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Def Leppard (1992)

Di Stefano Ricetti - 14 Marzo 2007 - 0:00
Def Leppard (1992)

Dopo il grande successo del sondaggio, peraltro ancora in hompage, relativo alle interviste vintage delle band HM su TrueMetal, inizio il nuovo corso con i Def Leppard. La chiacchierata fra Joe Elliot e Roberto Gandolfi è tratta dal numero 129 di H/M, dell’agosto 1992. Stavolta mi sono spinto oltre gli anni Ottanta in quanto su Rockerilla, precisamente nel numero 30 del gennaio 1983, vi era proprio un minimo scambio di battute che occupava 2/3 soltanto della paginetta formato A4, peraltro poco interessante. Nell’intervista su H/M, viceversa, viene affrontata a 360° la carriera dei Leps, fin dalla loro costituzione.

Un inciso: nei prossimi anni – perché verosimilmente di questo si tratta – cercherò di accontentare un po’ tutte le Vostre richieste… abbiate pazienza perché una volta o l’altra capiterà anche alla band che bramate da tempo.

Per ora accontentatevi dei Deaf Leopard (nome originario del combo di Sheffield), quelli del periodo appena successivo alla pubblicazione di Adrenalize, con l’ex Ronnie James Dio Vivian Campbell al posto del compianto Steve Clark, mancato nel 1991 per problemi legati all’alcolismo.
Buona Lettura.

Stefano “Steven Rich” Ricetti 

Nella foto: La copertina di H/M dal quale è stata tratta l’intervista

Nemmeno la scomparsa prematura di Steve Clark è riuscita a fermare la marcia trionfale dei Def Leppard, appellandosi a quel senso di fraterna lealtà che li ha resi una delle band più unite di tutta la rock scene mondiale e che, d’altra parte, ha anche permesso loro di fermarsi ad attendere che Rick Allen ritrovasse la strada smarrita dopo il terribile incidente che gli causò la perdita del braccio sinistro. Joe Elliot e soci sono riusciti a sopravvivere anche a questa dura prova, facendo quadrato, costringendo nervi e muscoli a piegarsi all’ineluttabile legge della sopravvivenza. Peraltro gli inglesi, oltre ad abituarci a tali subitanee riprese, ci hanno stupito con una condotta artistica che pare miracolosamente avulsa dalle vicissitudini del five piece. Ne è tipico esempio l’ultimo Adrenalize, sulla cui lavorazione si è abbattuto il lutto di cui sopra, ma che ha mantenuto, pur non brillando come i suoi due predecessori, una efficace linea artistico compositiva.

Se Pyromania era l’album che apriva nuovi orizzonti al metal e Hysteria stupiva per il sapiente utilizzo dei campionatori e delle melodie in chiave hard, il nuovo Leppard, invece, si pone a metà strada tra questi due lavori. La ritmica è incessante e il suo rude lavoro sotterraneo dal sapore Sixties regala una nuova atmosfera alle canzoni semplici e di facile presa della band. Dal vivo, poi, i nuovi Leppard visti nel corso del mini tour europeo per mettere alla prova l’amalgama della nuova formazione, hanno convinto come non mai. Il nuovo arrivato Vivian Campbell ha impreziosito, con pregevoli interventi, senza appesantirli, i brani in repertorio e la british band è parsa efficace come non mai, pur senza il supporto di un mega palco, di un light show faraonico e di vestiti da scena che invece erano parte integrante delle ultime due tournée mondiali. Poco prima della tappa – a sorpresa – milanese, abbiamo intervistato in esclusiva assoluta Joe Elliot, voce dei Def Leppard.
Buona lettura.

Parliamo degli albori dei Def Leppard: 1977. Gli Atomic Mass di Pete Willis e Rick Savage si sciolgono e tu conoscesti Pete proprio in quel momento. Cosa accadde con precisione il giorno del vostro primo incontro? Ti rendesti immediatamente conto che stava per nascere tra voi qualcosa di duraturo?

Gli Atomic Mass durarono non più di una stagione vera e propria ed erano una formazione scolastica: suonavano cover e nulla più. Io incontrai Pete subito dopo il oro scioglimento, cercavano un cantante e ci accordammo. Mi resi conto quasi subito che c’era un gran feeling tra noi, relativo soprattutto al nostro modo di vivere la musica, circa i traguardi e su come perseguirli. Senza contare poi che avevamo lo stesso background musicale.

1978: Tony Kenning, già nel primo nucleo dei futuri Def Leppard, viene licenziato da voi. Per quale motivo?

Eravamo d’accordo nel perseguire una politica carrieristica ferrea. Prove fino allo sfinimento e lavoro per sviluppare le nostre capacità creative. Tony non era certo il miglior batterista del mondo, ma non era questo il punto: ciò che non era in sintonia con gli altri era la sua mancanza di serietà, di determinazione per perseguire il risultato comune. Noi siamo sempre stati legati da un patto di lealtà cui non siamo mai venuti meno e Tony, invece, pensava che queste cose fossero tutte sciocchezze. Si innamorò e poco dopo la sua donna divenne più importante del gruppo stesso e non potevamo sopportarlo. Entrammo in studio praticamente senza un batterista.

Dovevamo registrare l’Ep e non sapevamo chi avrebbe suonato la batteria nei nostri pezzi. In studio trovammo un turnista dalle buone capacità chiamato Frank Nunn, un mio buono conoscente che, tra l’altro, stava anche registrando un altro Ep nello stesso studio. La cosa ci sembrò conveniente anche perché, a quei tempi, per noi il tempo era moneta e noi ne avevamo davvero poco. Frank era solido e preciso, non si sarebbe emozionato più di tanto e in due giorni registrammo tutto il lavoro.

Il vostro primo album fu prodotto da Tom Allom. Una scelta strana per una formazione che professava il desiderio di perseguire strade non battute. Quel tipo di producer, di maniera, non si addiceva certo a un gruppo come voi. Lo sceglieste o vi fu imposto dall’etichetta?

Noi volevamo da subito Mutt Lange, ma non era disponibile a lavorare, perché impegnato in un disco degli Ac/Dc e Tom era la seconda scelta. Pete insistette molto su Tom perché aveva appena prodotto un ottimo disco dal vivo di Pat Travers e l’allora ultimo dei Judas Priest; Tom era un grande fan dei Judas Priest.


Nella foto (nell’ordine da sinistra a destra): i Leps versione Rick Savage, Joe Elliot, Steve Clark (RIP), Pete Willis, Rick Allen.

A seguito dell’incisione di High’n’Dry, nel 1980, Pete Willis, uno dei membri fondatori, viene cacciato dal gruppo a sorpresa…

Fammi pensare a quel periodo specifico… dunque, noi entrammo in studio dopo il discreto successo del primo disco per registrare High’n’Dry con Mutt Lange e praticamente la stessa formazione dell’Ep, fatta eccezione per il batterista. Lavorammo per tre mesi al disco che venne finalmente come volevamo, ovvero con un suono duro, compatto, in cui ci riconoscevamo appieno. Poi andammo in tour per tre mesi assieme ai Rainbow in Europa e in America girammo con i Blackfoot e Ozzy. Tornando in Europa facemmo altre date con i Judas Priest e imparammo molto da loro, soprattutto per l’aspetto live. L’anno seguente, entrando a registrare Pyromania, Pete venne mandato via dalla band perché bevevo troppo, al punto di non riuscire nemmeno a lavorare. Avevamo un disco da finire e Pete non sembrava interessato a nulla tranne che a bere. Purtroppo era già allo stadio di alcolista e tutti i nostri tentativi di riportarlo all’efficienza fisica fallirono… Ci fu un litigio e Pete fu sostituito da Phil Collen.

Che faceva parte dei londinesi Girl. Eravate in contatto con questo gruppo?

Ci frequentavamo con la band, ma conoscevamo particolarmente Phil, spesso andavamo a farci un bicchiere di birra insieme, uscivamo quando si poteva. Insomma, un ottimo rapporto di buon vicinato. Lo chiamammo per un appuntamento in un club di Sheffield per una bevuta e una suonatina assieme. Chiacchierammo molto, suonammo in jam tutto quello che ci venne in testa e prima che il primo calcio della finale della coppa del mondo di calcio del 1982 fosse tirato Phil era il nuovo membro del gruppo. Lo sconvolgemmo dicendogli che il giorno dopo doveva subito essere pronto a registrare il nuovo disco ma, a parte lo shock iniziale, si riprese bene e fece un ottimo lavoro.

Con High’n’Dry siamo entrati nella Mutt Lange-era, uno dei più popolari e pagati producer in ambito hard e metal. Come lavorate in studio con lui?

In modo sempre diverso. Nel caso specifico di High’n’Dry noi venivamo da un extended play che avevamo realizzato nella completa anarchia e da un primo album dove la parte del producer non era sempre stata in sintonia con le idee del gruppo. Quindi, giovanissimi, eravamo nelle condizioni migliori per volere imparare quanto possibile da un Re Mida come Mutt. Lui del resto fu un gran maestro… e restò colpito dal fatto che, per una delle rare volte nella sua carriera, aveva di fronte un gruppo desideroso di seguire il suo diktat e la sua esperienza: a noi interessava quanto aveva da dirci. Solo in questo modo riuscimmo a raggiungere il risultato che volevamo già con Pyromania… fu un lavoro di sperimentazione concertata fra gruppo e producer. Eravamo una mente sola e ben allenata alla ricerca di qualcosa di peculiare.

Tornando al primo Ep: mi sembra che quell’esperienza fu più formativa rispetto a quella della realizzazione del vostro primo disco. E che personalmente voi giudichiate la vostra opera prima in modo critico.

Dei due giorni necessari all’incisione del primo extended ricordo solo un grande entusiasmo e una freschezza che ci ha permesso di supplire all’inevitabile mancanza di esperienza. Il primo disco è un passo indietro rispetto all’Ep, soprattutto perché non pensammo che l’esagerare determinati aspetti sonori fosse un errore. Pensa agli overdubs di Wasted… ci sembrava una bella cosa arricchire il suono di quel pezzo in studio, ma poi fu quasi impossibile per noi riproporla dal vivo. Oltretutto, tutte quelle sovrastrutture inquinavano l’impatto del lavoro. Il problema fu che Tom non ci avvertì della cosa e produsse un disco più vicino ai gusti di una band americana che inglese. Il risultato fu quasi la perdita di una certa originalità che ci eravamo trovati per le mani con la prima incisione. Quando producemmo l’Ep noi stessi eravamo in gioco, in prima linea, mentre con il primo album delegammo tutto a Tom e fu un grosso sbaglio.


Nella foto: Def Leppard 

Sostituito Pete con Phil Collen realizzaste Pyromania, nel 1982, uno dei dischi rivoluzionari di tutta l’era metal moderna: sia per l’uso delle melodie che dei campionatori. Con esso originaste il vostro inconfondibile marchio di fabbrica…

Quando entrammo in studio per Pyromania tentammo di cambiare il modo della gente di registrare i dischi al tempo… guardammo agli anni Ottanta, al futuro più che al decennio appena trascorso. Per questo lavorammo sulla tecnologia in modo costruttivo, personalizzandola e ci spingemmo oltre ogni immaginazione nel tentativo di originare un’alchimia, prendendo dei bei rischi.

Che tipo di atmosfera c’era in studio durante la lavorazione di quell’album?

Sperimentale, aperta a tutte le possibili combinazioni tecniche. Ti faccio un esempio che sembrerà folle: se due del gruppo se ne uscivano con una idea stupida in apparenza e gli altri tre invece appoggiavano una soluzione valida, noi ci fiondavamo a provare l’idea stupida e molte volte da stupida si trasformava in rivoluzionaria. Facemmo un sacco di sperimentazioni su quel disco e ancora oggi ne stiamo vivendo le scelte innovative.

Tra Pyromania e Hysteria aveste dei problemi produttivi: Mutt era impegnato e voi tentaste di produrvi da soli; tentaste la carta Steinmann e varie altre cosette, prima che Lange tornasse all’ovile, prolungando la lavorazione del disco di tre anni. Vuoi spiegarmi esattamente come andarono  le cose?

Purtroppo Mutt è uno dei producer più richiesti al mondo e se non ti accordi con lui per tempo rischi di trovarti spiazzato, anche se hai venduto quindici milioni di dischi come noi al tempo. Mutt stava producendo Heartbeat City dei Cars, un disco stupendo tra l’altro, e noi invece eravamo pronti per entrare in studio. Così tentammo la carta di Jim Steinmann, il migliore tra i disponibili al momento ma fu un errore, una perdita di tempo. Jim è un gran compositore e sarà anche bravo in studio quando produce il proprio materiale, ma quando tenta di dirigere un gruppo di musicisti che eseguono materiale originale, allora si perde in un bicchiere d’acqua. Con lui lavorammo sodo per tre mesi; gli demmo la possibilità di dimostrarci il suo valore anche se le cose non funzionarono da subito.

Poi tentaste di produrvi da soli…

Quello che tentammo di fare, visto che Mutt non era ancora disponibile, fu cercare di lavorare da soli insieme a Nigel Green che era stato ingegnere del suono in High’n’Dry, che missò Pyromania e che quindi sapeva bene come lavorare sul nostro suono. Fummo costretti a tentare questa carta, perché, pensammo, che se Jim Steinmann era il meglio di quanto il mercato al momento, era sempre meglio provarci da soli che imbarcarci altri fallimenti annunciati. Nigel lavorò al suo massimo, ma il risultato era ancora lungi dal venire… Qualche mese dopo, Mutt ci chiamò dicendo che se era in tempo avrebbe voluto lavorare con noi al disco. Noi non attendevamo altro e ci chiudemmo in studio con lui in Olanda. Buttammo via tutto il materiale lavorato da Jim e da Nigel, così Hysteria fu registrato per ben tre volte consecutive prima che trovasse la sua forma definitiva. In Adrenalize usammo Mike Shipley, presente dietro la consolle anche in High’n’Dry e Pyromania in coppia con Nigel, solo che invertirono i propri ruoli su questi lavori… così Mutt era impegnato sul nuovo disco di Brian Adams e noi non volevamo perdere altri anni nell’attesa che si liberasse.

Mike è un ottimo ingegnere del suono, forse il migliore al mondo, così le sua capacità e la nostra esperienza ci hanno permesso finalmente di lavorare da soli al disco. Mutt, invece, ci ha aiutato all’inizio del progetto: ha collaborato alla stesura dei pezzi e agli arrangiamenti degli stessi, così per la prima volta dai tempi dell’Ep , non avevamo un vero produttore. Certo, Mike è stato definito produttore, mentre in realtà è un ingegnere, e su ogni decisione c’era una sorta di conciliabolo in cui la band aveva, per la prima volta, potere decisionale molto più forte che in passato. Avremmo potuto lavorare con Bob Rock e Peter Collins, ma abbiamo pensato che questa volta ce l’avremmo fatta. Il disco è una sorta di via di mezzo fra Hysteria e Pyromania: ha le soluzioni tecnico melodiche di Hysteria ma nello stesso tempo ha il carattere e la forza di Pyromania. E’ un guitar-based album, meno melodico e più legato ai rock’n’roll riff. In essi ci sono gli Stones e tutti i nostri padri putativi.

Tear it Down è un pezzo già edito come B-side di Women e quindi risale al periodo di Hysteria. Per quale motivo lo avete ripreso su Adrenalize?

Perché quando lo incidemmo fu solo come facciata B dei nostri singoli, ma poi, riascoltandolo, ci rendemmo conto che, rivestito adeguatamente, poteva entrare nel novero dei pezzi del nostro ultimo disco. Così l’abbiamo suonata dal vivo alla premiazione dei Grammy e tutta le gente del music business ci fece i complimenti per quel nuovo pezzo. Noi ci affrettammo a spiegare che non si trattava di un pezzo nuovo e, tornati a casa, pensammo che il nostro singolo in Europa aveva forse potuto vendere trecentomila copie, per cui comprendemmo che il pezzo, da patrimonio di pochi, poteva diventare di dominio pubblico, visto che si tratta di un bel pezzo. Così abbiamo fatto: l’abbiamo riarrangiata e messa su Adrenalize.

Adrenalize è un disco che ha vissuto molte vicissitudini: ne vuoi parlare?

Cominciammo a lavorare al disco nel 1989 e dopo qualche tempo avevamo circa una ventina di pezzi, poi, se balziamo all’agosto del 1991, il numero era sceso a sette pezzi: da qual momento in poi lavorammo duramente solo su quei brani, al punto che tutta l’estate passò solo su Let’s Get Rocked e su White Lightning. A fine anno erano finiti solo quattro brani e da allora, ultimando gli ultimi tre, pensammo di comporre materiale veloce, visto che l’andamento del disco era medio, almeno fino a quel momento. Come vedi questo disco non ha vissuto un periodo di composizione vero e proprio come Hysteria, che ha avuto una gestazione più lunga, ma il materiale proveniva dallo stesso periodo di tempo. Adrenalize si è avvantaggiato di questa diversità temporale e ne è risultato più vario. Credo che in futuro continueremo a lavorare in questo modo, certo più velocemente…

Mi sembra che Adrenalize sia giocato su aspetti come il groove generale, piuttosto che sulla velocità o la tecnica esecutiva…

Potevamo suonare il disco in modo più cattivo o i pezzi più velocemente, io poi potevo cantarli ancora più in alto, ma non credo che sarebbe stato utile. Tutti sappiamo che la bontà di un disco non si misura dalla velocità, dalla violenza dei brani. Forse, all’inizio, si può restare colpiti da una certa aggressività formale, ma dopo alcuni ascolti attenti il disco ti appare subito datato. In questo caso abbiamo pensato che il groove, il feeling generale dei pezzi, fosse la cosa da evidenziare. Del resto non abbiamo mai pensato che la logica commerciale fosse predominante nella nostra carriera: facciamo dischi per venderli ma prima di tutto facciamo la nostra musica, lavorando sulle nostre scelte in modo che il prodotto ci soddisfi appieno.

In passato siamo stati coraggiosi e abbiamo creato un suono originale, oggi cerchiamo di approfondire i vari aspetti di questa scoperta. Del resto credo che il pubblico continuerà a dire: “mi piace solo l’heavy rock, ma adoro i Def Leppard”. Non siamo mai stati una band prettamente heavy, soprattutto per le caratteristiche melodiche dei nostri pezzi, ma il pubblico che ascolta l’heavy ci ha sempre rispettati e ha amato le nostre scelte artistiche e credo che continuerà a farlo. L’importante è che continuiamo a scrivere ottime canzoni.


Nella foto: Joe Elliot

L’Italia non vi ha mai portato bene, a parte forse la vostra prima performance a Bologna nel 1983, quando Pyromania era appena uscito…

Vorrei dire qualcosa a proposito. Noi teniamo molto all’Italia, ma nel caso del nostro ultimo tour  qui, le cose per quanto riguarda me, non sono andate bene. A Firenze ero affetto da una grave laringite e non potei che cantare male: addirittura quando salii sul palco, avevo la febbre piuttosto alta, sbattei il naso contro lo stand microfonico e i miei occhi cominciarono a lacrimare copiosamente per lo shock, non ricordavo più le parole del pezzo, fu un disastro per un paio di canzoni. Adesso sto male nuovamente… mi scuso con gli italiani perché sembra che prendiamo loro sottogamba mentre non è affatto vero. Quel giorno, a parte quando Steve morì, è stato uno dei peggiori della mia vita da performer e mi spiace che sia accaduto proprio in Italia. Questa volta devo cantare con una grave affeziona alla gola, ma non posso farci nulla… non siamo una squadra di calcio con riserve.

I testi dei Leppard non sono mai stati particolarmente originali, per quale motivo?

Perché non ci prestiamo molta attenzione; nel nostro processo compositivo vengono sempre prima i pezzi, le partiture, e fino a che non li abbiamo finiti, io invento le parole. Solo in un secondo momento passiamo ai testi, che spesso non hanno alcun valore, se non una funzione onomatopeica. Sicuramente non ci si può lanciare in una esegesi sulle nostre liriche.                                                

Ci sono delle eccezioni celebri: Billy’s Got a Gun su Pyromania, Gods of War su Hysteria e White Lightning su Adrenalize…

A volte ci sono argomenti che ci colpiscono… White Lightning è dedicato a Steve Clark, ma che in realtà parla della vita e della morte di tutti, del problema dell’alcolismo, mentre Gods of War era una considerazione del gruppo sugli schieramenti est-ovest. Billy’s Got a Gun invece andava contro la mentalità da vigilante di certi governi all’alba della Falkland. Altri pezzi, invece, sono solo composti di suoni per cui spesso mi sento in imbarazzo quando un giornalista mi chiede cosa significa un determinato pezzo, perché spesso nemmeno io lo so di preciso! Parole come suoni!

Cosa puoi dirmi di Steve a distanza di oltre un anno dalla sua scomparsa?

Che non sarà mai più come prima e che ci manca fottutamente. E’ assurdo quello che gli è successo, ma probabilmente ce lo dovevamo aspettare. Adesso lasciamo che il tempo ci scivoli in modo da lenire lentamente le nostre ferite ma, credimi, il vuoto è enorme.

L’entrata di Vivian nel gruppo è stata traumatica?

All’inizio non sapevamo nemmeno noi cosa sarebbe successo. Dovevamo trovare un chitarrista valido e Vivian era l’unico che facesse per noi… Quando lo contattammo non credevamo che ci sarebbe entrato nel sangue così in fretta. Per fortuna il suo inserimento è stato indolore, da parte nostra, e ora lo consideriamo come un fratello. Certo, con Steve le cose erano diverse; Avevamo oltre dieci anni di vita in comune, le cazzate assieme, i momenti felici, soprattutto quelli difficili. Ci manca, il suo sorriso, le risa, gli scherzi continui cui ci sottoponeva.

Vivian fa parte in pianta stabile del gruppo?

Certamente. Il riserbo che ha circondato la sua entrata nella band era dovuto al rispetto per la famiglia di Steve e al fatto che non volevamo creare nervosismi in seno alla formazione. Dovevamo dare modo a lui e a noi di accettarlo appieno. Adesso ti posso dire che è più membro del gruppo di quanto lo sia io. Del resto noi non siamo i Whitesnake, per cui, a meno che non se ne vorrà andare di sua volontà, per noi Vivian è già nella storia.

Roberto Gandolfi       

 

Servizio a cura di Stefano “Steven Rich” Ricetti