Dream Theater al Palavobis di Milano
Tante ore ad attendere l’apertura dei cancelli, ma alla fine ne è valsa proprio la pena. I Dream Theater hanno offerto al pubblico di Milano uno spettacolo veramente indimenticabile.Quattro ore e mezza davanti ai cancelli del Palavobis, sotto la pioggia e al gelo, ma alla fine ne è proprio valsa la pena. I Dream Theater hanno suonato poco più di tre ore nel tripudio generale di una struttura completamente impegnata nel contenere le migliaia di fan provenienti da tutto il nord d’Italia. Riesco a raggiungere la prima fila, ma più tardi saranno dolori immensi: pieno di lividi sono qui per raccontarvi ciò a cui ho assistito.
I Pain Of Salvation aprono la serata. Sicuramente una band che sa stupire: i chitarristi saltano giù dal palco e corrono ovunque, mostrando all’audience una buona capacità tecnica e melodie a dir poco malate e contorte. Subito dopo l’intro psichedelica di Remedy Lane eseguono pezzi molto carini come Fandango ed Inside, raggiungendo atmosfere a volte fin troppo simili ai Korn. La potenza del suono resta molto rilevante e in generale penso che il pubblico abbia gradito la luce di questo piccolo fiammifero. Dopo circa tre quarti d’ora, un coro in fiamme urla le famose paroline magiche mentre il cantante del gruppo svedese ci saluta con la frase:
– Enjoy Dream Theater!!! –
Il pubblico sta per assistere alla performance live impeccabile e travolgente di una ventina di pezzi per cui è molto difficile stabilire una scaletta precisa, dato che questi cinque malati di mente non faranno altro che sconvolgere lo stesso scorrere del tempo con nuovi pezzi strumentali, stacchi ed intermezzi, improvvisazioni e magiche atmosfere. Mi servirò di quanto scritto nel buio da un mio caro amico, cercando di far riferimento il più possibile ai ricordi confusi della mia estasy.
Buio. L’eco di Scenes From A Memory e un telone bianco viene improvvisamente aperto dietro la batteria spaziale e gigantesca di Portnoy (tre casse ai suoi piedi). Un cilindro argentato posizionato su una piattaforma rialzata, permette alla tastiera di Rudess di ruotare attorno a questo musicista sempre più impressionante. Per la prima volta, James porta con sé una pedaliera, come se i fan non fossero già enormemente entusiasti delle sue ultime prestazioni, e utilizza una specie di box per esibirsi nelle percussioni. Ognuno prende la propria posizione e il concerto comincia con The Glass Prison. Il pezzo è una vera bomba, anche perché eseguito, come quelli che seguiranno, con straordianaria energia e nella perfezione assoluta che contraddistingue questo gruppo. Una sorpresa da non crederci, stavo svenendo: dopo un breve frammento di Burning My Soul, comincia uno dei pezzi strumentali più amati, Hell’s Kitchen. Il basso di Myung mette i brividi, mentre un pubblico ammutolito ascolta con attenzione le note più raramente eseguite dal vivo da questo gruppo. Dopo la geniale ripresa di Burning My Soul, l’intero Palavobis torna indietro nel tempo con Another Hand e The Killing Hand: registrati 13 anni fa, i brani vengono proposti con una nuova freschezza e interpretati da una voce che, sicuramente avversa al falsetto di Dominici, dimostra di saper rielaborare al meglio la versione originale. Il risultato è sorprendente e la gente che assiste allo spettacolo si esalta da morire. Il concerto non era neanche iniziato, ma noi non lo sapevamo. È il momento dell’album che ha coronato il grande sogno: from Images And Words ecco Under A Glass Moon, dove tremiamo per l’attesa dei brevissimi soli di basso e batteria. Mentre mi confondo tra il pubblico giapponese del 1993, inizia Lifting Shadows Off A Dream: un’emozione dopo l’altra in un crescendo che non riesco neanche parzialmente a contenere. Dopo la classica esecuzione ad occhi chiusi, le luci si abbassano e vediamo James Labrie raggiungerci con uno sgabello alla mano: nasce ancora una volta Surrounded. Tastiera e voce prendono per mano gli altri strumenti e li conducono al delirio, fra le lacrime nostalgiche e la gioia dell’audience.
Una toccante esecuzione di Through My Words ci introduce alla spietata Fatal Tragedy, dove un gioco di luci psichedeliche ed arte si unisce alle note di chitarra di un Petrucci fenomenale ed instancabile, mentre tutti insieme cantiamo il piacevolissimo ritornello che distingue questo pezzo. Contrariamente alle aspettative, l’acustica offre ad ogni singolo strumento la possibilità di esprimere nel migliore dei modi le famose abilità tecniche: dalla tastiera di Rudess, al basso, ai coltelli utilizzati da Mike per tagliare la fitta energia che si respira nell’aria. E finalmente, tutto per me, il brano che ho tanto lodato nella recensione di Six Degrees, The Great Debate. Inutile fare ulteriori riferimenti all’esecuzione perché come al solito.. piuttosto una curiosità: il gruppo non si è ancora fermato per una pausa, mentre lo show procede proponendo nuovi pezzi di lunga durata e in molti casi non presenti nelle scalette dei concerti precedenti (per lo meno non durante lo stesso spettacolo). Con questo concerto i Dream Theater dimostrano di ricambiare tutto il nostro affetto e ci ringraziano per la posizione in classifica raggiunta dall’ultimo album nel nostro paese. Segue un pezzo tratto dal secondo esperimento dei Liquid Tension Another Dimension dove Myung prova di non aver nulla da invidiare all’abilissimo Tony Levin. Non avevamo dubbi. Segue un assolo di John, molto sulle orme di David Gilmour, e subito dopo una delle canzoni rivelazione di questo nuovo tour, from Awake Scarred. Un cantato formidabile scandisce i secondi di questo pezzo, che tra l’altro, al suo interno, conserva sicuramente una delle perle più brillanti mai scritte dal nostro chitarrista preferito. Dopo Blind Faith, altri dieci minuti di follia, i tastieristi presenti tra il pubblico si rifanno gli occhi con il malatissimo assolo di Rudess (che non vuole smettere di girare attorno al suo strumento) mentre nel frattempo ci addentriamo nel cuore dello show. I cinque samurai non si sono ancora fermati un istante.
Dopo un nuovo ritorno a Falling Into Infinity con Lines In The Sand, Images And Words si conferma l’album protagonista di questa serata proponendo la famosa Pull Me Under: il pezzo viene suonato sempre più velocemente mentre James cambia microfono in seguito a qualche problema. Sempre più veloce, fino a rallentare per collegarsi alla sorpresa più inattesa Master Of Puppets cui segue un boato eccitante. Rudess legge gli spartiti e Petrucci si esibisce in un assolo brillante, LaBrie è coperto dal coro del pubblico e Portnoy si esalta. Myung: impassibile. Si ritorna alle note famose di Pull Me Under e si chiude la prima parte.
Pausa.
Non faccio in tempo a verificare le condizioni del mio sterno, ormai ridotto in poltiglia perchè costretto alla crudele sbarra, e si riprende con le misteriose atmosfere di Home. Il telone disegna il viso di Scenes From A Memory e dopo dieci minuti inebrianti, James prende ancora una volta il suo sgabello. Accendini alla mano perché è il momento di The Spirit Carries On: questa volta voce e tastiera vengono del tutto ingoiati dal canto del pubblico, ormai trasformato in un lago di fuoco. Il panorama offerto a questi cinque musicisti doveva essere veramente emozionante e mentre annunciano l’ultimo pezzo mi rendo conto che il mio corpicino è ormai irriconoscibile, il mio viso sfigurato. Durante Take The Time, l’ultimo colpo di scena: James siede a fianco di Mike alla batteria e lo accompagna con talento nei primi secondi di questa canzone, d’altronde era un batterista all’inizio della sua carriera da musicista. Dopo un frammento strumentale dei Rush si ritorna all’ultimo brano dove possiamo urlare ora che ho perso la vista ci vedo di più. In realtà io non credevo ai miei occhi.
Un concerto indimenticabile.