Doom

Intervista Ghostheart Nebula (Nicola Magistro)

Di Daniele D'Adamo - 17 Ottobre 2024 - 0:00
Intervista Ghostheart Nebula (Nicola Magistro)

Oggi esce “Blackshift“, secondo album dei milanesi Ghostheart Nebula. Di questo e di altro ne parliamo con il fondatore della band, Nicola Magistro aka “Nick Magister“.

Intervista a cura di Daniele “dani66” D’Adamo

Ciao Nick, iniziamo subito con “Blackshift”. Ci puoi spiegare il significato del titolo?

Ciao Daniele, certamente. “Blackshift” richiama a sé i concetti di blueshift e redshift, i due fenomeni fisici che si manifestano nell’ambito dell’effetto Doppler. Immaginando noi stessi al centro del Spazio più profondo e oscuro, osserviamo oggetti celesti che si avvicinano o si allontanano tutti intorno a noi e questo movimento produce un cambiamento di frequenza nello spettro del colore. Nel nostro caso abbiamo voluto muoverci in una direzione trasversale e considerare questo movimento come un moto dell’anima che trascende lo spaziotempo lineare e prende una strada tutta sua, muovendosi verso il nero, che può essere visto come il vuoto nella sua più profonda accezione.

E, quindi, quali sono i concetti di base da cui nascono i testi?

I due cardini sui quali si sviluppano le liriche dell’album sono il concetto orientale buddista della vacuità (“Śūnyatā”, dal quale ne deriva il titolo “Sunya”) e l’Entanglement quantistico di “Infinite Mirror”. L’album si muove in un perpetuo alternarsi tra introspezione e dualismo creando contrasti tra opposti. Non è un disco di assoluto sconforto, anzi, lo spostamento verso il nero è la ricerca di un centro nel quale riusciamo a lasciare andare ciò che non ha più ragione di rimanere.

A proposito di testi, c’è qualcuno appassionato di cosmologia, fra di voi?

Si, assolutamente. Quando raccogliamo le idee per la stesura dei testi attingiamo il più possibile da pensieri filosofici nelle cosmologie delle varie culture del Mondo. Cerchiamo poi di rielaborare queste idee nella maniera più personale ed emotiva possibile, andando a scovare delle connessioni con le nostre anime, a volte anche semplificando alcuni concetti che sarebbe altrimenti impossibile ridurre a pochi versi.

Anche la copertina deve avere qualche significato preciso. Giusto?

La copertina è frutto di un lavoro sinergico fatto con Heike Langhans. Da una prospettiva prettamente visiva consideriamo “Blackshift” come una fusione tra il mondo terreno di “Reveries”, il nostro primo EP e la trascendenza di “Ascension”. Sono rappresentati infatti i colori principali dei due nostri precedenti lavori, rosso e verde, che, danzando, si attorcigliano in un campo toroidale che si propaga dalle due figure in contrapposizione nel centro dell’artwork, in un continuo scambio tra luce e oscurità.

La composizione delle canzoni a chi è imputabile? A te? Al gruppo in parte/interezza o altro?

Gran parte degli spunti musicali arrivano di solito da me e da Bolthorn, poi vengono elaborate da tutti fino a raggiungere la forma che ci soddisfa. È un processo che facciamo a distanza con un botta e risposta di bozze e idee, non siamo la classica band che si trova in sala prove a jammare. Poi chissà, le cose possono sempre cambiare ed evolvere, magari per il prossimo disco ci rinchiuderemo in una iurta sugli Urali!

Nel disco la contrapposizione fra metal pesante e armonie celestiali è piuttosto marcata. È una circostanza naturale o è pianificata a tavolino?

Diciamo che è sempre stata una dinamica che abbiamo voluto nel nostro sound sin dal primo EP. Stiamo in qualche modo cercando di estremizzare le sfumature sempre più, ci piace quando i contrasti generano delle sonorità o delle sensazioni inaspettate e particolari.

A cosa si deve l’inserimento nella formazione di Lucia Amelia Emmanueli?

La collaborazione con Lucia è iniziata prima dal vivo, in quanto avevamo bisogno di una cantante che fosse in grado di riproporre le parti di Therese Tofting in “Denialist”. Dopo poco tempo abbiamo avuto il piacere di ospitarla anche su disco con “MIRA”, pezzo di apertura del nostro primo full-length, e dopo l’esibizione in Belgio all’Haunting The Castle Festival, la sera stessa, le abbiamo chiesto di unirsi a noi in pianta stabile.

Le emozioni che pervadono l’LP sono molto intense nonché volte a sentimenti malinconici. Questo deriva dalle vostre storie di vita?

A livello sentimentale è un disco che definirei molto onesto e sincero. Con la musica e con i testi riusciamo a far emergere dei lati delle nostre personalità che difficilmente vedrebbero la luce. Ognuno di noi ha dei lati bui e dei pesi che si porta dentro e, anche se non ne parliamo quasi mai apertamente nemmeno tra di noi, siamo in qualche modo riusciti a convogliare questi sentimenti in “Blackshift”. In un certo senso il significato dell’album ci si è palesato da solo mentre affrontavamo alcuni di questi macigni.

“Blackshift” arriva tre anni dopo il debut-album “Ascension”. Cos’è successo, nel frattempo?

Gran parte delle bozze di “Blackshift” erano già state scritte quando è uscito “Ascension”. Ci è voluto un po’ per trovare un filo logico e riuscire a dare spazio alle tante sfumature di cui è composto, senza contare il tempo che ci è voluto per la produzione del disco nei suoi vari passaggi e l’accordo per la distribuzione discografica con Meuse Music Records. Oltre a questo, abbiamo avuto l’occasione di suonare in festival molto interessanti come il già citato Haunting The Castle e il Church Of Crow Doom nella chiesa sconsacrata di Pinerolo, la nostra prima data a Roma e l’apertura a Milano a Sylvaine.

Nelle note biografiche, il vostro stile viene definito “cosmic doom metal”. Cosa ne pensi, di queste definizioni che vengono accostate ai vari gruppi? Vi ci trovate?

Non sono proprio un fan delle definizioni ma allo stesso tempo penso che siano di aiuto nel dare un inquadramento della musica che viene proposta e delle sue tematiche. “Cosmic Doom” è in qualche modo una definizione un po’ fumosa ma efficace nel suo intento.

Suoni anche le tastiere. Hai qualche influenza del tipo Tangerine Dream, Vangelis, Jean Michel Jarre?

Le tastiere sono una parte fondamentale del nostro sound e specialmente in fase compositiva sono un elemento del quale non potremmo assolutamente fare a meno. Per quanto riguarda le influenze, beh, ci hai preso in pieno. Oltre a quelli da te citati, amo molto anche i lavori di Christopher Franke, Klaus Schulze e tutte quelle atmosfere anni ’70 – ’80, specialmente nei lavori di Alan Parsons, Mike Oldfield, ELP e l’incredibile movimento progressive italiano ed internazionale di quegli anni.

Dal vivo è facile coinvolgere il pubblico nel roteare delle emozioni cui è pervasa la vostra musica? Oppure anche nel vostro caso a vedervi e ascoltarvi sono gli smartphone?

Inspiegabilmente ci siamo accorti che il pubblico ha sempre reagito abbastanza bene alle dinamiche dei nostri show! Come dici tu, sarà probabilmente l’alternarsi di dinamiche differenti ed emozioni, cerchiamo di sempre di mantenere alta l’emotività e il coinvolgimento quando è il caso. Niente di quello che succede sul palco è forzato o troppo ragionato, c’è molto spazio alla spontaneità e credo che il pubblico riesca a percepire queste cose e ad apprezzarle. Ci fa ovviamente piacere quando i nostri show vengono ripresi da qualche smartphone perché è bello rivedersi dopo qualche giorno su uno schermo, ma non credo che siano la maggioranza, fortunatamente!

Daniele “dani66” D’Adamo