmente portano ad un modo di fare musica “manieristico”. Per quanto mi riguarda, i miei riferimenti sono soprattutto di ambito fusion e jazz, chitarristicamente ma non solo. Soprattutto nei miei soli ho cercato di inserire questo tipo di approccio al contesto metal e vedere cosa potesse venir fuori. Per quanto riguarda il resto dei nuovi componenti, Gilles ha invece portato all’interno dei brani molti suoni e atmosfere derivate dal prog anni ’70, unite a suoni elettronici di anni più recenti, creando un’ottima amalgama e varietà. Le linee vocali sono invece molto improntate alla melodia e fanno spesso uso di raddoppi e cori in una maniera che richiama band come i Queen. Sono riferimenti che quasi sempre sono stati evidenziati nelle recensioni di Inheritance uscite finora, il che ci fa sicuramente piacere perchè si tratta di una cosa voluta che mette in evidenza quell’eterogeneità dei componenti di cui parlavo prima e che definisce il sound caratteristico della band.
Data la complessità dei brani vorrei un po’ approfondire con voi il processo compositivo.
Alessandro:
DIrei che in linea di massima Inheritance ha avuto la stessa genesi dei precedenti lavori. Solitamente l’avvio viene dato da Onofrio che abbozza il brano nella sua interezza con le parti di chitarra, la struttura e alcune idee vocali di base. A questo punto il tutto passa in mano ad ognuno di noi, un po’ come fosse una catena di montaggio, così che tutti lavorano sulla propria parte, sviluppando quello che è il brano a quel punto. Questo permette anche la possibilità che il brano prenda una piega inaspettata perché dal momento che, come dicevo prima, ognuno di noi ha ascolti e gusti musicali differenti. Ognuno immagina il pezzo concluso in un certo modo, quasi certamente diversamente da come lo immaginano gli altri. Così una volta che io propongo la mia parte e passo il tutto in mano ad un altro lui lo immaginerà in modo differente e svilupperà la mia idea sulla base dell’impronta che lui vuole dare al pezzo. Questo processo si rende però anche necessario, dal momento che ognuno di noi si trova in un punto diverso della cartina geografica non sarebbe possibile fare altrimenti. Le giornate e gli orari per provare devono sempre essere calcolati e organizzati, quindi una volta che ci troviamo è indispensabile ottimizzare i tempi. Per fortuna internet ci viene in aiuto e possiamo comunque comunicarci le idee in tempo reale e in qualche modo fare anche un lavoro di gruppo sulle singole parti di ogni strumento.
Onofrio:
Come per Flaws of Elation e Deconstructive, anche per Inheritance, mi sono occupato della scrittura dei brani in solitaria, lavorando successivamente in sinergia con i tutti i ragazzi, agli arrangiamenti e ai suoni dei singoli strumenti nello specifico. Le maggiori novità rispetto al passato hanno riguardato la composizione delle vocals.
Precedentemente, le linee di voce venivano gestite prevalentemente da me, con l’aiuto e la supervisione di Gian (mio fratello e bassista), e di seguito affidate all’approvazione della band e all’interpretazione del cantante. Con Inheritance, abbiamo coscientemente fatto gestire buona parte della mole all’autonomia di Titta che, con la sua esperienza e la sua enorme sensibilità compositiva, ha saputo creare soluzioni davvero suggestive. Ed infatti, rispetto ai miei spunti iniziali, sono rimasti inalterati soltanto un paio di brani e alcuni passaggi sparsi qua e la nelle canzoni.
La versatilità del cantato di Titta, che può rendersi aggressivo quanto serve, ci ha permesso anche di rinunciare al growl, soluzione di cui eravamo fieri sostenitori 10 anni fa, quando nessuno l’adottava in ambito prog, ma ora decisamente abusata ed inflazionata.
A tal proposito, nella tracklist di Inheritance è presente una canzone dal titolo italiano, ma a conti fatti si tratta di una strumentale. Come vi rapportate al cantato in madrelingua?
Onofrio:
Ti svelo un segreto. In origine, Inheritance sarebbe dovuto essere zeppo di passaggi in lingua italiana. Le atmosfere sognanti, i vari riferimenti autobiografici e a luoghi della penisola, presenti nelle lyrics, spingevano all’uso della nostra lingua, enfatizzando la natura più letteraria dei nuovi testi.
Band come i Novembre, alfieri in quest’ambito, hanno dimostrato come il metal possa poeticamente sposarsi con l’italiano, con risultati decisamente esaltanti. Nella fasi finali della composizione del disco, rendendoci conto di aver dato alla luce un lavoro già estremamente complesso, non abbiamo pero’ voluto appesantire l’ascolto con soluzioni molto particolari che avrebbero rischiato di rendere Inheritance ancora più elitario di ciò che già fosse.
Resta quindi il titolo della semi-strumentale, “La danzatrice scalza”, un piccolo regalo che ci siamo concessi: si tratta di un brano molto particolare, fortemente autobiografico nel quale, tra le altre cose, Titta mi cede il microfono durante l’unico passaggio cantato, e risalta un lungo assolo di chitarra classica dell’artista ospite del disco, Igor Madeyski.
Posso comunque assicurare che in futuro, con molta probabilità, la lingua italiana farà parte integrante della nostra musica.
Come vi orientate nel music business, ovvero, basta la vostra attività di musicisti o fate altro nella vostra vita?
Alessandro:
Ci dividiamo più o meno a metà tra quelli di noi che hanno un lavoro completamente estraneo alla musica e gli altri che invece sono musicisti. In ogni caso è evidente che l’attività con gli Ashent non è l’occupazione primaria per nessuno di noi. Più che guadagnare è una di quelle attività che causano molte spese ahahah.
Onofrio:
Nel 2012, suonare metal ed essere di nazionalità italiana non consente di vivere di musica, a nessun livello: le motivazioni sono infinite ed arcinote e le eccezioni si contano sulle dita di una mano monca. Quindi le nostre vite si basano principalmente sulla gestione di un day job, e chi orbita attorno alla musica si occupa anche di giorno o di insegnamento, o ricopre il ruolo di turnista, o di fonico. Nel nostro piccolo tuttavia, con gli Ashent, dopo qualche anno, stiamo riuscendo ad autofinanziare con gli introiti guadagnati direttamente con la musica i notevoli investimenti alle spalle di un progetto complesso come il nostro.
Come e stata l’esperienza del video?
Onofrio:
Bella, divertente e gratificante. Ma anche un passaggio obbligato: cambiati 4/6 del gruppo, si rendeva necessario rendere visivamente riconoscibile la nuova line-up. Ecco il motivo per il quale, oltre ad apparire nella canonica veste di strumentisti, tutti noi ci siamo calati nei panni di “attore”, interpretando i ruoli ideati nello storyboard, con una massiccia dose di autoironia.
Da segnalare anche il fatto che nel video faccia la sua prima ufficiale apparizione il batterista Ivan Moni Bidin (Pathosray, Garden Wall), l’ultimo entrato in famiglia, alle prese con arrangiamenti in origine registrati dal nostro amico Davide Buso, batterista storico defezionario poco dopo le registrazioni del disco.
Il brano scelto allo scopo è stato “Magnification of a daydream”, sicuramente uno dei pezzi più accessibili del lotto, ma anche un buon esempio di ciò che sono gli Ashent nel 2012.
Alessandro:
Direi che è stato divertente, soprattutto rivederci in un secondo momento nelle vesti di attori, vesti che decisamente indossiamo con qualche disagio. Al di là di questo, fare un video sembrava essere un passo dovuto. Anche questo penso sia indicativo di come le cose sono cambiate rispetto a una volta: ormai girare un video non rappresenta più una cosa destinata a pochi, riservata a quelli che “sono arrivati”. Questo, così come la stessa registrazione di un disco, diventano cose sempre più accessibili a tutti e gestibili in maniera casalinga con qualità sempre maggiore. Quindi più o meno ogni gruppo ha ormai il suo videoclip online, per questo non farlo vuol dire avere qualcosa in meno rispetto agli altri, se non altro dal punto di vista promozionale, che è purtroppo molte volte la principale abilità richiesta ad un musicista. Non si tratta di una gara di popolarità, però ormai il flusso di musica che ci investe è talmente grande che chiunque abbia internet resta disorientato e non sa più cosa ascoltare, sempre ammesso che sia interessato a conoscere musica nuova, il che non è da dare per scontato. Quindi c’è bisogno di spiccare quel tanto che basta per attirare l’attenzione, o quantomeno evitare di venire oscurati da tutti gli altri. Anche dal punto di vista della qualità, ormai è possibile fare cose incredibili con strumenti abbastanza abbordabili anche senza avere una casa di produzione alle spalle e quindi bisogna che tutto sia confezionato in maniera professionale, mascherando per quanto possibile l’eventuale carattere casalingo del prodotto. Nel nostro caso direi che è andata bene e siamo stati tutti soddisfatti del risultato finale.
A proposito ringrazierei Francesco Sogaro a cui si deve quello che è venuto fuori; senza dimenticarci del gran supporto datoci da Valeria Battain, e dalle imprescindibili Giulia Antonello (attrice) e Debora Palmerini (trucco).
Veniamo ora a parlare della ricezione della vostra band nel panorama italiano. Come si pongono gli altri gruppi nei vostri confronti? E voi, sperate di diventare i nuovi Vision Divine?
Onofrio:
Massimo rispetto per la band di Olaf Thorsen, della quale apprezzo soprattutto il periodo con Michele Luppi alla voce, ma il nostro percorso artistico è diverso. Sarebbe semmai interessante dividere un giorno il palco con loro.
Alessandro:
Come detto prima, il nostro intento non è tanto quello di fregare il posto a qualcuno, scopiazzando quello che hanno fatto loro fino a quel momento, ma piuttosto cercare un nostro posto personale facendo al meglio delle nostre possibilità quello che ci piace. Soldi comunque non ne girano, quindi tanto vale.. altrimenti ce ne andremmo tutti a fare i provini per x-factor.
Oltre all’Italia, fate progetti di invadere il mercato estero?
Alessandro:
Non penso che ci sia una divisione così netta tra mercato estero o italiano, nel senso che ormai si può far arrivare dovunque la propria musica e si ragiona sempre in termini “globali”. Certo, le cose sarebbero diverse se facessimo pop, perchè in quel caso ogni paese ha il proprio mercato e le proprie regole da seguire. Perchè, a livello di pop un pezzo deve funzionare nel contesto di una determinata cultura nazionale. Per il genere che proponiamo noi il mercato è talmente piccolo in proporzione che le cose vanno diversamente. Una conferma di questo è anche il fatto che i nostri testi sono in inglese, così come lo sono quelli del 99% dei gruppi rock e metal in circolazione, indipendentemente dal loro paese di provenienza. Questo evidentemente significa che il riferimento è sempre ai modelli esteri, in linea di massima inglesi o americani. Tra l’altro la nostra etichetta, la Lion music, ha base operativa in Finlandia e quindi è ovvio che anche per questo motivo dobbiamo necessariamente ragionare in termini “globali”.
Onofrio:
Avere una label scandinava ci permette di avere un impatto promozionale a livello europeo decisamente convincente. L’Italia resta purtroppo un non-mercato, sia per le vendite dei cd, sia per la fatica che si fa per imbastire un’attività live decente. E quindi non resta che perseverare oltre confine, sperando che in patria, a forza di dischi e anni di presenza sulla scena, qualcuno si accorga di noi. Le prossime mosse ci vedranno con molta probabilità tentare di varcare i confini nella speranza di portare la nostra musica dal vivo con maggiore continuità.
E l’ultima domanda ovviamente riguarda le possibili tournée future?
Alessandro:
Ci stiamo lavorando. Siamo tutti consapevoli della necessità di fare più live possibile per promuovere il disco appena uscito. Internet e i social network sono indispensabili ma alla fine la differenza la fanno i concerti. Al di là di questo abbiamo bisogno di suonare fuori anche per desiderio personale, nel senso che il grande limite del gruppo è sempre stata la poca attività in questo senso, per molti motivi. Da quando sono entrato io ad esempio ci sono stati i diversi cambi di formazione (rispetto a Deconstructive oltre a me sono cambiati tastierista e cantante, e dopo le registrazioni anche Davide, il batterista, non ha più potuto continuare a suonare con noi) oltre ovviamente al fatto che alla composizione e registrazione del disco è stata data la priorità, per lo meno nell’ultimo anno e mezzo. Oltre a questo, il punto cruciale è che in Italia il sistema live rappresenta una delle tante cose che non funzionano e si instaura un meccanismo perverso per cui risulta quasi impossibile avere una buona attività live procurandosi e organizzandosi da soli i concerti, e anche quelli che ci riescono lo fanno con grande fatica e perdita di tempo. Quindi ora staremo a vedere, abbiamo alcune cose in ballo che aspettano di essere definite meglio quindi ancora non mi esprimo, però siamo fiduciosi.
Onofrio:
Nonostante tutte queste oggettive difficoltà, si continua a lavorare con ottimismo per incrementare massicciamente l’attività on stage.
Inheritance è un album che merita di essere portato dal vivo. A riguardo, consiglio tutti i lettori di truemetal.it di tenere sempre monitorato il nostro sito,www.ashent.net , o di far visita alla nuova pagina Facebook della band,www.facebook.com/ashentband.