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Atlantis Chronicles (Antoine Bibent)

Di Daniele D'Adamo - 11 Aprile 2013 - 16:09
Atlantis Chronicles (Antoine Bibent)

 

Atlantis Chronicles. Tutto, dal nome ai titoli dei vostri lavori (“Silent Dephts”, “Against The Sea”, “Ten Miles Underwater”), lascia trasparire un grande amore per l’oceano e i suoi misteri. Come nasce, questa passione?

La scelta del mondo acquatico come tema principale per la band deriva dal fatto che sviluppiamo il nostro death metal mediante un’associazione molto forte d’idee. Abbiamo bisogno di esprimerci associando la nostra musica a un universo ben preciso. Questo mondo abissale che abbiamo scelto ci affascina sotto tutti i punti di vista, sia per la fauna, sia per la flora e sia per le leggende che narrano d’innominabili miti che hanno trovato rifugio sott’acqua. È un mondo che nasconde ancora numerosi segreti, e l’uomo pare che conosca di più l’Universo esterno degli abissi sottomarini, che coesistono tuttavia con l’uomo stesso sulla Terra. Questo semplice concetto di mistero, legato alle profondità marine, è per noi grande fonte d’ispirazione, di creatività, d’immaginazione.

Nome che, dall’inizio della vostra carriera (2005) sino al 2010, era Abyss. Come mai avete dovuto cambiarlo? Non è più evocativo, comunque, quello attuale?

In effetti, Abyss ha presentato dei problemi per noi poiché ci sono innumerevoli progetti e opere che hanno già questo nome. Abbiamo scoperto che era un po’ difficile differenziarci dagli altri con Abyss e, in più, che sarebbe stato assai difficile proteggerlo in termini di diritti d’autore. Del resto, le composizioni presenti in “Ten Miles Underwater” rappresentano una netta evoluzione musicale rispetto alle opere del passato, e il mio arrivo tre anni fa nella formazione ha confermato definitivamente la volontà di progredire, musicalmente parlando, verso ciò che è Atlantis Chronicles oggi.

“Ten Miles Underwater” è il vostro debut-album. Un concept-album incentrato sulla figura del leggendario esploratore americano William Beebe (29.07.1877 ÷ 04.06.1962). Per quale motivo avete scelto proprio lui?

Dobbiamo la trovata del personaggio di William Beebe al nostro batterista Sydney (Taieb, ndr). È lui che, scoprendo l’esistenza del batiscafo in un libro di Clair Nouvian, è risalito alla scoperta di William Beebe.

Perché avete scelto di fare un concept-album? Di cosa narra?

Il metal, nel senso più esteso del termine, è una musica che possiede un forte potere emozionale ove è molto piacevole esacerbare i fatti, esagerare le atmosfere, gonfiare di epicità le situazioni, ecc. Abbiamo bisogno di stimolare la nostra immaginazione su piani diversi, quando scriviamo, e – in particolare – , su quello visionario, per cui la scelta di un concept-album è stata quasi obbligata, in un certo senso. “Ten Miles Underwater” racconta in termini inquietanti, quindi, la discesa dell’esploratore William Beebe nelle grandi profondità oceaniche a bordo della sua invenzione: il batiscafo (il sommergibile ideato nel 1930 che permetteva di scendere sino a 900 metri circa).    
 

Ascoltando il disco, si ha davvero l’impressione di immergersi con un batiscafo negli abissi blu. È stato difficile far ‘combaciare’ la musica al tema trattato?

In effetti, è un processo cui non ci riflettiamo veramente: è solo la nostra soggettività che ci fa dire quale ritmo o quale sonorità legare al nostro mondo acquatico. Abbiamo un’idea comune di quello che occorre comporre per disegnare l’universo degli Atlantis Chronicles, ma al di là di ciò non abbiamo remore a fidarci unicamente dei nostri gusti e del nostro istinto.

Il vostro stile, secondo me, può inquadrarsi in un deathcore molto tecnico, quasi progressivo. Una sorta di ‘progressive deathcore’, insomma. Concordate con questa definizione?

Il death metal moderno e progressivo è la più importante sorgente d’ispirazione del gruppo, e le nostre influenze si collocano vicino a gruppi quali The Human Abstract e The Faceless. Per quanto riguarda il lato ‘hardcore’ della nostra musica, direi di sì ma soprattutto per la mia voce, poiché ho un debole per la scena metalcore (i 1er Every Time I Die, Norma Jean, Poison The Well).

Avete tutti lo stesso background musicale, oppure provenite da generi diversi?  

Devo dire che le influenze sono assai varie: abbiamo evidentemente dei gusti in comune ma altri sono assai diversi fra loro. Questo mi sembra perfetto poiché la diversità dei gusti regala spesso una complementarietà fra i membri, che nutre il processo creativo.   
 

Come siete finiti a firmare il contratto discografico con la label italiana Coroner Records? È stato difficile, visto l’attuale momento di proliferazione, o meglio inflazione, di progetti metal?

Abbiamo setacciato un sacco di etichette, ma la Coroner Records si è mostrata subito molto interessata alla nostra musica e devo dire che è stata molto paziente con noi. Dico questo perché volevamo essere sicuri di essere sostenuti da una label determinata, e la Coroner ha avuto la costanza di rispondere con precisione e sincerità a tutte le domande che abbiamo formulato prima di firmare il contratto. Siamo soddisfatti al 200% della nostra collaborazione con questa casa discografica: questi ragazzi fanno il loro lavoro in modo molto professionale e ci sostengono enormemente. Ne approfitto, allora, per salutare Ettore (Rigotti, ndr) ed Eros (Pasi, ndr), sperando di poter venire in Italia, un giorno, e di conoscerli in carne e ossa!

La Coroner tratta parecchie band che suonano ‘modern metal’. Ritenete anche voi di far parte della nuova generazione? Di quelli, cioè, che rappresentano il futuro del nostro genere?

Ci sentiamo parecchio vicini allo scenario moderno del metal e siamo sulla cresta dell’onda formata dalle giovani band molto tecniche, che possiedono una grande ricchezza di sonorità nelle loro composizioni e che hanno calcato la scena del progressive death metal in questi ultimi anni. Ora è ancora troppo presto e soprattutto troppo presuntuoso dichiararsi i rappresentanti di qualcosa in materia di stile musicale. Come tanti altri gruppi, proviamo solo a scrivere la musica che vogliamo ascoltare.

Prima curiosità: dove avete girato il video di “Thousands Carybdea”?

L’abbiamo girato in Bretagna (una regione del Nord-Est della Francia), in una piccola città chiamata Plouhinec dove esiste ancora un magnifico cimitero di vecchi battelli del XIX secolo.

Seconda curiosità: di chi è stata l’idea per il soggetto (stupendo) della copertina?

Per quest’artwork abbiamo contattato un grafico rinomato nell’ambiente, che si chiama Pär Olofsson (Immortal, The Faceless, Job For A Cowboy, ecc.). Gli abbiamo comunicato qualche idea generale di ciò che avevamo in testa per la copertina (fra le quali il batiscafo che atterra in mezzo al mondo perduto di Atlantide), che rappresenta l’apogeo del viaggio di William Beebe, così ben disegnata da Pär nella scena che si vede sul package.  

Ho visto che state facendo l’Underwater Franch Tour 2013, a supporto di “Ten Miles Underwater”. Avete dei programmi, per il resto dell’Europa?

In questa prima tournée, praticamente solo francese, abbiamo previsto comunque di fare un salto in Belgio e in Svizzera. Però, abbiamo da poco annunciato che faremo un tour europeo di una dozzina di date che passerà dal Lussemburgo, Polonia, Repubblica Ceca e Paesi Baltici, e siamo molto eccitati dall’idea di suonare in questi posti.  
Riuscite a vivere del mestiere di musicisti oppure anche in Francia è come in Italia, dove tutti devono campare con un lavoro ‘tradizionale’?

No. Per il momento non viviamo della nostra musica e dobbiamo quindi avere un lavoro parallelo a quello della band.
 

Da uno a dieci, che voto dareste a “Ten Miles Underwater”? E perché?

È difficile giudicare il proprio lavoro perché si tratta della tua musica, che puoi amare in maniera eccessiva in certe cose, in certi passaggi; e allo stesso tempo odiare per non aver sviluppato altri aspetti sonori o ritmici nelle canzoni. Inoltre è un parere in perenne evoluzione poiché cerca di fissare il giudizio sul lavoro svolto in passato per giungere a una maturità superiore per le future composizioni del gruppo.  

Qualcosa da dire per i lettori di Truemetal.it, infine…

Senza essere ruffiani devo dire che da quando lavoriamo con la Coroner Records è nato un po’ di affetto per l’Italia, per cui speriamo di avere l’opportunità d’incontrare il pubblico italiano, un giorno!

Intervista a cura di Daniele “dani66” D’Adamo