From The Depths – L’occhio di TM sull’underground – #01/2014

Di Stefano Burini - 30 Aprile 2014 - 9:00
From The Depths – L’occhio di TM sull’underground – #01/2014

L’occhio di TrueMetal.it sull’Underground – # 01/2014
 

 

 

 

Perceverance
The Dark Mechanism
2013, Autoprodotto
Thrash
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Tracklist:

01. Prepotence
02. Hate Bringer
03. Trapped In A Corner
04. Mentally Dead
05. Purity
06. Speed that Kills
07. Into The Void
08. Persistence In Time
09. Cronos
10. The Dark mechanism

Nati nel 2008 con il nome Steelchains, subito modificato in seguito ai numerosi cambi di formazione, i liguri Perceverance giungono all’agognato traguardo del primo album sulla lunga distanza, dopo l’EP “Persistence Of Time”, datato 2011, con il qui presente “The Dark Mechanism”. La loro proposta è un thrash metal vecchia scuola figlio tanto della scena americana (Exodus, Metallica, Death Angel), quanto di quella tedesca (Kreator e Destruction). In particolare sono i primissimi lavori delle band citate ad aver tracciato le coordinate stilistiche del combo savonese, ma troviamo qualche riferimento anche a lavori più recenti. Lo si evince fin dalle primissime note di “Prepotence”, con il riff d’apertura che ricalca innegabilmente quello di “Hit The Lights” dei Four Horsemen. Come d’altra parte, a completare il quadro generale, “Speed That Kills” sembra pescare a piene mani da “Thrash ‘Till Death” dei Destruction. Non renderei loro pienamente giustizia, però, se mi limitassi a riportare certe analogie, seppur evidenti, considerato che la band suona bene, pare affiatata e ben rodata dalla costante militanza on stage e che (nonostante tutto) si percepisce la volontà di provare a fare emergere la propria personalità. È senz’altro apprezzabile, infatti, lo sforzo profuso nel provare a differenziare le singole tracce inserendo elementi non proprio ortodossi per il genere (“Purity”) o provando qualche variazione in più sulla classica forma canzone, come nel caso dello strumentale “Cronos”. Vincente soprattutto quella ruvidità che caratterizza un po’ tutte le composizioni, rendendole spigolose ed aggressive senza dover eccedere in estremismi sonori. Una sorta di carica animalesca, che trova qui il suo miglior esempio in un brano come “Hate Bringer” o tra le pieghe di “Trapped In A Corner” e “Into The Void”, che talvolta mi ha ricordato quella degli statunitensi Nasty Savage. Insomma, pur trovandoci al cospetto di un lavoro che non eccelle in originalità, “The Dark Mechanism” è comunque un album che si lascia ascoltare fino in fondo e che fa emergere le buone potenzialità dei Perceverance. Li attendiamo al varco, perciò, già dal prossimo full-length, per verificarne l’effettiva crescita.

Orso “Orso80” Comellini

 

AnimHate
InHuman [EP]
2014, Autoprodotto
Death
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Tracklist:

01. Fall
02. Desire
03. Corrupt
04. Ruins
05. Blueprints

Ancora un esempio di ‘buon death’ da quella che, ormai da qualche anno, più considerarsi la capitale d’Italia del genere: Genova. Gli AnimHate nascono solo tre anni fa e, dopo la classica ricerca della migliore formazione, danno alle stampe nell’aprile di quest’anno “InHuman”. EP autoprodotto che rappresenta il debutto del quartetto, registrato, missato e masterizzato presso gli Inverno Studios nell’inverno passato. Il death suonato dai Nostri è piuttosto classico, come si può convenire soprattutto dal guitarwork, di stampo thrashy che, in certe parti ritmiche, rammenta quello dei Necrodeath. Una circostanza, questa, che si lega a un sound parecchio tetro, buio, oscuro. Senza pensare agli estremismi del black metal, “InHuman” ha un mood assai inquietante, tinto di nero, squarciato dall’ottimo growling/screaming del vocalist (“Blueprints”). Un umore angoscioso che permea un sound ancora da mettere completamente a fuoco, benché esso sia più che sufficientemente formato. Alcune divagazioni, come per esempio si può ascoltare in “Ruins”, appaiono slegate dal contesto generale e quindi tendenti a sfilacciare un suono ad ogni modo potente, cattivo e aggressivo. Ancora qualche seduta di allenamento in più e ‘dovremmo esserci’, insomma.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

Fatal System Error
Longing For An Execution
2014, Autoprodotto
Avantgarde
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Tracklist:

01. Fly So High
02. I Fear Thee!
03. Ocean Of Sorrow
04. Meltdown Over
05. Misunderstood Girl
06. Words Are Not Enough
07. Procession (Under Heavy Rain)
08. Let My Soul Die


Quando ci si trova a dover recensire un debut album come “Longing For An Execution” dei tricolori Fatal System Error, trovare le parole giuste è davvero difficile. Le intenzioni dei musicisti (nella fattispecie Jacopo Bucciantini alla voce e alla batteria e Francesco Zuppelli alla voce e alla chitarra) sono certamente buone così come interessante appare l’approccio al ‘concept’; tuttavia, dal punto di vista musicale, la materia è ancora talmente grezza e suscettibile di potenziali miglioramenti da risultare quasi ingiudicabile.
La maggioranza delle canzoni proposte in questo debut autoprodotto si barricano dietro lo sperimentalismo ma ad un attento ascolto evidenziano la mancanza di un filo logico in grado di trasformare dei momenti in vere e proprie canzoni e delle singole canzoni in un vero album. Poche le melodie realmente interessanti e quasi sempre in coincidenza con i momenti più rilassati, nei quali i FSE riescono probabilmente ad esprimersi per ora meglio, vedansi la N.2 “I Fear Thee!” con il buon incipit e il crescendo melodico che fa un po’ Metallica, o “Misunderstooded Girl”, una sorta di power ballad animata da notevoli cambi d’umore. Il resto purtroppo è un alternarsi di riff poco personali, vocals decisamente da rivedere e canzoni globalmente molto discontinue, in alcuni casi afflitte anche da una monotonia tutt’altro che indifferente (come nel caso del finale di “Meltdown Over”). Un capitolo a parte lo “merita”, infine, la conclusiva “Let My Soul Die”: interminabile e onestamente anche un po’ presuntuosa nei suoi dodici (!) minuti di fruscii, colpi di tosse e minuti di snervante silenzio come mai nemmeno i King Crimson. Francamente evitabile.
Qualche buona idea si incontra lungo l’ascolto ma onestamente c’è ancora parecchio da lavorare su tutti i fronti per i Fatal System Error.
 
Stefano “Joey Federer” Burini

 

Breath To Die
In Your Face [EP]
2013, Autoprodotto
Metalcore
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Tracklist:

01. Time To Shine
02. Seven Sins
03. Never Sleep Again
04. Breath To Die

Da Belluno ecco i Breath To Die, nati solo un anno fa e già in grado di dare alle stampe il loro primo EP autoprodotto, “In Your Face”; registrato, missato e masterizzato presso i The Crowns Studio di Voltago Agordino (BL) nell’ottobre del 2013. Il genere proposto è il metalcore, nella versione più tenue ed edulcorata rispetto a quella che attualmente va per la maggiore. Tanto che si potrebbe pensare, per il quartetto veneto, a una sorta di ‘hard rock-core’! Come dimostra per esempio “Time To Shine”, assai rockeggiante nell’azzeccato e accattivante ritornello, davvero molto gradevole. Il piglio metallico tuttavia non fatica a emergere, soprattutto quando entra in campo il growling del drumming/vocalist, anche se occorre sottolineare che alla fine ciò che comanda è sempre un ritornello melodico e leggero, affrontato con linee vocali pulite (“Seven Sins”). Compare anche un po’ di heavy, nel riff portante di “Never Sleep Again”, che rafforza lo stile piuttosto personale della band, agganciato sia al presente con le sonorità *-core, sia al passato con il flavour heavy/hard rock; come mostra a mo’ di suggello dell’EP “Breath To Die”. Un lavoro semplice ma immediato, suonato bene e altrettanto bene messo su disco. Un buon punto di partenza per una formazione dalle idee fresche e moderne, che strizza anche un po’ l’occhio al passato.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

Twelve
10 Minutes Rock [EP]
2014, Autoprodotto
Hard Rock
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Tracklist:

01. Cold Money
02. The Million Dollar Man
03. MIdnight Lover
 

Nonostante l’elegante copertina in grigio e nero tragga forse leggermente in inganno, i pesaresi Twelve tengono decisamente fede al titolo del loro Ep, proponendoci poco più di dieci minuti di rock dal taglio decisamente classico. La band si compone di cinque elementi (Giacomo Magi alla voce, Matteo Giommi e Michele Greganti alla chitarra, Fabrizio Raffaeli al basso e Fabrizio Ricci alla batteria) e, nel presente EP, sciorina tre canzoni semplici semplici ma tutto sommato gradevoli, nelle quali l’hard rock minimale degli anni ’70 incontra il glam primigenio, senza particolari guizzi ma con una buona proprietà di mezzi tecnici e di linguaggio. Come base di partenza ci siamo, per il futuro il consiglio è quello di provare a dare un tocco più personale ad un sound certamente collaudato ma anche piuttosto sfruttato.

Stefano “Joey Federer” Burini

 

Ephemeral Embrace
Demo 2013 [EP]
2013, Autoprodotto
Black/Thrash
 

Tracklist:

01. Queen Of Winter
02. Dead Lovers
03. Obscure Boulevard
04. The Guilty

Gli Ephemeral Embrace son un gruppo che, negli anni, ha avuto qualche difficoltà di formazione, con continui cambi di line-up che non gli hanno mai permesso di raggiungere una sufficiente stabilità. Solo nel 2010 la band diventa quella che possiamo ascoltare oggi, non solo come membri effettivi, ma anche come sound. Da lì a registrare un demo il passo è relativamente breve ed ecco, quindi, questo “Demo 2013”. Come spesso accade ai gruppi che cercano una propria strada, la proposta musicale degli Ephemeral Embrace non è di facile classificazione. Il motivo è anche dovuto a delle scelte che pongono la band al di fuori di molti dei canoni attuali, bisogna, infatti, fare un salto indietro fino agli anni ’90 per trovare qualcosa di simile a quello che suonano loro. Il sound degli Ephemeral Embrace, infatti, è profondamente ancorato alle origini del black, quando ancora questo nome non esisteva e il genere si muoveva a tentoni nell’oscurità cercando una propria strada e un proprio modo di esprimersi. Ascoltandoli non si può che tornare con la mente a gruppi come i Venom o i Darkthrone degli albori: chitarre con accordi pesanti, voce al vetriolo, batteria tipicamente thrash, poche accelerazioni (se non nessuna) e anzi un ritmo che strizza quasi l’occhio al doom. Purtroppo la produzione va abbastanza di pari passo alla scelta musicale, con suoni sporchi e grezzi che fan suonare il demo come se fosse stato realizzato negli anni ’90. Chiaramente si tratta di una scelta ben precisa della band, ma il risultato finale, a nostro avviso, penalizza comunque il lavoro fatto in sede di songwriting e di arrangiamento, non permettendo di cogliere fino in fondo le qualità dei pezzi proposti. Per concludere, questo “Demo 2013”, per essere un primo timido passo, è un lavoro più che dignitoso. Qualche difetto, ovviamente, c’è, ma ci sembra che gli Ephemeral Embrace si stiano muovendo nella direzione giusta per porvi rimedio. Se, poi, dovessero scegliere di abbandonare, almeno in sede di produzione, certe soluzioni low-fi anni ’90, siamo certi che riuscirebbero a far meglio apprezzare il loro sound.

Alex “Engash Krul” Calvi

 

TryskelioN
… in a Nameless Grave
2010, Autoprodotto
Death/Black
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Tracklist:

01. Thelema 1920
02. Broken Arms
03. The Last Crimson Willow
04. Fathomless Void
05. Perfect Circle
06. The Testament

I Tryskelion son una band di Cefalù, nata nel 2008 e che giunge, con questo “… in a Nameless Grave” alla prima pubblicazione, seppur autoprodotta. L’ispirazione, alla base di questo disco, è subito facilmente rintracciabile. Le date sulla lapide senza nome, il titolo dell’album e il nome della prima traccia, ci fanno capire che i Tryskelion debbono molto al più famoso mago contemporaneo, nonché padre del satanismo moderno, cioè Aleister Crowley. I Tryskelion si definiscono un gruppo death-black metal, una definizione capace di ingenerare reazioni molto diverse nei puristi, dal far storcere il naso (nei casi più ottimistici) all’istigare veri e propri istinti omicidi (in quelli peggiori). In realtà, per una volta tanto, non si tratta di una etichetta appiccicata a caso, ma abbastanza corrispondente alla realtà. La base è indubbiamente black, sia per il sound che per le ritmiche, ma sopra a queste fondamenta riescono a trovare spazio passaggi più tecnici, riff e momenti puramente death e tante altre piccole commistioni tra quesi due generi. In generale, dunque, i Tryskelion sfornano un album autoprodotto che sembra avere qualcosa da dire. Particolarmente apprezzato è, soprattutto, l’aver cercato di crearsi uno stile personale. Tecnicamente i brani, inoltre, son ben confezionati, frutto di un buon lavoro in fase di arrangiamenti e songwriting. Buono, però, non significa ottimo. Purtroppo, in particolare oggi, in un mercato subissato e ammorbato da mille produzioni tutte uguali, per emergere dalla massa è necessario fare qualcosa di veramente speciale. I Tryskelion, dunque, han personalità e han dimostrato di saper scrivere. Sono elementi fondamentali per riuscire, oggi più che mai. Non devono, però, perdersi d’animo e lavorare sodo per migliorare ancora di più, per trasformare ciò che è buono in ottimo e poi in eccellente. Se dovessero migliorare sensibilmente la qualità della loro proposta, sarà impossibile che qualcuno non li noti.

Alex “Engash Krul” Calvi

 

Kayleth
The Survivor
2012, Autoprodotto
Stoner
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Tracklist:

01. Anvil
02. Desert Caravan
03. The Survivor
04. Waterfall
05. In Front Of You
06. The Nile Song (Pink Floyd cover)

Arriviamo con (incolpevole) ritardo a recensire l’ultimo demo dei veronesi Kayleth, targato 2012; tuttavia, come si dice in questi casi, meglio tardi che mai. Il quintetto veneto, il cui debutto sulla lunga distanza è in fase avanzata di lavorazione proprio in questo periodo, propone infatti della musica molto interessante: uno stoner rock afoso e desertico sulle orme dei grandi del passato (Kyuss, Sleep, Orange Goblin) eppur nobilitato da buone idee e da una forte personalità. Il cuore della scaletta si divide equamente tra alienanti cantilene friggi-cervello (“Desert Caravan”, l’epica “The Survivor”) e ruvide cavalcate al calor bianco (“Waterfall”), ravvivate da un guitar work decisamente ispirato oltre che dalle ricercate rifiniture affidate ai sintetizzatori. Notevole, infine, la cover della Pink Floyd-iana “The Nile Song”, rivisitata in chiave ancor più psichedelica dell’originale e totalmente aderente all’estetica dei Kayleth. Peccato per la produzione (per quanto si tratti comunque di un demo e quindi sia una “pecca” in fin dei conti scusabile) che relega un po’ troppo indietro la voce ozzyana di Enrico Gastaldo, perché per il resto siamo su livelli compositivi ed esecutivi decisamente elevati. Non resta che attendere l’ellepi e augurare buona fortuna a questi cinque musicisti.

Stefano “Joey Federer” Burini

 

Sharbhund
Sharbhund
2012, Autoprodotto
Black

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Tracklist:

01. Annihilation
02. Hipocrisy
03. Beast Desecrated
04. Hellgate

 

Gli Sharbhund nascono nel 2011 a Potenza. Fin da subito si dedicano a comporre pezzi propri e dopo solo un anno sono già in studio per registrare questo demo di quattro brani. Si tratta, dunque, di una band ancora giovane, ma che sembra avere ben chiaro cosa vuole fare e come, con la giusta determinazione per mettere in pratica le proprie idee. Sul piano prettamente musicale, la proposta degli Sharbhund è un black piuttosto classico che pesca a piene mani sia dal raw che dal symphonic, arrivando, in campo estremo, fino a prendere anche qualcosa in prestito dal death. Il risultato è organico e ben arrangiato, pur senza riuscire a spiccare più di tanto in un senso o nell’altro. Echi dei nomi più grossi del panorama, soprattutto, del nord Europa possono essere riscontrati lungo tutta la tracklist, dai Dimmu Borgir agli Emperor, passando per i Marduk (a dir poco emblematica la terza “Beast Desecrated” che potrebbe passare tranquillamente per un brano del gruppo svedese del periodo “Panzer Division Marduk”). Un po’ meno facile, invece, rintracciare i rimandi a gruppi come i Deicide o, in particolare, i Death, per quanto citati dagli stessi Sharbhund tra le proprie influenze principali. Il risultato finale è, quindi, già piuttosto buono in termini di orecchiabilità e arrangiamenti. Gli Sharbhund sfornano quattro brani validi, che non annoiano, ben scritti ed eseguiti, senza mancanze particolari sotto il profilo tecnico. Quello che manca per fare il definitivo salto di qualità, però, è un po’ più di originalità. I gruppi a cui loro stessi si ispirano hanno tutti uno stile riconoscibile e personale, comporre canzoni (per quanto, come si diceva, anche belle) che, di volta in volta, ripropongono il sound di questa o quella band non è il modo migliore per farsi notare nella massa. I numeri per fare bene sembrano averli già tutti, resta solo a loro decidere se sfruttarli appieno.

Alex “Engash Krul” Calvi