Intervista Darkend (Animæ)
Qualche giorno prima dell’uscita sul mercato del nuovo album dei Darkend “The Canticle of Shadows“, Abbiamo avuto la possibilità di scambiare qualche parola con il direttore d’orchestra e mastermind Animæ. Una lunga chiacchierata che ha messo in evidenza molti aspetti della scena italiana e non solo, oltre al brainstorming che sta alla base dell’album. Buona lettura.
Ciao Luca, vorrei iniziare questa chiacchierata lasciandoti libertà di espressione, so bene che risulta assurdo e difficile ma hai libertà totale di la parola. Cosa vuoi raccontarci in merito a questo nuovo album?
Grazie. Posso dire che questo è il primo disco a cui partecipo del quale sono soddisfatto al 100%. Non perché gli altri siano artisticamente inferiori, parlo personalmente e non a livello di band. Quello che mi è sempre premuto è stato sempre riuscire a trasmettere quell’emozione che io incanalo attraverso le musiche che compongo; in questo caso quando sento una determinata partitura in un pezzo del disco ricordo ciò che provavo in quel momento. Sento dunque compiuto quello che considero la mia missione musicale: dare forma ed esprimere determinate emozioni, ritrovandole ogni volta che vado riascoltarle.
Comprendo benissimo, anche perché comporre, idealizzare e suonare la musica sono tre fasi completamente distanti le une dalle altre. Riuscire a mantenere l’intensità in tutte e tre la fasi è immensamente difficile.
Infatti, già tramutare ciò che si ha in testa in musica è un passo molto difficile che richiede sforzi e concentrazione. Subentrano poi dettagli quali gli arrangiamenti che rischiano di sminuire certe parti, altre invece vengono accentuate paradossalmente. In questo caso invece, pur essendo stato un processo travagliato, ci siamo riusciti.
Infatti mi sembra di avere intuito che ci abbiate messo molto tempo a concludere l’operato.
Si è vero, innanzitutto perché all’inizio c’è stato un periodo di studio un pò lungo; abbiamo voluto distaccarci dal classico modo di comporre del passato. Prima tutto era dato dalla collaborazione del tastierista e del nostro vecchio chitarrista, che se ne è andato dopo “The Grand Gugniol“. Questo elemento, aggiunto al volere distaccarci dal nostro classico stile, ha fatto si che le sovrastrutture barocche sono state lasciate indietro per qualcosa che fosse più diretto ed emotivo, più emozionale, non così costruito a livello artistico e pensato. Come se l’emozione volesse guidare la canzone stessa.
Questo essere più diretto rispetto al disco precedente lo si percepisci rispetto al passato. Il cambio non è ne meglio ne peggio rispetto ma solo una direzione differente, paragonarli mi sembra difficile perché si comprende che la composizione che sta alla base è distante. Andando invece più in superficie, a livello metaforico, ti chiedevo del titolo e della cover, cosa puoi raccontare in merito?
Certamente, Il cantico delle Ombre si collega alla mia visione dei Darkend, ovverosia un rituale visto in forma depurativa. Se ci pensi il canto è una forma di purezza, di liberazione. Un rituale che serve per buttare fuori qualcosa di oscuro, le ombre, fissando al tempo stesso dentro di noi ciò che è importante. Un mantra verso la nostra stessa vita. Per la copertina mi è parsa emblematica e di impatto; secondo me riproduce benissimo il tormento, il turbino e il voler buttare fuori quel chaos che si genera in ognuno di noi.
A molti può sembrare un frivolezza, un dettaglio inutile, aver scelto di non mettere il logo ufficiale è molto d’impatto.
Verissimo, qualcosa è cambiato, volevamo portare l’attenzione a chi siamo e non a chi eravamo, a cosa suoniamo e non all’immagine che diamo. Un volere slegare il concetto di band, del musicista rispetto a ciò che sta racchiuso dentro l’album.
Voi l’avete vissuta personalmente, come mi hai appena raccontato, ma mi sembra che in molti gruppi negli ultimi anni hanno deciso questo approccio. Una decisione che vuole magari far intendere come la gente, che ha molta meno attenzione del passato, abbiamo bisogno di uno stimolo per recuperarla.
Infatti, giustissimo, una scelta rivolta anche verso la concezione dell’artwork nel suo complesso. Non è un dettaglio da poco curare gli aspetti estetici e visivi al giorno d’oggi.
Infatti più inserisci dettagli note e particolarità, più chi hai di fronte si concentra. Devi sempre avere un’amante della musica non un fruitore di passaggio, l’impatto diretto oggi non porta a nulla. Andando oltre invece che mi puoi raccontare di quei loschi figuri che hai scelto come ospiti del disco? (ridendo NdR)
Da chi possiamo iniziare, vediamo… la prima scelta obbligata è stato Sakis, il primo con cui abbiamo fatto un tour e siamo amici. In passato durnte i tour ci è venuto naturale parlare di una collaborazione futura e abbiamo solo aspettato il momento giusto. Labes è un amico e possiamo dire che frequentiamo gli stessi cimiteri (ridendo NdR); anche con gli Abysmal Grief abbiamo condiviso spesso il palco e pur non avendo le stesse sonorità c’è un legame a livello emotivo, di sensazioni che ci lega. Cerchiamo di emanare un’idea sulfurea e cimiteriale, verso quel concetto di morte che ci tiene vicini sotto certi aspetti.
Anche dal vivo sia voi che gli Abysmal cercate di donare al tutto un effetto scenografico abbastanza di impatto che tenda a rievocare certe ambientazioni.
Si infatti a livello scenografico cerchiamo sempre qualcosa che ci dia un impatto per implementare la musica proposta. Siamo diversi come gruppi ma abbiamo basi comuni. Tornado ai guest invece Niklas l’abbiamo conosciuto quando abbiamo suonato insieme al Carpathian Alliance in Ucraina vicino a Leopoli. Ha sentito che parlavamo Italiano, avendo lui vissuto in Sicilia per diversi mesi, il mio batterista ha fatto una battuta del tipo “tengo una minchia tanta” e lui girandosi ci ha detto “vuoi dormire con me” ridendo. Da li siamo rimasti in contatto, era venuto a vedere il nostro show anche e soprattutto il manager che abbiamo oggi è quello che una volta lavorava per Niklas quindi è stato abbastanza facile. In ultimo abbiamo Attila.
Lui non è un personaggio che si presti molto a queste comparsate, è una occasione insolita.
Si è vero, anche perché non è stato pensato all’inizio. Attila rimane sempre e comunque uno dei miei cantati preferiti nell’ambito estremo.
Su questo non ci piove, si può dire ciò che si vuole ma su “De Mysteriis Dom Sathanas” c’è lui che canta. Un disco infinito che a prescindere da “Deathcrush” o quello che vuoi non ha eguali. Anche gli ultimi.
Si è vero, infatti anche quando c’era Blasphemer erano tutti a criticare poi dopo una decina d’anni saltavano fuori come funghi gruppi che si ispiravano a quel periodo o quell’altro.
Pensa solo quanta merda ha preso all’epoca “Grand Declaration of War” mentre oggi è attualissimo. Un album spettacolare.
Vero piace anche a me. Attila lo abbiamo conosciuto in Svezia perché il ragazzo che si occupa delle scenografie dei Mayhem ha visto il nostro show e ci ha chiesto uno dei nostri teschi per Attila. Lui ha sempre teschi o ossa dietro, non avendoli in quella occasione, mi ha chiesto a me se potevo dargliene uno; dopo incontrandoli nel backstage siamo rimasti chiacchierare ma senza mantenere i contatti. Il fato vuole che il tecnico della batteria di Hellhammer sia un nostro grande fan e tramite lui abbiamo chiesto i contatti di Attila, gli abbiamo prima fatto sentire la canzone e piacendogli ha accettato a partecipare al progetto.
L’idea di questi ospiti è che, pur non essendo ridondati e apparendo come vere e proprie comparsate, riescano ad offrire quel contributo in quel momento, offrendo quel dettaglio in più.
Si infatti abbiamo pensato più a un contributo che solo attraverso loro riuscivamo ad avere, senza fargli cantare canzoni intere. Creare delle atmosfere che siano necessarie.
Come tante voci, tanti personaggi abbiano voglia o necessità di dire la loro lungo il progetto. Ma quindi possiamo parlare di un concept alla base?
C’è un concept in senso lato, ruota tutto intorno al mio livello di spiritualità e di rituale, il modo in cui vivo ma non c’è una storia vera e propria da seguire. Un album brumoso e difficile da decifrare a livello lirico; come se i testi vogliano toccare dei tasti ben precisi, sempre se ci si trovi una storia all’interno.
Ti capisco, sono una persona che adora leggere i testi, leggerli mentre ascolto il disco, però ad ogni disco comprendi come i testi sono scritti in maniera così personale che entrare all’interno del concept è quasi impossibile. Tutto troppo astratto e personale.
Infatti, hai ragione e la cosa di cui sono più contento è che ogni brano racchiude ed esprime un’immagine metaforica al suo interno. Un messaggio che riesce ad arrivare attraverso le parole; questa modalità a mio parere è più facile rispetto ad un concept classico che segue una linea ben precisa al suo interno. Potrebbe essere visto quasi come un quadro, per dipingerlo servono i colori, senza parole riesce a trasmetterti un messaggio in silenzio.
Infatti mi viene in mente la traccia che cantante in italiano, ‘Il velo delle ombre’, che riesce a metterti in armonia e in sintonia con l’atmosfera della canzone pur non conoscendo il testo. Se non sbaglio è la prima volta che trattate la lingua italiana nei vostri album.
Si quella è riuscita molto bene e pur non essendo la prima volta che usiamo la lingua italiana, è la prima che viene cantata quasi completamente in italiano. Negli altri due dischi c’erano brevi stralci ma questo è il primo vero e proprio; l’italiano ha una potenzialità e una musicalità al suo interno invidiabile da molte lingue europee.
Prima mi accennavi alla scena live, la vedo molto grigia.
Fai molti concerti?
Direi siamo su venti, venticinque all’anno. Non sono molti, non sono pochi, sono solo quelli che riesco fare. Il fatto che fa arrabbiare e/o pensare è che vedi sempre le stesse facce sempre, sempre meno gente o paradossalente gente che disturba.
Faccio anche io ciò che posso, ma quando qualcosa mi interessa vado. Per dirti il mio batterista lo vedi ovunque e apprezzo il suo sbattersi e andare, capisco però anche chi tende a tirare indietro e frequentare solo gli eventi dove c’è qualcosa di richiamo. La cosa che fa rabbia è che la gente arriva alla mezza per farsi la serata, atteggiamenti rimangono inconcepibili. C’è apatia e non c’è voglia di supportare il gruppo, cosa che all’estero invece diventa una vera festa; la gente è li per divertirsi e vivere il concerto. In Italia abbiamo un’indole più timida.
Hai ragione, infatti mi ricordo una delle ultime volte che vi ho visto dal vivo insieme a Shining e Selvans, la gente era discretamente presente e non ha senso lamentarsi, ma sembrava di essere in un covo di morti: zero emozione, zero empatia. Il nulla costante. Chiedo come la vedi tu dall’altro lato.
Sai la storia dell’invidia e dello stare a guardarsi con sospetto tra differenti band è ancora vera. Come se per partito preso molti, pur apprezzando il tuo lavoro, non vogliono dartelo a vedere per non darti una soddisfazione. Anche i musicisti sarebbero più facilitati ad avere un supporto a voce o con qualche gesto che conferma la partecipazione di chi hai di fronte. Io non frequento i forum perché ogni volta che apro una pagina è solo una fila di insulti, tutti questi poi vengono rivolti a band italiane con pagine e pagine zeppe delle stesse frasi. A criticare sono tutti carichi.
Si mi fai venire in mente il famoso guerriero da tastiera che dietro un monitor parla parla ma alla fine è solo fuffa, senza argomentazioni.
Ma certo, se qualcuno apprezza la mia musica mi fa piacere, se invece non ti piace, parlandone in maniera costruttiva farebbe anche piacere capire. Sino a quando però tutti si nascondo dietro una tastiera la parentesi costruttiva va a perdersi, quando poi ci si vede a quattr’occhi non parli, come si può? Giustamente, le opinioni sono sempre differenti e possono essere contrastanti, ma se espresse in maniera intelligente possono aiutare nel percorso di formazione. Il nuovo disco è nato anche per dei discorsi che abbiamo avuto con certe persone che ci han detto pareri negativi, ma il modo in cui sono stati detti cambia molto il fattore che ne si percepisce. Questa è la basa del parlare italiano, ma alcuni se lo dimenticano.
Ti capisco perfettamente e non sai quanto. Tornando al disco mi viene da dire che lo sento molto più vicino al death rispetto che al black di un tempo. Il confine tra i due generi è talmente labile oggi e lo sappiamo, però in certi momenti sona tutto più vicino al death moderno mentre in altri brani mi sono detto “cavolo questo è un omaggio a Enthroned Darkness Triumphant”. Tu come lo percepisci?
Questo sai che non me lo avevano mai detto. Non ci ho mai pensato e non riesco a definirla nemmeno black la mia musica, cerco di definirla come extreme ritual music, un vivere queste canzoni come un percorso spirituale. Anche il suonarle live è così. Non ha i canoni del black, non ha i canoni del death e cerco di definirla come estremamente ritualistica pur avendo stralci e passaggi che prendono da uno o dall’altro. Ci sono anche un po’ di venature che richiamano il Funeral Doom che come genere, io lo adoro moltissimo.
Dopo circa venti minuti di chiacchiere riguardanti il feticismo da collezione musicale, la nuova scena funerale doom, i dischi che ci hanno cambiato la vita e i gruppi a noi cari, abbiamo ripreso la discussione.
Veniamo all’ultima domanda di rito. Progetti per il futuro che riguardano il disco o a livello personale?
Si abbiamo diverse attività in atto su entrambi fronti. Avremo il release party che avverrà all’Alchemia di Bologna il prossimo 22 aprile (intervista è stata eseguita i primi giorni di aprile quando NdR). Abbiamo una data a supporto dei Nocturnal Depression in francia, a maggio andiamo a Bergen a suonare con i Ghaal’s Wyrd. Abbiamo qualche data in inverno e faremo un tour a supporto di qualche band sicuramente. Abbiamo reintegrato in maniera definitiva il tastierista e stiamo già iniziando a comporre musica per il nuovo album.
Bene, direi che siamo arrivati alla fine ti ringrazio della disponibilità e ti faccio nuovamente i complimenti per il disco.
Grazie a te e a presto.