Folk - Viking

Intervista Enslaved (Ivar Bjørnson)

Di Davide Sciaky - 1 Ottobre 2020 - 8:00
Intervista Enslaved (Ivar Bjørnson)

Intervista a cura di Davide Sciaky 

Ciao Ivar, come stai?

Bene grazie, è una bella giornata a Bergen in Norvegia.
Come va in Italia?

 

Bene direi, anche se fa un po’ troppo caldo.
Quindi dicevi che vivi a Bergen?

Sì, esatto.

 

Bello, ci sono stato l’anno scorso e mi è piaciuta molto.

Sei venuto per il festival [Beyond The Gates]?

 

No, ero in vacanza, ho preso una macchina ad Oslo, sono andato a Bergen e poi ho fatto tutta la costa attraverso i fiordi fino a Capo Nord.

Cazzo, così si fa, questo è il modo migliore di vedere la Norvegia.

 

E ora spero di tornare l’anno prossimo, stavolta invece per il festival, ho visto che ci sarete voi, Emperor, Mayhem, un sacco di gente!

Sì, sarà epico.

 

Come hai passato gli scorsi mesi di lockdown?

Siamo stati molto fortunati qui, devo dire.
In parte è perché il governo ha fatto delle scelte che si sono rivelate azzeccate, in parte perché siamo uno stato relativamente piccolo, nel senso che siamo poche persone, ma in un territorio molto grande, quindi siamo abituati alla distanza, non è stato nulla di nuovo.
Penso che per questo non è stato troppo difficile seguire le indicazioni di sicurezza ed è stato un successo, i ragazzi sono potuti tornare a scuola  già alla fine di aprile e via dicendo.
Siamo stati molto fortunati da queste parti.
Parlando in prima persona, mi sento molto privilegiato e fortunato per come le cose ci hanno toccato: abbiamo avuto la possibilità di suonare tre concerti che hanno raggiunto fan in tutto il mondo grazie allo streaming, e ne abbiamo ancora uno in programma.
Abbiamo suonato molto materiale che non abbiamo mai suonato prima; non abbiamo mai provato tanto quanto in questo momento, quindi penso che questo periodo ci permetterà di diventare una band migliore e questa cosa è molto stimolante.

 

Bene, è bello che abbiate trovato un lato positivo in questa faccenda.

Sì, se c’è un modo positivo di vivere una situazione bisogna seguirlo.
È stato importante per noi, o almeno per me, mi sono sentito molto fortunato ricordando che ci sono moltissimi musicisti nel mondo che non potevano fare come noi, erano completamente bloccati, una cosa orribile.

 

Ho letto nel comunicato stampa del nuovo album, “Utgard”, che hai iniziato a lavorare al disco alla fine del 2018 e, dice il comunicato, ti sei seduto in casa tua con la chitarra acustica in braccio ed è successo tutto quasi all’improvviso. Funziona sempre così il songwriting per te, ti siedi semplicemente con la chitarra quando ti senti ispirato, o è stato qualcosa di speciale questa volta?

Devo dire che è stato un processo un po’ più diretto, c’era una certa urgenza.
Normalmente sono molto fortunato perché sono ispirato molto spesso, scrivo spesso musica e mi piace farlo, e a volte organizzi il tuo tempo in modo da poter dedicare tempo alla scrittura, ad esempio andando via per un weekend, o portando la chitarra ed il computer in una gita in un cottage nella foresta o qualcosa del genere.
Questa volta semplicemente dovevo scrivere.
Non c’era tempo per organizzarsi, dovevo scrivere immediatamente.
E ha funzionato perfettamente.
Ormai basta avere un cellulare a portata di mano per registrare le idee, poi si va in studio a lavorarci sopra con calma quando c’è tempo.
Questa è stata la cosa speciale di quest’album, c’era un senso di urgenza, la sensazione che ci fosse così tanto da fare, da scrivere e creare, così tanto potenziale con la nuova lineup.
Poi credo che sia stata anche una reazione a tutto quello che stava succedendo nella band negli anni precedenti, in particolare con Cato [Bekkevold] che se n’è andato in mezzo al tour nel 2018; ora che avevamo una nuova lineup pronta non c’era motivo di aspettare un secondo di più.

 

Questo è il vostro quindicesimo album in 26 anni, un numero notevole, e una costante per gli Enslaved è la continua evoluzione del vostro sound di album in album. Mi chiedevo se giunti a questo punto trovi difficile creare nuova musica continuando questo processo di evoluzione, e se ti capita mai di scartare canzoni perché somigliano troppo a qualcosa di fatto nel passato.

Sì, ma non succede troppo spesso, devo dire.
Tutto si decide nel nucleo dell’idea [della canzone], succede tutto in quelle prime uno/due ore in cui mi viene un’idea nuova.
Se non mi sembra da subito che quell’idea si muova in una direzione interessante ed eccitante allora la butto via e me ne dimentico prima di anche perderci troppo tempo.
Quindi, si tratta idee che non sono neanche abbastanza sviluppate da poter essere chiamate canzoni.
Ovviamente se qualcuno obietta, capita che qualcuno dica, “Questa idea qui somiglia un po’ a questa cosa che hai fatto in quell’altro album”, allora ascolto la canzone e rispondo, “Sì, probabilmente hai ragione ma per me ha comunque una sua unicità a causa del contesto della canzone”, o anche solo perché è passato così tanto tempo che magari non me ne accorgo neanch’io, ma penso sia una conseguenza naturale dell’aver scritto così tanti dischi.
A volte può essere che la stessa cosa ti ispiri due volte, non ho nulla contro di ciò, ma penso che tutti i nostri album abbiano un qualche elemento che li renda unici e non penso che ci siamo mai ripetuti troppo.

 

L’album dura 44 minuti ed è quindi il vostro più corto da “Blodhemn” (1998) ed il secondo più breve della vostra carriera. C’è un motivo particolare dietro a questa relativamente breve durata?

Non è stata una scelta deliberata, no.
Ma forse è stato il modo di scrivere le canzoni che ho menzionato prima.
Negli ultimi tre album ho scritto molto nel mio studio, cosa che rende naturale il mettere molta enfasi sugli arrangiamenti e sulla struttura delle canzoni.
Questa volta lavorando solo con la mia chitarra, scrivendo canzoni molto basate su riff, sono finito per focalizzarmi più di prima proprio sui riff.
Quindi, in questo caso, il riff è tutto ciò che deve essere espresso in una canzone, per così dire, non ci devono essere grandi arrangiamenti intorno.
A parte questo non ci sono stati cambiamenti particolari, anzi, ho cercato di non fare attenzione alla lunghezza delle canzoni perché ho paura che questo ti possa spingere inconsciamente a prendere delle decisioni artistiche sbagliate, perché vuoi rientrare in un qualche formato o categoria.
Tendo a fidarmi di me stesso, ma ci sono sempre decisioni che prendiamo inconsciamente, quindi ho cercato di non pensare troppo alla durata per evitare di influenzarmi in qualche modo.
Sono rimasto abbastanza sorpreso di vedere che le canzoni erano più corte, devo dire.
Parlando della lunghezza complessiva del disco, ero arrivato al punto in cui avevo otto canzoni e ho cominciato a scriverne un’altra, ‘Distant Season’, l’ultima del disco, pensando, “Va bene, scriverò altre due o tre canzoni”.
Come ho finito quella canzone, però, semplicemente non era più un’opzione scrivere ancora, quella doveva essere l’ultima canzone dell’album, non so spiegare perché, semplicemente mi sentivo in questo modo e l’ho detto agli altri, “E’ così e basta” [ride].
Loro hanno detto subito che erano d’accordo, “Se questo è come ti senti, siamo con te”.
Non sapevo che fosse il nostro secondo più corto, grazie dell’informazione [ride].

 

Parlami dei testi e del titolo, cos’è “Utgard” e di cosa parlano le canzoni?

Sì, “Utgard” è un album che parla di… Utgard è la terra che sta al di fuori della terra degli Dei.
Conosciamo bene Asgard, la terra degli Dei nella mitologia, dove vivono al di sopra di Midgard, la terra degli uomini; al di fuori di Asgard c’è Utgard che è l’origine di tutte le creature, dei Giganti, i primi esseri viventi, da cui sono nati gli Dei che poi sono andati ad Asgard.
Quindi c’è una relazione, gli Dei sono come i figli dei Giganti in un certo senso, non è chiarissimo nella mitologia, non è come la Bibbia, come Caino e Abele da cui puoi seguire tutta la genealogia.
C’è questa connessione, e [Utgard] è anche dove la magia e l’impossibile hanno luogo: ad esempio, Sleipnir, il cavallo con otto gambe di Odino che è stato una grossa parte del concept di “E”, lui è il figlio di un Gigante e di un Dio, una sorta di scherzo della natura ma le creature più fantastiche spesso nascono dall’incontro tra Dei e Giganti.
Quindi, è un mondo molto importante ma incontrollabile, queste forze primordiali sono… penso che si possa fare un confronto, se guardi al mondo della psicologia, il mondo degli Dei è come la mente conscia, come la mente con cui ora parliamo io e te, dove le cose sono razionali, in ordine, dove c’è il linguaggio, dove c’è una struttura e dove sappiamo come muoverci; mentre possiamo confrontare Utgard con l’inconscio, o con il subconscio, i sogni e via dicendo che hanno un grande potenziale, grande creatività, a volte stranezza, istinti, desideri, ma non sono automaticamente compatibili, bisogna fare un lavoro per comunicarli.
E i due hanno bisogno l’uno dell’altro, questo è ciò di cui parla l’album, si allontana da Asgard, dalla comodità dell’ordine razionale per entrare nel lato di sé stessi che è caotico e sconosciuto, ma anche giocoso e creativo.

Parlando dei testi, una delle caratteristiche fondamentali degli Enslaved sono proprio i testi sulla mitologia e tradizioni norrene. Quando avete cominciato a suonare erano ben poche le band che trattavano questi temi, mentre oggi ci sono un’infinità di gruppi che lo fanno…

È pazzesco!

… è pazzesco e a volte addirittura alcune delle band con questi testi non vengono neanche dalla Scandinavia! Come ti senti a scrivere questi testi oggi, in questo contesto musicale completamente diverso?

È una domanda interessante.
Per me è sostanzialmente lo stesso, ma ora tende ad esserci un lato che è più vantaggioso per noi: ci sono più persone con cui parlare di questi temi, sembra che ci sia come una comunità di interessati.
All’inizio di questa scena di Metal pagano, alla fine degli anni ’90, ne eravamo quasi infastiditi perché c’era chi continuava la tradizione cristiana di rappresentare la mitologia norrena e l’epoca vichinga come cose infantili ed immature, come [se i norreni] fossero dei cazzoni ubriachi, quindi eravamo offesi da come certe band usavano questo immaginario.
Oggi c’è una scena diversa, con band come Wardruna, Nebala… ovviamente c’erano band con cui eravamo in contatto anche all’epoca, gente che ha un approccio più simile al nostro come i Primordial, anche se ovviamente loro sono più interessati alle loro tradizioni irlandesi.
C’è sempre stato un piccolo gruppo di musicisti con cui sentivamo una connessione, oggi questo gruppo è un po’ cresciuto, ma sento che sia più importante che mai di parlare di quanto questi vecchi pensieri e tradizioni siano ancora importanti oggi, di come siano una valida alternativa al modo di vivere stupido e distruttivo che segue certa gente.
Noi non vogliamo abbandonare questi temi perché poi la gente parlando di mitologia nordica finirebbe a pensare solo ad ubriaconi che saltano in giro suonando le fisarmoniche, è divertente ma non dovrebbe essere l’idea che si ha di queste antiche tradizioni.

 

Il Black Metal è ormai diventato parte della cultura norvegese, qualcosa di cui tutti i norvegesi hanno almeno sentito parlare. Immagino che quando avete iniziato a suonare una cosa del genere fosse impensabile. Ti ricordi un momento particolare in cui hai realizzato quanto fosse cambiata la percezione della gente nei confronti di questa musica?

Bella domanda!
È difficile identificare un momento specifico, è stata un’evoluzione fluida.
Tu cosa pensi, secondo te in che momento è cominciato a cambiare?

Non sono sicuro, forse è successo nel momento in cui l’industria musicale stessa ha cominciato a dare più importanza al genere. Voi stessi avete vinto alcuni premi e penso che anche questo abbia contribuito a normalizzare il Black Metal e a far vedere che era semplicemente musica e non roba da criminali come poteva aver pensato qualcuno nei primi tempi.

Questo è molto importante, penso che tu abbia assolutamente ragione, grazie.
Direi che intorno al 2000 le cose hanno cominciato a cambiare; in Norvegia per la prima volta, penso fosse il ’98, ’99 ai Grammy norvegesi [gli Spellemannprisen N.D.R.] furono nominati i Dimmu Borgir e, puoi dire quello che vuoi della loro musica, non sono necessariamente uno dei miei gruppi preferiti, ma sono dei professionisti e furono degli innovatori, la prima band a suonare con un’orchestra sinfonica in televisione in Norvegia, e questo ha cambiato molto il modo in cui il Black Metal era percepito dal pubblico.
Sì, direi che è stato a cavallo del 2000 che le cose sono cambiate, quando i quotidiani hanno cominciato a chiamarci per chiederci cose che non fossero chiese bruciate ed omicidi.
Ora è decisamente parte della cultura mainstream, in Norvegia, in Scandinavia, magari non in tutto il mondo.
È quello che è, non è una cosa positiva e non è una cosa negativa, è semplicemente quello che succede a qualunque sottocultura nel momento in cui raggiunge una certa popolarità e professionalità; penso che la gente non si dovrebbe preoccupare di ciò, se una band vende un milione di album, o centomila copie, o cento copie, questo non cambia in alcun modo la musica fintanto che i musicisti sono onesti con sé stessi quando la stanno creando.

 

Gli Enslaved sono considerati una delle band essenziali del Black Metal norvegese e, anche se eravate più giovani di altre band che esordivano nello stesso periodo, ho letto che eravate in contatto con molte di queste, con gli Emperor, con Euronymous e altri. Quali sono i tuoi ricordi di quel periodo, dei primi anni ’90?

Ho ricordi molto piacevoli e divertenti ancora oggi.
Per questo non vado a vedere, non voglio dire che li boicotto, ma non vedo a vedere niente tipo… “Lord of Chaos”, non ha senso per me, quella storia non ha niente a che vedere con la mia esperienza.
So che sono successe certe cose, certa gente è finita in prigione, altri sono morti, è terribile, ma per me e per la band fu un periodo molto dinamico ed eccitante.
I contatti con Euronymous, per esempio, lui fu un mentore in tanti sensi; noi non eravamo una vera band Black Metal nel senso delle band con cui aveva a che fare lui, come i Mayhem stessi, o i Dissection, quindi ovviamente non ci furono mai discussioni su Satanismo e cose del genere, non ci interessavano, e col fatto che ero così più giovane di lui forse non era neanche naturale fare discussioni filosofiche con me, non cercò mai di reclutarci, lui aveva le sue idee e finiva lì.
Era enormemente orgoglioso della scena Black Metal, della scena di cui si trovava in prima linea, ed era molto aperto ed inclusivo, il contrario di quello che la gente pensa oggi, dello stereotipo della band estrema Black Metal, gente di estrema destra, elististi.
Lui era il contrario, magari era a causa del conflitto che viveva e su cui era molto aperto, il fatto di essere comunista, ma un comunista satanista che pensava che il comunismo fosse naturale perché tratta tutti ugualmente male [ride] rifiutava il nazismo perché lo riteneva l’illusione definitiva, il credo che tutti siano inferiori alla propria gente, lui diceva, “No, no, tutti quanti fanno ugualmente schifo, tutti quanti andrebbero eliminati”.
Anche questo era lui, ma come dicevo era un mentore nel senso che consigliava musica, Prog Rock, Krautrock, musica degli anni ’70, tutta musica che comprai nel suo negozio; voleva che la musica fosse diversificata, apprezzava tanti generi diversi.
Poi portava la chitarra con sé quando girava per il Paese, quando andava in giro per la Norvegia ad incontrare i suoi amici, ed era un po’ come dei workshop, mi chiedeva, “Ok, fammi sentire le nuove canzoni degli Enslaved”, glie le suonavo e mi diceva, “Quel riff è molto bello, fammi vedere come si suona”; ma, soprattutto, la cosa più importante per me era che mi faceva come delle masterclass facendomi vedere alcune delle tecniche che aveva usato su “De Mysteriis [Dom Sathanas]” che, sai, per me rimane il più grande album Black Metal di sempre.
Le lezioni che mi diede penso siano la cosa che mi influenza di più ancora oggi come chitarrista.

 

È molto interessante quello che mi hai detto su di lui, su quanto fosse aperto ed inclusivo, perché se guardiamo il Black Metal ed i suoi fan oggi, ci sono tantissimi che lo vedono come un genere assolutamente esclusivo, che pensano che per apprezzare questa musica non si possa ascoltare altro… e che spesso ritengono Euronymous un po’ il padre spirituale sia del genere che di questa ideologia elitista, e invece tu mi racconti di Euronymous che faceva ascoltare Krautrock ai suoi amici, è molto divertente vedere questo lato del personaggio.

È folle, ma prova anche il punto che con tante cose, come con internet, la storia che senti più spesso e semplicemente quella raccontata dalle persone che gridano più forte.
Ci sono molte altre verità, ma se hai secondi fini, se vuoi che le cose vengano lette in un certo modo per trarne beneficio, allora è semplice far passare la tua verità.
Penso che questo ormai oggi si sia visto con tante cose, che l’idea che “la verità prevarrà” valga solo per la verità di qualcuno.

 

Già che abbiamo nominato i crimini avvenuti all’epoca, è qualcosa di cui eri a conoscenza o erano fatti che rimanevano fuori dai vostri radar?

Sì, sapevamo qualcosa di quello che stava succedendo da voci che giravano, ma era prima di internet, non c’erano cellulari, e ovviamente nessuno dei nostri amici più stretti era coinvolto.
Sentimmo voci, certo, ma nulla di ben definito e comunque ci tenemmo alla larga da queste storie, non chiamammo nessuno chiedendo, “È vero quello che si dice?” perché semplicemente sembrava qualcosa di troppo lontano dalla nostra realtà di tutti i giorni.

 

Cambiando argomento, alcuni anni fa vi ho visti a Londra nella serata in cui avete suonato tutto Skuggsjá insieme ai Wardruna. Anche per una band che ha continuamente evoluto il proprio sound per tutta la carriera quello è stato qualcosa di notevole e speciale. Com’è stato scrivere quella musica e portarla sul palco?

Ho amato quei concerti.
L’esperienza con “Skuggsjá” è stata così positiva – e fortunatamente molto positiva anche per la mia controparte, Einar (Selvik, dei Wardruna) – che abbiamo continuato e fatto un altro album, “Hugsjá”, e sono sicuro che faremo un terzo album tra un anno o due.
È molto stimolante ma anche liberatorio poter scrivere fuori dalla propria comfort zone, e anche molto educativo vedere come Einar lavora ai suoi arrangiamenti acustici, è stata un’ottima scuola per me.

 

Immagino, ho adorato il suo album acustico, Skald, è stata la mia colonna sonora del viaggio tra i fiordi che ti dicevo prima.

Dev’essere perfetto, sì.

 

Ad ottobre uscirà “Utgard” e, ovviamente, data la situazione del coronavirus il futuro è incerto. Che piani avete per la promozione dell’album, pensi che farete altri concerti in streaming, cercherete di suonare con un pubblico o avete altre idee?

Siamo decisamente pronti a fare qualcosa.
Faremo un altro show in streaming, il 1° ottobre, e poi due concerti con pubblico in Norvegia a novembre; poi abbiamo molti piani che non possiamo ancora confermare perché ovviamente i promoter sono ancora incerti.
L’istante in cui i locali riapriranno suoneremo moltissimi concerti, e se non dovessero riaprire continueremo con lo streaming.
L’unica cosa sicura è che non ci arrenderemo.