Heavy

Intervista Accept/Dokken (1986)

Di Stefano Ricetti - 15 Novembre 2008 - 0:00
Intervista Accept/Dokken (1986)

Storica doppia intervista ad Accept e Dokken, prima della loro calata italica, che personalmente ricordo ancora nitidamente in quel di Milano, il 27 marzo 1986, al Teatro Tenda Lampugnano, dove entrambi spaccarono alla grande nonostante la band americana fu oggetto di sputi da parte di agguerritissime frange di Thrasher fra le prime file, intransigenti rispetto alla proposta musicale dei californiani. Lo stesso trattamento fu Loro riservato nella data di Roma, successivamente. Suonarono anche a Bologna.

Al di là dell’aspetto musicale, va sottolineato che in quei momenti vi era parecchio fermento nel Nostro paese, e non erano infrequenti le scritte sui muri “Yankees Go Home”, da parte delle persone contrarie alla politica guerrafondaia dell’allora presidente degli Usa Ronald Reagan.

Indipendentemente da questi rimandi storici, gli Accept erano in procinto di rilasciare l’album Russian Roulette mentre i Dokken si stavano godendo il successo consecutivo a due album immensi come Tooth And Nail e Under Lock And Key. Il documento è tratto dal magazine Rockerilla numero 67 del marzo 1986, e porta le firme di Giancarlo Trombetti, Beppe Riva e Tony Spellman.

Buona lettura.

Stefano “Steven Rich” Ricetti

 

 

Intervista al chitarrista Jörg Fischer,
di Giancarlo Trombetti.

 

Gli Accept intraprendono il tour per promuovere “Russian Roulette”, il nuovo Lp in studio, prestissimo sugli scaffali dei negozi, che segue di un nulla quel “Kaizoku-Ban” la cui uscita sul mercato non può che apparire, a prima vista, quantomeno atipica.

J.F. – L’uscita del live era originariamente prevista per il Giappone, dove infatti è stato registrato. La scelta di limitare i brani presenti agli ultimi due album è dovuta a praticità ed esigenze di quel mercato, che è maggiormente attaccato a “Balls To The Wall” e “Metal Heart”, che sono i dischi che ci hanno aperto le porte dell’isola. Il fatto che la notizia dell’uscita del live abbia suscitato un così grande interesse nel resto del mondo ha convinto la nostra label a distribuire il disco anche in Europa, dove, tra l’altro, è stato anche stampato con il solo sottotitolo di “Live in Japan”.

L’uscita di “Russian Roulette” non ti pare commercialmente azzardata venendo a una distanza temporalmente inesistente da “Kalzoku-ban”?

J.F. – Russian Roulette era già in programma da tempo; quello che non lo era, casomai, era proprio il live. Ad ogni modo non credo che possa nuocerci dal punto di vista dell’immagine e dell’inflazione di mercato. Inoltre abbiamo intenzione di fare un grosso tour in America e presentarci senza un nuovo disco da promuovere sarebbe stato un errore.

Il cambiamento di suono è stato evidente: “Russian Roulette” confermerà la linea di “Balls…” e di “Metal Heart” o ci saranno degli elementi nuovi?

J.F.: Ho sempre pensato che il suono originale degli Accept fosse un grande veicolo di emozioni per il pubblico, ma che queste emozioni potessero poi finire con l’essere apprezzate da pochi intimi. Per diffondere il nostro nome avremmo dovuto ‘rallentare e raddolcire l’impatto, e non era cosa difficile perché la grande estensione vocale di Udo e la forza tecnica del gruppo lo permettevano. Molte band suonano “fast” per coprire vuoti tecnici. Penso che sia sostanzialmente più difficile trovare un equilibrio compositivo e tecnico nell’altro caso, e in particolare nel mantenersi a livelli compositivi notevoli.

 

 

“Russian Roulette” sarà certamente più simile a “Metal Heart” che a “Balls To The Wall”, pur non essendone una fotocopia. Il nostro interesse è progredire, non cristallizzarci su una formula che può aver fortuna, e solo facendo tesoro delle esperienze e unendole alle nuove idee è possibile mantenersi a certi livelli. Quindi un sound aggressivo che lascia poco respiro, alla “HM”, con un paio di singoli, ma sempre piacevolmente ritmato, non per soli fan.

Ci saranno nuovi video da “Russian Roulette”?

J.F. – Sì, finiremo col farli anche se è già da un po’ di tempo che non credo poi più molto al potenziale commerciale di queste operazioni. In America i video di Metal vengono trascurati e in Europa hanno una diffusione e una resa di pubblico minima a causa del disinteresse dei grandi media nei confronti dell’hard rock…

… Cade la linea telefonica così disturbata da far pensare che uno di noi due stesse parlando dal bel mezzo di un coca-party. Evidentemente le nottate con temporali non sono le più adatte a telefonate transalpine… Ma il tour rimane e si preannuncia come la cosa più eccitante della prossima primavera… Un posto in prima fila, prego…

GIANCARLO TROMBETTI

 

 

Dokken è un nome che non ha certo bisogno di presentazioni per il pubblico di Rockerilla: il suo terzo LP “Under Lock And Key» è stato giudicato album del mese e fra i migliori dell’anno nella nostra rubrica «Hard’n’Heavy» e si può ben dire che sulla scia dell’eccellente predecessore “Tooth And Nail”, Dokken sia la formazione più in ascesa del vistosissimo L.A.H.M. (Los Angeles Heavy Metal).

È quindi una band al Top della forma che giunge in Italia al seguito di un five-act per antonomasia come Accept. In attesa di ammirare dal vivo il sofisticato impatto del Class Metal di Dokken, porgiamo la parola a Don, intervistato  dal Nostro corrispondente in America con un attimo d’anticipo sul volo transoceanico…

Beppe Riva

Intervista a Don Dokken dei DOKKEN

 

 

Raccontami degli inizi della band.

Prima di formare la band lavoravo in una stazione del gas, anche se in pratica è da molti anni che suono e milito in band occasionali. Ho incontrato gli altri membri dell’attuale formazione suonando nei bar ed è da circa quattro anni che siamo insieme.

Come sei giunto alla registrazione di “Breaking The Chains”, il vostro primo Lp?

Ero da solo in Germania a incidere un demo, lo incisi e lo diedi alla manager degli Accept, Gabi Honka, la quale a sua volta lo passò alla Carrere Records di Amburgo. Ne ottenni un contratto e l’opportunità di incidere un disco in Germania. Allora chiamai George (Lynch) e Mick (Brown), che erano a Los Angeles, per registrarlo. Ho sempre voluto lavorare con George e nel demo avevo incluso uno dei suoi brani. Noi tre più il bassista degli Accept, Peter Baltes, registrammo così Breaking The Chains.

Sono in pochi a sapere che, sebbene Juan Croucier sia indicato nelle note di copertina, fu in effetti   Peter a suonare il basso sul nostro primo album. Lo registrammo nello studio degli Scorpions. Ero amico del loro manager e lui mi aveva lasciato fare i miei demo gratuitamente. Gli avevo promesso che avrei usato i loro studi non appena avessi ottenuto un contratto. Ecco perché il disco fu fatto in Germania.

Come incontrasti Michael Wagener, il vostro produttore e ingegnere del suono?

E’ uno dei miei migliori amici. Quando lo portai in Usa dalla Germania, venne ad abitare a casa mia. Lo incontrai ad Amburgo nel 1979 nel corso del mio primo tour tedesco. Lui lavorava in uno studio di registrazione proprio di fronte al club in cui suonavo. Mi disse che se volevo poteva far correre un cavo dal suo studio al fine di registrarmi live. Dissi che mi andava bene ed è così che ci conoscemmo. Non ci capivamo molto, perché io non parlavo tedesco e lui masticava poco inglese. In ogni caso, ci intendiamo alla perfezione in fatto di musica e sin da allora ho sempre lavorato con lui. Ammiro molto il suo talento e qui negli Usa ha finalmente avuto la chance di dimostrarlo.

Vi aspettavate il travolgente successo di “Tooth And Nail”?

Ovviamente lo speravamo. Ma, a dirti il vero, ci auguravamo che vendesse di più. Noi vogliamo che ogni disco sia un successo, ma se non lo è, non ci demoralizziamo affatto. Andiamo di nuovo in sala di registrazione e ci riproviamo. Con Tooth and Nail, sia la casa discografica, sia noi con le nostre sette tournée, ci impegnammo veramente a fondo, perché avevamo fiducia che questo disco prima o poi sarebbe riuscito a diventare un hit. E in effetti è stato un processo molto lento che non ha avuto inizio che dopo l’uscita del terzo singolo, Alone Again, che ironicamente avevo scritto ben sei anni prima. Dopo Alone Again tutti hanno incominciato a parlare di noi e il disco, come noi ci aspettavamo, è salito fino all’oro.

Vi aspettavate da “Under Lock and Key”, il vostro nuovo album, un simile successo? Pensate di aver un hit come Alone Again?

Un hit? No, quattro. In My Dreams che è uscito da poche settimane e sta già andando molto bene. Del resto poi, se sapessi come scrivere un hit ogni volta che voglio, adesso sarei un milionario. Non compongo mai dei brani al fine di avere degli hit. Mi piace la musica che suono ed è questa l’unica ragione per cui faccio questo mestiere. Se ai nostri fan non piace, non c’è nulla che io possa farci. I nostri fan sono gli unici veri giudici del nostro lavoro e del nostro successo. Vorrei che i critici la finissero di dire che questo album è più o meno bello di “Tooth and Nail”: che lascino ai fan la parola. Le lettere che riceviamo ci danno ragione e del resto nessuno credeva in Alone Again tranne che noi e la nostra casa discografica.

Quali problemi avete dovuto affrontare in questa scalata al successo?

In primo luogo è stato molto difficile per me lasciare perdere la chitarra solista, che era lo strumento che ho suonato per tutta la vita. Ora sono il cantante solista della band e on stage ricopro il ruolo di frontman. E’ stata una transazione difficile, sia perché era difficile risistemare la band, sia perché ho dovuto faticare e studiare molto al fine di diventare un buon cantante. Ora l’intera band è cresciuta. E un po’ come essere sposati: sappiamo quel che ci piace l’un l’altro e quel che non ci piace. In questo modo ci sopportiamo bene a vicenda. Ai tempi di “Breaking The Chains” non sapevamo veramente cosa volevamo, ossia se essere heavy metal, pop o qualcos’altro.

Chi sono i tuoi cantanti preferiti?

Non ho nessuna particolare preferenza per quanto riguarda la presenza sul palco. In materia di canto mi piace veramente tanto Ronnie James Dio, una voce veramente drammatica.

E le tue band favorite?

Nel passato i soliti Led Zeppelin, Cream e Hendrix. Questi ultimi due mi hanno particolarmente influenzato. In fatto di band nuove sono veramente influenzato da alcuni nomi sconosciuti come Stone Fury, che a mio parere non hanno ancora ricevuto l’attenzione che si meritano.

Il vostro look e la vostra musica battono sul versante della classe, dello stile, della raffinatezza, invece che su quello dello shock, del volume, dello scandalo, della pura forza.

Se prendi per esempio i Motley Crue, che incidono per la nostra stessa etichetta, hanno incominciato alcuni anni fa questo fenomeno che io chiamo dello Shock’n’Dirt. Non ho nulla contro di loro, ma penso che noi non ne abbiamo bisogno. Siamo dei musicisti, non siamo un fenomeno da baraccone. Motley Crue sono cresciuti un sacco dagli inizi a Los Angeles, quando solo loro e gli Wasp facevano questo tipo di cose. Ed è per questo che li rispetto, mentre invece non rispetto tutti gli imitatori che li hanno seguiti. In ogni caso quello è il loro stile, mentre noi abbiamo il nostro. E il nostro si basa veramente poco sull’immagine. Noi lasciamo che la nostra immagine cresca con noi, non c’è alcuna premeditazione nel modo in cui ci vestiamo o ci presentiamo sul palco.

Nel senso che a noi piace vestirci bene, con vestiti che hanno stile, ma, così come le nostre idee, anche i vestiti, il look, mutano. Non c’è alcun piano alle nostre spalle. Non abbiamo mai pensato al nostro look prima di pensare alla musica. E la nostra musica, come tutti possono ascoltare, a sua volta, non segue queste correnti di moda, non cerca di imitare. La nostra prima casa discografica era molto preoccupata perché diceva che la nostra musica era troppo dura per piacere al pubblico Pop e troppo melodica per piacere a quello Heavy Metal, soprattutto dal punto di vista vocale. La nostra filosofia è invece sempre stata quella di cercare di raggiungere entrambe le audience, quella HM e quella Pop. Noi non vogliamo essere Pop o Heavy Metal, ma solo noi stessi.

Il motto della vostra ultima tournée era: “essere un numero duro da seguire piuttosto che seguire un duro numero”. Cosa volevate dire?

Come una competizione: a noi piace andare on stage come band ospite, ma ci andiamo con la mentalità di chi è in testa al cartellone. Come la guerra: devi sempre dare il 150% di te stesso. Se noi fossimo in testa al cartellone e prima di noi c’è una band che fa pena, allora tutto diventa troppo facile, di sicuro non lavoreremmo con lo stesso impegno di quando invece suoniamo prima di nomi quali Dio o Twisted Sister.

Parlami della vostra tournée con Dio.

Era molto difficile andare in tournée con lui, perché è uno dei miei cantanti preferiti, e avevo sempre paura di fare una pessima figura. Ho dovuto quindi impegnarmi veramente a fondo sulla voce. È stato molto utile. Ora siamo buoni amici e alla fine del tour, Ronnie mi ha detto: “Ti ho visto maturare come cantante”, che, detto da lui, è un ottimo complimento.

Cosa pensi della campagna per la moralizzazione del rock di cui i Twisted Sister sono vittime?

Abbiamo fatto molte tournée con loro. Dee Snider e io siamo amici, suoniamo sovente insieme e abbiamo idee affini. Ma il problema specifico non mi tocca troppo perché i nostri testi non hanno nulla a che fare con quanto è osteggiato da quelle persone. In ogni caso, penso che quelle persone siano stupide. E maccartismo, nessuno si siederà mai nel mio salotto per censurarmi, non arriverà mai nessuno da Washington a dirmi “scrivi questo, non scrivere quello”. Penso che gente così non meriti alcuna attenzione.

Un ultima domanda: perché avete chiamato la band Dokken?

Quando stavamo registrando il primo album, non avevamo ancora un nome per la band, i tecnici del suono scrissero sui nastri Dokken dato che ero io il portavoce della band. Non ho mai voluto avere un gruppo che portasse il mio nome, tipo Van Halen o Sammy Hagar. Durante tre anni di tournée in Germania usavo Dokken (senza il Don) come nome della band perché non riuscivamo a trovare un nome che ci piacesse… Volevamo sempre cambiarlo, ma la casa discografica si è opposta, quindi…

TONY SPELLMAN

Articolo a cura di Stefano “Steven Rich” Ricetti