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Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (# 1)

Di Stefano Ricetti - 6 Maggio 2009 - 15:37
Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (# 1)

Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (# 1)

 

Secondo appuntamento, dopo il numero “Zero”, della succosa rubrica.

Buona lettura.  

 

Stefano “Steven Rich” Ricetti  

 

Contrasto generazionale. Fu quello che ebbi – musicalmente ma non solo, ahimè – con mio papà, grande appassionato di musica, quando tentai di propinargli la “mia” musica. Lui era tutto Jazz, Mina e Sinatra. Io gli facevo ascoltare, selezionando con pudore, per timidi tentativi, alcuni progressivi – Jethro Tull, Yes e E.L. & P. – non avendo il coraggio di rischiare di buttarmi sull’hard rock: non l’avrebbe accettato. Non fu facile, ma riuscii, con il tempo, ad ottenere un qualche risultato positivo e vederlo ogni tanto seduto sul divano della mia camera o in bagno, prepararsi a porta aperta attento ad ascoltare un po’ delle mie note mi parve un grosso passo in avanti. Ovviamente, per me, in avanti significava portarlo dalla mia parte. Dalla sua non ci passai mai, se non in tarda età, quando – trovandomi a dover fare i conti con brandelli della mia vita con lui – compresi cosa trovava in Mina o Sinatra. Una tendenza verso il Jazz contaminato l’avevamo, in qualche modo, concordata tacitamente. Per me era rappresentata da una fetta della produzione zappiana. Ecco, per me, quello fu un esempio di “condivisione”.

Nella foto: Reading 1980 – John Sykes

Contrasto generazionale.  Non è certo quello che sono andato cercando con le mie righe nel primo numero della rubrica. Anche se qualche commento che ho letto pareva impostato a una reazione del genere. Ma è colpa mia : invecchiando si perde il dono della chiarezza, e da vecchio appassionato non faccio eccezione. Nostalgia? Assolutamente. Se per nostalgia si intende ricordarsi di quando, privo delle mie stampelle ed ancora in grado di ragionare con lucidità, me ne andavo senza accompagnatore a sedere sull’erba dei concerti all’aria aperta e riuscivo a sentire ancor privo dell’apparecchio acustico. Uhmmm…forse qualcuno mi deve aver immaginato come una sorta di  Stephen Hawking, nel senso dell’utilizzo della carrozzella motorizzata…

Nostalgia? No, per niente. Semplice, amara, constatazione che i tempi in cui quasi tutta la musica in circolazione era eccellente sono scomparsi, volatilizzati. Nessun rimpianto. Se non per il fatto che mentre un tempo si guardava avanti e si sperimentava, oggi non si fa che ascoltare un qualche filone, un gruppo di successo o con un po’ di successo e si tenta di incappare nei propri quindici minuti di notorietà. Tanto per ricordare il solito Warhol.
Partendo dai soli semplici ingredienti del rock and roll e del blues gli anni sessanta e settanta hanno seminato cultura, arte, poesia e cambiato le generazioni a seguire costringendo persino la politica mondiale ad adeguarsi e tener conto di una rivoluzione che li avrebbe spazzati via se non avessero tenuto conto del “vento nuovo” che soffiava. Peccato che a quel vento, i politici, si siano abituati e piegati immediatamente, riprendendo subito le proprie pessime abitudini. Lasciandoci, almeno, la musica.
Oggi invece, al massimo, si brinda al concertone o si festeggia l’ingresso del nuovo video su Mtv (quella vera, non quella diluita di futile fesseria all’italiana). Nostalgia? Macché ! Tristezza infinita casomai, dato che per uno come me che ritiene la musica elemento essenziale al pari del cibo, dover affermare che tutto è franato miseramente e che nulla di creativo prolifera più da qualche parte del mondo, è l’ammissione di una sconfitta. E….no, i nomi che vorreste farmi sono solo le eccezioni. Che non confermano la regola. Andiamo insieme a scorrere gli elenchi – esisteranno da qualche parte, no? – delle uscite di trenta, quaranta anni fa e scopriremo che l’80 per cento di quei nomi, di quegli album erano godibilissimi e splendidi. E lo sono ancora oggi. Potremmo in buona fede dire la stessa cosa oggi? E fra trent’anni?

Ok, ognuno individua il tumore che ha colpito il rock in un preciso momento storico, ognuno ha un suo responsabile. Io ho il mio, o meglio : immagino di aver individuato la prima tessera del domino che ha provocato la caduta di tutte le altre; e forse un giorno ne parleremo insieme. Magari presto.

Nel frattempo lasciatemi amaramente sottolineare che mi dispiace che il tempo e la natura non abbiano potuto dare ai più giovani l’opportunità di apprezzare gruppi che avrebbero cambiato il loro modo di valutare certa musica rock. E che la miopia dei media non dia tutt’ora a nessuno di noi la possibilità di accedervi, se non per iniziativa privata.

Cans, Reading 1980

Qualche giorno fa ero a cena da un mio grande amico, Beppe, Beppe Riva. Uno dei pochi di cui sia possibile aver stima al di là dell’affetto personale per il semplice motivo che scrivere, come ebbi a dire, non è esibizione di muscoli e nozioni; è soprattutto utilizzo corretto della lingua, della consecutio, è scrivere in modo accessibile e comprensibile e io non ricordo una sola volta in cui abbia mai visto correggere una bozza di un suo pezzo. E questo, credetemi, non è poco e non è comune. Ma dicevo, appunto, che sul suo tavolo, in sala, c’era una copia di un periodico inglese; lo strillo di copertina recitava : “Led Zeppelin e l’album di debutto che ha cambiato il rock!”. In un angolo : “1969, l’anno che ha cambiato il rock, con The Who, Stones, Free, Beatles, Floyd, Crimson”.  Bene. Qual è un altro anno, tra i recenti, che possiamo dire possa vantare un simile primato?
No, non sono nostalgico. Sono triste, questo sì,  perché come i condannati danteschi sono costretto a guardare indietro pur andando avanti. Anche se ogni volta che mi avvicino a un nuovo prodotto vorrei tanto potermi sentire emozionato come un tempo….e mi accade sempre più raramente.

Vorrei tanto non sentirmi dare del rincoglionito suggerendovi un nome, un disco, una canzone che per me incarna lo spirito del rock, anche se la data sul retro di copertina sia di vent’anni antecedente alla nascita di molti lettori. Ma d’altra parte che dovremmo fare, considerare Mozart o Beethoven due befanotti solo perché vissuti a metà del 1700?
Mettiamola così : sono certo che nessun appassionato di Stephen King o Clive Barker possa sentirsi al sicuro senza aver mai letto Poe o Lovecraft o Lord Dunsany. E da lettore affezionato non avrò mai il coraggio di sostenere che “Shining”, “Le creature del buio” o “Cabal” – pur appassionanti – siano lontanamente paragonabili alle emozioni che “Call of Chtulhu”, “Behind the wall of sleep”, “Dunwich horror” o “Il pozzo e il pendolo”, “La caduta della casa degli Husher” e via elencando possono suscitare a cento anni di distanza.

Quindi perché far finta che senza Zeppelin, Purple, Hendrix, Sabbath o The Who, Kinks, Beatles, Stones e compagnia cantante nessuno di noi sarebbe qua a disquisir di musica?
Rock? Si certamente, ma anche folk, country, jazz, psichedelia….perché se “All along the watchtower” è una delle canzoni più interpretate, non sarà solo perché Hendrix ci ha donato un capolavoro stravolgendo una ballata acustica. Forse c’è qualcosa oltre alle tre note che Bob Dylan aveva messo insieme; forse è la magia di un testo ambiguo e difficilmente interpretabile con certezza, forse è il genio di un musicista malato di creatività che ha edificato cattedrali sonore con una sola chitarra e troppa eroina nel sangue.  Ok, d’accordo, chiedervi di avere il coraggio di avvicinarvi a Dylan, adesso e in questo momento sarebbe una provocazione eccessiva (forse), ma nel suo cantilenante sviluppo, il testo di “Masters of war” è puro heavy metal dei contenuti e non troverete mai più altrove una simile lucida, netta e cruda violenza verbale.

Reading 1980: Ian Gillan

Qualche settimana fa, facendo zapping, mi sono imbattuto in uno show americano su Mtv. Non la amo quindi potrei sbagliarmi, ma credo si tratti di una sorta di “serata d’onore”, dove gruppi più recenti fanno omaggio a artisti fondamentali che poi, in fondo, si esibiscono. Ho visto Pearl Jam – ecco una delle mie eccezioni alla regola – cantare un brano degli Who, come fanno da tempo, dal vivo. E poi ho visto la metà di quel che resta di quei miti viventi suonare a fine serata tre brani classici. Forse è anche quella la via, come abbiamo già accennato : avvicinare i fruitori dei Pearl Jam ai loro ispiratori originali, e farglieli conoscere e apprezzare. Ho visto The Who in concerto quattro o cinque volte e sono sempre rimasto colpito dalla semplicità del loro approccio, dall’incredibile impatto della struttura delle loro canzoni. No, non li ho mai visti al loro top, all’inizio dei settanta. Ma esiste un album, “Live at Leeds”, che inquadra e risalta nei secoli la magica amalgama di quei quattro londinesi. Un disco che nella sua versione originale in vinile conteneva decine di documenti, in copia, in forma di gadgets; lettere di case discografiche che avevano rifiutato le loro prime canzoni, fatture di alberghi con richieste di risarcimenti per devastazioni, menù deliranti e scalette di concerti. Un modo come un altro per dire : ecco, noi, The Who, siamo tutto questo. E poi, all’interno del disco, una manciata di brani, con due lunghi medley da ascoltare per primi, dove l’arte della ritmica e della solista di Pete Townshend è incredibile. Un maestro. Puro rock, scarno, essenziale, robustissimo. E la voce di Roger Daltrey potente, intonata, senza limiti. E Keith Moon ancora vivo a spellare la sua batteria, John Entwistle immobile a sciorinare basi di basso, come non può più fare.  Come oggi è ancora, nelle registrazioni, ma come non potrà mai più essere, al tempo stesso.

The Who: Live At Leeds

Per parafrasare Zappa, anche quella musica fa parte…delle “cose che non puoi più fare dal vivo”. Già, gli Who non sono solo “quelli delle sigle di CSI”…meritano di essere apprezzati a suonati al massimo volume. E Live at Leeds è il migliore degli inizi. No, non troverete mai più quella ironica, luccicante confezione in vinile (a meno che non le diate la caccia nei mercatini dell’usato sperando che gli allegati non siano andati perduti), ma troverete una versione in compact moooolto più lunga. Tanti minuti in più, ma con meno fascino e senso dell’ironia; una scatolina comunque utile. Magari la prossima volta diremo anche due parole sul cd e sul mondo che lo circonda, e racconteremo cosa ne pensino anche i musicisti, magari. A suo tempo.

Ed in attesa di parlare della “teoria del disco perfetto”, che ci porterà a affrontare la famosa tessera del domino di cui abbiamo fatto riferimento prima, vorrei far cenno a due emozioni che ho ricordato proprio in questi giorni, per caso, dato che in queste righe vorrei non seguire mai lo schema preconfezionato della “critica e analisi di un album”.
Stavo riordinando alcuni vecchi giornali che desideravo conservare, quando mi è caduto l’occhio su una intervista a Noddy Holder, l’ex-voce e chitarrista di un gruppo chiamato Slade. In quelle righe si celebrava un mitico – per gli inglesi – concerto del gruppo, al Reading Festival, nell’estate del 1980. Io c’ero e lo ricordo ancora perfettamente, non solo per la cassettina pirata che sta nascosta da qualche parte nei miei armadi. Ricordo che gli Slade vennero chiamati a sostituire I Blizzard of Ozz che Ozzy non aveva ancora registrato a dovere e che temeva di dover esporre in una occasione così importante. Quel festival rappresentò per l’Inghilterra – e per il resto del mondo – le fondamenta di quell’ondata di heavy rock i cui artefici rappresentano per molti “l’origine” dell’HM attuale. Il pubblico era interamente composto da appassionati di hard rock, difficile, dunque, truffare. Un giorno vi riferirò i miei ricordi di quei tre giorni, perché credo siano, in qualche modo, interessanti. Intanto, però, gli Slade – sul palco a metà pomeriggio – fecero saltare, cantare, divertire, sudare e stancare i sessantacinquemila ragazzi che erano lì per assistere al parto del nascente heavy metal, per vedere i giovani Iron Maiden, Girl, Samson, Def Leppard, Tygers of Pan Tang Angelwitch e così via…. Ma quello show fu uno spettacolo indimenticabile! Era la prima volta che vedevo Slade dal vivo, li conoscevo solo attraverso i loro album e ne fui entusiasta. Non devo essere stato il solo se su Mojo se ne ricordava quel pomeriggio una trentina d’anni dopo. Quel giorno ho capito quanto diversamente sarebbero andate le cose se il festival si fosse svolto in Italia : il concerto degli Slade sarebbe stato il momento adatto per andare a comprarsi il panino e la Coca. Perdendo il senso del rock and roll e del divertimento allo stato puro.

Clem Clempson 

Sempre sfogliando uno di quei giornaletti, ho notato che si ricordava un vecchio, immenso gruppo inglese, misconosciuto in Italia e considerato un fondamentale supergruppo in Inghilterra, i Colosseum. Così mi sono andato a cercare il cd di “Live” – il cd serve a non far deteriorare l’album originale, essenzialmente – e me lo sono portato in macchina.  Ecco, se esiste tra chi legge un curioso che desidera ascoltare come l’hard rock e il blues elettrico possano convivere perfettamente con atmosfere jazzate, se qualcuno è interessato a sapere quale collante abbia potuto tenere insieme cinque teste pensanti, cinque leader naturali per un brevissimo arco di due anni e lasciar loro sfornare quattro o cinque album emozionanti, questa è la migliore delle occasioni. I Colosseum erano Jon Hiseman e lo scomparso Dick Heckstall-Smith (batteria e fiati, dai Bluesbreakers di John Mayall, l’inventore della scuola di blues elettrico inglese da cui sono venuti fuori…beh, quasi tutti…Jon è il primo e forse unico esemplare di batterista leader supposto di un gruppo rock), Dave Greenslade, tastiere, Clem Clempson chitarra, Chris Farlowe voce e Mark Clarke, basso. No, non a molti diranno qualcosa i loro nomi, ma forse i gruppi cui hanno dato vita, Humble Pie, Atomic Rooster, IfTempest, Greenslade o la seconda incarnazione dei Colosseum, con Gary Moore alla chitarra, potranno essere di aiuto.

Al solito, i dischi più belli nascono per caso. Racconta Hiseman che la casa discografica non voleva saperne di un disco dal vivo, ma che lui fece pressione facendo notare come il “Live at Leeds” degli Who (il circolo si chiude!) era stato un successo. Nessuno era contento, però, della qualità delle registrazioni a causa di “un sacco di errori durante le esecuzioni”. Quel nastro rischiò di essere sovra inciso ! Ecco, provate ad ascoltare il brano di apertura, “Rope ladder to the moon” dove ognuno cerca di sovrastare l’altro, in una sana competizione, o il riff scarno e ossessivo di “Walking in the park”, provate a calarvi nel lungo blues di “Stormy Monday”, un classico dei classici, o attendete con pazienza il lungo, progressivo e bellissimo assolo di Clempson nella finale “Lost Angeles” in un crescendo di echi e wha-wha da brividi, ricordando, sopra tutto che ciò che resta non è la migliore delle tecniche esecutive, ma l’esecuzione e ‘interpretazione soltanto. Io è una dozzina di giorni che non faccio altro, a tutto volume, nella mia vecchia carretta della strada, sfiorando, distratto, vecchine al ritorno dalla spesa e bimbi in libera uscita.
Ascoltate con passione e immaginatevi in un piccolo club dalle pareti nere, a Londra, chiamato The Marquee, il luogo dove era possibile localizzare il Centro del Mondo e pensate con me che anche quelle note fanno parte delle …”cose che non puoi più fare dal vivo”…

GIANCARLO TROMBETTI