Intervista Ilienses
Siamo orgogliosi di ospitare per la prima volta tra le nostre pagine una recente realtà del fecondo mondo sotterraneo del Dark/Neofolk italiano. Faremo un’interessantissima chiacchierata con Natascia Talloru e Mauro Medde, duo di musicisti sardi che nel 2018 si è riunito sotto il monicker Ilienses. Il duo ha pubblicato da poco il secondo album, “Jae“: in questo articolo approfondiremo la conoscenza del gruppo, del disco e del retroterra culturale che ha permesso la nascita di questa intrigante entità musicale. Buona lettura!
Benvenuti su Truemetal.it! È la prima volta in cui abbiamo l’onore di ospitarVi su queste pagine, pertanto la prima domanda non può che essere la più ovvia: come, dove, quando e soprattutto perché sono nati gli Ilienses?
Anzitutto grazie per averci accolti e per dedicarci questo ampio spazio sul vostro giornale.
Gli Ilienses nascono spontaneamente dall’interesse nei confronti della storia e del passato, tra i boschi e le pietre millenarie della Barbagia, seguendo il richiamo interiore che nel tempo ci ha riportato, come si dice da noi, ‘a su connotu’, a quello che abbiamo sempre conosciuto, alla naturalezza di un mondo in cui l’uomo era attento osservatore dei cieli e celebrava la natura, la vita e la morte. Alle origini insomma. La vita in Sardegna ti porta continuamente a connetterti con chi ti ha preceduto, spesso anche inconsapevolmente, attraverso i luoghi e i monumenti nuragici, ma anche attraverso la lingua e le poesie, le storie e le leggende raccontate dagli anziani, e attraverso il simbolismo racchiuso in rituali e ricorrenze, come ad esempio il Carnevale, che si ripetono ciclicamente da secoli e che continuano a risuonare nei canti e balli tradizionali intrisi di memorie. Apparteniamo entrambi a paesi fortemente caratterizzati dal suono, inteso non solo in termini musicali ma soprattutto culturali in cui gli ‘oggetti sonori’ come tamburi tradizionali, flauti, campanacci ecc. hanno sempre ricoperto ruoli importanti all’interno delle feste comuni e delle celebrazioni, ma anche nella vita e nei lavori delle campagne, dove col loro utilizzo hanno creato un vero e proprio paesaggio sonoro identificativo e simbolico di quel luogo. Il suono dunque e il passato, questi gli aspetti che ci hanno forgiato e pensiamo ci rappresentino maggiormente in Ilienses. Siamo partiti da lì prestando maggiore attenzione alla ricchezza timbrica del patrimonio sonoro che avevamo in casa. Abbiamo trattato tutto l’organico strumentale tradizionale con umiltà, dedizione e rispetto, consapevoli del suo potenziale ancora inespresso che noi cerchiamo di far emergere perché pensiamo possa dare un contributo importante e di valore alla musica moderna.
Domanda a bruciapelo, per chi ancora ha piacere di ottenere informazioni dalle persone senza necessariamente affidarsi a sterili ricerche sul web: chi furono gli Iliensi e perché ne portate fieramente il nome?
Gli Ilienses o Iliensi erano antiche tribù che in epoca nuragica e post-nuragica (sino più o meno al periodo romano), abitavano nell’entroterra della Sardegna in una vasta area ancora non ben circoscritta. Ne portiamo fieramente il nome perché essendo abitanti dell’entroterra sardo ci rappresentano, anche se in epoche storiche diverse. Inoltre sono stati protagonisti di resistenza contro i diversi dominatori che arrivavano dal mare. Difatti parteciparono a diverse rivolte contro gli invasori romani intorno al 215 A.C., insieme all’eroe combattente sardo-unico Hampsicora (a cui abbiamo dedicato un brano presente in “Jae”) e si narra che quando i romani giunsero nelle zone interne trovarono delle tribù di Barbari non proprio propense ad accoglierli, da cui deriva il termine Barbaria o Barbagia. Sin dal principio di Ilienses ci piaceva immaginare che i nostri antenati avessero fatto il possibile per preservare questo territorio e la nostra cultura, anche se davanti a loro si prospettarono guerrieri appartenenti al più grande impero dell’epoca, l’Impero Romano per l’appunto. Inoltre, poiché per troppo tempo l’interesse nei confronti della storia sarda è stato marginale, utilizzando questo nome volevamo e vorremmo rimarcare l’importanza nel riportare alla luce la storia di una civiltà che è stata comunque protagonista dei fatti accaduti nel Mediterraneo migliaia di anni prima di Cristo. Negli ultimi anni per fortuna qualcosa è cambiato, con il ritrovamento in Sardegna delle Statue di Mont’e Prama, che hanno catturato l’interesse di numerosi storici e archeologi provenienti da diverse parti del mondo.
Iniziamo a parlare di “Jae”, il Vostro ultimo album. Esplorando le Vostre pagine social ho notato che il testo di “Jae”, la title track del disco, prende forma a partire dalle parole del componimento Istèrrida, scritto dal poeta Remundu (Raimondo) Piras. Il termine ‘jae’, inoltre, appare all’interno dei versi della poesia accanto al termine ‘janna’. Quel po’ di latinorum che ricordo mi fa pensare che ‘janna’ sia, come dire, la versione sarda del termine latino ‘ianua’…vale a dire, ‘porta’. Cosa significa, alla luce di tutti questi indizi, il titolo del Vostro album? Che ruolo ha svolto il ricordo di Raimondo Piras nell’individuazione di questo titolo e nella decisione di citare la sua poesia nella prima traccia?
Esattamente. Lo scorso anno ci siamo imbattuti in questo particolare componimento del poeta Remundu Piras, uno dei più grandi leader della ‘poesia a bolu’ (poesia estemporanea) in Sardegna, grande ispiratore non solo nella realizzazione di questo disco e del brano omonimo ma anche di numerosi altri poeti sardi e cantori di Tenore. In questa poesia Remundu sviluppa una sorta di meditazione collegabile alla inarrestabile sete di conoscenza da parte dell’uomo, che spesso sfocia in prevaricazione su tutto. L’uomo, parafrasando i versi, ha la pretesa di arrivare a toccare i limiti del mondo conosciuto ma anche dell’altrove, di arrivare a quel sottosopra e sottosuolo che si eleva verso gli astri e che discende verso gli abissi; vorrebbe anche arrivare a conoscere cosa c’è oltre la morte e viaggiare nel tempo, di questi tempi vorrebbe anche dominare la Natura, tematiche queste che hanno influenzato tutto il nostro lavoro. ‘Jae’ in sardo nella variante logudorese significa chiave, per aprire (come indica l’opera) le porte o ‘jannas’ (come hai giustamente intuito) del mistero. L’album si apre con l’omonimo brano, scende nell’abisso e si sviluppa in tutti i brani che seguono in bilico tra spiritualità e vita terrena, tra il buio e la luce, tra il passato e il presente. E’ chiaro dunque, da queste nostre prima parole, che il simbolismo per noi è un aspetto molto importante, il pilastro della nostra musica e lo riteniamo insito nella nostra cultura da sempre.
Cosa osserviamo nella fotografia che costituisce la copertina di “Jae”?
Per l’appunto in copertina è rappresentato simbolicamente il filo di lana, che ricompare in varie forme nell’immaginario e nella rappresentazione grafica dell’album, che lega le dimensioni oltre le ‘porte del mistero’. Il filo è ciò che rappresenta l’immagine di ‘Sa Filonzana’, una delle maschere più emblematiche del Carnevale Barbaricino, l’unica maschera ad essere femminile tra l’altro: si presenta come una donna vestita ‘a lutu’ (l’abito del lutto delle vedove) che analogamente alle Moire e alle Parche del mondo latino, ha l’onere e l’onore di tessere il filo della vita di ogni essere umano. Un filo che lei stessa può decidere di interrompere e recidere in qualsiasi momento. In particolare l’abito indossato da me (Natascia) nella copertina di “Jae” è quello di ‘su lutu’ di Tonara, ci tengo a precisare la provenienza non solo perché si tratta del mio paese ma anche per mettere in risalto una particolarità che caratterizza i paesi della Sardegna: ognuno di essi possiede i suoi abiti tradizionali che si utilizzavano per la quotidianità, per il matrimonio, e anche per la morte, quando le donne perdevano marito o figli, e ciascuno differisce l’uno dall’altro anche nell’arco di pochi chilometri di distanza. La maggior parte di questi abiti sono in disuso e si esibiscono solo durante ricorrenze o feste paesane, eccetto l’abito del lutto, che viene ancora utilizzato soprattutto dalle anziane.
Abbiamo citato il brano “Jae”; nell’album possiamo però ascoltare altre 6 tracce. Che temi affrontate nei testi di queste canzoni?
In parte la tematica principale l’abbiamo già raccontata con la spiegazione del titolo “Jae”. In diversi brani approfondiamo anche alcune tematiche legate alle storie di resistenza in Sardegna, col brano “Hampsicora” ma anche in “Eròes” ad esempio, che abbiamo strutturato a partire da una poesia di Mario Masala.
Sempre in “Hampsicora” affrontiamo anche il tema della morte, riferendoci per l’appunto alla storia dell’eroe sardo-punico delle rivolte antiromane. Mentre era intento a chiedere l’aiuto di Cartagine e delle tribù Ilienses due legioni romane, con a capo il console Tito Manlio Torquato, sorpresero le truppe guidate da Josto, figlio di Hampsicora, che fu abbattuto nella battaglia nei pressi di Calaris (l’attuale Cagliari). Addolorato per la morte del figlio Hampsicora si tolse la vita. I cori di apertura di questo brano riprendono per l’appunto un grido di guerra, ‘Ellori, Ellori, Elliri, Liri Doy’, indecifrabile nella lingua corrente e tuttora argomento di dibattito tra gli studiosi, che è stato inserito immaginandolo in musica come grido delle truppe dei sardi combattenti. Ma non solo, nella seconda parte del brano la morte di Josto è rappresentata da ‘s’attitu’, una nenia funebre che nella cultura antica della Sardegna veniva cantata solitamente dalle Madri che perdevano dei figli, dai parenti stretti o da particolari donne chiamate ‘attitadoras’. Attorno alle donne vestite di nero vi sono una serie di storie collegabili a riti di passaggio e antiche pratiche funerarie, nelle quali esse giocavano un ruolo fondamentale: nella preparazione del defunto, ad esempio, o nell’organizzazione della veglia funebre accompagnata per l’appunto da preghiere, dove esse intonavano ‘attitos’, lamenti, litanie e lodi attribuite alle ‘attitadoras’, delle vere professioniste del pianto. L’ombra, e la notte, metaforicamente parlando, la ritroviamo anche in “Tzònca”, col verso dell’assiolo, un rapace notturno che in Sardegna si sente cantare durante le notti estive, ma anche in “Animas” dove collateralmente si sviluppa anche la dimensione più intimista e spirituale, un brano questo che rappresenta l’estensione di “Ex-voto” del nostro primo album. In “Animas” abbiamo immaginato un luogo fisico estremamente spirituale, un pozzo sacro o un tempio nuragico o un bosco, location ideali per connettersi a entità per così dire superiori, su cui i nostri antenati ci hanno costruito un’intera cultura, come dimostrano i diversi siti archeologici tuttora visibili e visitabili e gli innumerevoli bronzetti nuragici e reperti archeologici rappresentanti Sacerdoti, Sacerdotesse, Dee Madri, Divinità e Demoni. Vorremmo precisare però che sebbene tutto ciò che creiamo parta dall’oscurità, da quel sottosuolo di ombre che hanno caratterizzato la nostra storia, vi è lo spazio anche per emergere sotto forma di luce attraverso i messaggi nascosti all’interno delle poesie e delle leggende, come ad esempio la filastrocca indirizzata al Sole in “Tzònca”, o in “Arbèschet”, che in sardo significa ‘albeggia’ e naturalmente ci indirizza verso l’alba, ma è anche attraverso i suoni stessi che si può percepire questo passaggio. I suoni partono da una dimensione cupa e oscura ma nell’essenza, essendo uno dei nostri obiettivi quello di preservare la cultura sarda, contengono tutti un messaggio di luce per le generazioni future, che magari non avranno accesso a tutta questa ricchezza a causa della frenesia dei tempi moderni. Si può dire che la nostra sia una musica duale a 360 gradi. Vita, morte. Terra, cielo. Astri, abissi. Per l’appunto le tematiche affrontate in “Jae” sono racchiuse in un non tempo e in non luogo all’interno dei quali possiamo ritrovarci tutti quanti, perché tutti infine affrontiamo gli stessi drammi e proviamo le stesse emozioni, in tempi e luoghi diversi, sotto forme diverse.
A cosa dobbiamo la scelta di sfruttare il canto a tenore nelle linee vocali di “Jae”? Personalmente mi sembra che il canto a tenore svolga una duplice funzione: oltre a recitare un testo è come se questa tecnica facesse della voce umana uno strumento musicale aggiuntivo. Sono molto lontano dalla verità?
In realtà no, hai percepito nell’insieme le varie peculiarità del canto a Tenore. Molto spesso abbiamo provato a capire le stesse esigenze che potevano avere gli uomini di allora all’origine del canto a Tenore, esigenze che possiamo immaginare o ipotizzare, come ad esempio perché utilizzare la voce in quel modo per esprimersi con tale potenza interiore, spingendosi oltre la voce umana.
Forse si trattava di un tentativo di connessione con le divinità? L’inserimento all’interno di “Jae” così come in tutta la nostra musica, nasce, come anche per gli altri strumenti arcaici, dalla ricerca di un immaginario sonoro che fosse ‘nostro’, identificativo e primordiale, che rispecchiasse i suoni che abbiamo ascoltato in Barbagia fin da bambini, e nel caso specifico del Canto a Tenore, che introducesse la componente umana, quindi la voce, come strumento di umano e divino. Altri popoli del mondo utilizzano tradizionalmente tecniche vocali simili o di ‘throat singing’ e in Sardegna abbiamo la fortuna di trovare una combinazione di tecniche vocali differenti: ‘Bassu’ e ‘Contra’ che cantano rispettivamente la fondamentale e la quinta dell’accordo e ‘Sa mesu boche’, altra voce del coro, che canta la decima. Questo per dire che la tradizione ci offre uno strumento unico in grado di armonizzare qualsiasi componimento, anche moderno, che arriva dal passato con caratteristiche sonorità primordiali e che non teme il confronto artistico attuale. Fin dall’antichità il canto a Tenore ha racchiuso in sé l’essenza di un popolo ed è stato il mezzo per soddisfare l’esigenza di esprimersi raccontando avvenimenti, storie, poesie, celebrando rituali e accompagnando le danze tradizionali, ricoprendo un ruolo comunitario che va ben oltre il semplice accordo di voci gutturali.
Parliamo di strumenti musicali ‘veri e propri’: quale strumentazione avete usato per arrivare al risultato finale? Preferite affidarvi a strumenti contemporanei, tradizionali o date il giusto peso a entrambe le ‘epoche’?
La scelta di utilizzare un suono piuttosto che un altro o di registrare un determinato strumento e in uno specifico modo deriva dal nostro approccio alla musica, basato principalmente sulla necessità del momento, sull’esigenza narrativa e sonora della composizione e sul messaggio che si vuole trasmettere. Naturalmente gli strumenti antichi comprendono gran parte dell’organico utilizzato, tra i principali possiamo citare ‘Tumbarinos’ (tamburi), ‘Tumborro’ (una sorta di contrabbasso arcaico monocorda che ha una vescica di maiale come cassa di risonanza), ‘Pipiolos’ (zufoli di canna), ‘Sonagias’ (campanacci sardi) e molti altri ancora che caratterizzano il nostro suono e che diversamente non sarebbe lo stesso altrimenti.
Si tratta di strumenti che costruiamo noi stessi, fatta eccezione per qualcuno come ‘su triangulu’ (triangolo), per il quale ci rechiamo dal fabbro del paese, o dei Campanacci che vengono prodotti oramai da pochissime famiglie artigiane di Tonara e che rappresentano un unicum a livello nazionale. Mio padre (Mauro) mi ha insegnato la tecnica di costruzione dei ‘Tumbarinos’ tradizionali di Gavoi; inizialmente ne ho realizzato diversi con lo scopo di crearne nuovi per ogni Carnevale Barbaricino che ripetiamo tradizionalmente ogni anno. E’ un momento importantissimo per noi, lo aspettiamo e lo viviamo come un rituale, quel momento in cui per davvero il tamburo dal mondo moderno apre le porte verso un mondo esoterico senza tempo. A furia di provarci e di vivere queste ricorrenze la nostra consapevolezza è cresciuta rispetto al patrimonio sonoro che avevamo a disposizione e abbiamo iniziato un percorso di inserimento nelle sonorità moderne e di ricerca timbrica, soprattutto legata al metodo di riprese e registrazione, che hanno dato vita a Ilienses, aspetti tutt’altro che facili per questi strumenti.
A quanto mi è dato sapere “Jae” non è il Vostro primo album: è possibile infatti ascoltare sulle varie piattaforme “Civitates Barbariae”, che se non sbaglio è stato pubblicato nel 2020. Potreste raccontarci qualcosa riguardo al Vostro esordio discografico?
In “Civitates Barbariae” troviamo dei punti di connessione con l’album “Jae” ed essendo il primo lavoro discografico autoprodotto si può dire rappresenti la matrice di ciò che siamo diventati oggi, musicalmente parlando. Anche lì le tematiche affrontate erano strettamente legate alla cultura sarda, alla lingua autoctona e alle sue varianti, alle poesie e storie di grandi poeti e scrittori sardi. Oltre questo con “Civitates Barbariae” abbiamo espresso sin da subito la volontà di sperimentare sui nostri strumenti tradizionali per farli dialogare con strumenti elettronici contemporanei e provare a inserirli nella musica moderna, come dicevamo prima. Operazione non facile, considerata la natura ‘selvatica’, passateci il termine, di questi strumenti per così dire ‘indomabili’. Dobbiamo dire che l’esperimento e i risultati ottenuti sono stati soddisfacenti, abbiamo avuto un buon riscontro di pubblico abbastanza variegato, nonostante all’interno non ci fosse proprio una direzione e un genere musicale ben definito. In quella fase della nostra crescita artistica, frutto di anni di ascolti di vario genere e di studio tecnico della musica, ci sentivamo di inserire all’interno tutte le nostre influenze musicali, non solo provenienti dal Folk e dalla tradizione, ma si possono anche ascoltare sonorità Jazz, Progressive, Metal, Tribal, Ambient. Nel tempo abbiamo intuito che la nostra inflessione era più tendente verso le sonorità ritualistiche e tribali dei nostri strumenti tradizionali, più verso il Neo Folk accentuando gli aspetti Dark del suono, il cui lato oscuro per l’appunto lo riteniamo preponderante nella nostra cultura. Da “Civitates Barbariae” a “Jae” vi è stata un’evoluzione naturale anche in questo.
In prima battuta l’ascolto di “Jae” può evocare in qualche modo i lavori di gruppi come Wardruna e Heilung, tanto per citare due tra i più conosciuti nomi della cosiddetta ‘scena Neo Folk’. Al di là dell’uso del Vostro dialetto cosa differenzia “Jae” dalle opere di questi artisti?
In primo luogo crediamo che questa scena musicale che possiamo chiamare Neo Folk, Dark Folk sia strettamente legata alla storia e alla cultura di popoli provenienti da diverse zone del mondo, perciò risulta interessante scoprirne le similitudini e le differenze, ciascuno con le proprie consapevolezze rispetto alle proprie radici e rispetto ai propri luoghi di origine. Perciò crediamo che le differenze che caratterizzano la nostra musica siano legate alla storia indubbiamente, ai contenuti che trattiamo, paralleli ma diversi, alla differente posizione geografica, al centro del Mediterraneo in un’isola esposta al sole e ai venti, e all’essere appartenenti alla terra dei Nuraghi. Il lavoro musicale dei sopraccitati Wardruna o Heilung crediamo sia unico e inimitabile soprattutto per l’appartenenza alla loro terra, oltre che per merito dei grandi musicisti che ne fanno parte. Non meno importante poi è l’aspetto legato all’organico strumentale, costituito da suoni, materiali, varianti costruttive con elementi in comune per certi versi ma dal timbro abbastanza riconoscibile in un connubio finale composto da lingua, poesie, suoni, culture e canti appartenenti a quella specifica zona del mondo, che all’interno della composizione sono eseguiti da musicisti che pensano, suonano e scrivono musica seguendo un’ispirazione dettata da tutte queste influenze nell’insieme. Ecco perché il suono Ilienses è peculiare e identitario del nostro luogo del mondo e differente dagli altri.
Curiosando nella Vostra pagina Facebook mi sono imbattuto in un paio di foto che Vi ritraggono negli studi della RAI Sardegna. Ci potete raccontare questa esperienza?
Sì esatto, siamo stati in RAI una volta in TV, per registrare una puntata di un programma ‘in limba’, Notas Noas, dedicato agli artisti sardi. In quell’occasione abbiamo parlato del nostro progetto e abbiamo eseguito in studio due brani. Si può trovare il programma e la puntata dedicata a noi su RaiPlay. Recentemente invece siamo stati su RAI RADIO 1 nel programma Girutundu per parlare dell’ultimo disco “Jae”, ugualmente disponibile su Rai Play Sound. Non è stata però l’unica esperienza visiva del 2024, poiché abbiamo anche registrato una puntata di una SERIE TV in sardo, In su corru ‘e sa furca, sempre col tema musicale, che si può trovare su YouTube, dove raccontiamo la nostra breve storia Ilienses.
Nel Vostro canale YouTube è possibile cliccare su alcuni filmati registrati durante le Vostre esibizioni dal vivo. Le Vostre fotografie ‘ufficiali’ Vi ritraggono sempre in coppia, però sembra che sul palco la formazione si trasformi in un quartetto. Chi sono gli altri due membri del gruppo? A onor del vero mi sembra di aver già intervistato il percussionista…si chiama per caso Ignazio?
Sì esatto, Ilienses nasce come duo, sia la parte artistica, concettuale e manageriale. Ma dal vivo suoniamo con altri due musicisti che eseguono diverse parti musicali. Uno è Ignazio Cuga di Kre’u, col quale vi è un rapporto sodale e uno scambio reciproco poiché suona il Tumbarinu e esegue parti corali in Ilienses, e per contro io (Mauro) suono il basso nei live di Kre’u. L’altro musicista è Gianfranco Delussu, che ugualmente suona Tumbarinu, ma anche il Tumborro e il Triangulu. Con loro, dopo tanto lavoro, abbiamo trovato la sintonia per i live che comunque richiedono un approccio giusto, non basta essere musicisti, ma nei live Ilienses forse è anche più importante il mood con cui ci si rapporta alla nostra musica. Occorre calarsi e immergersi nel nostro mondo immaginario e in qualche modo avere un orientamento teatrale. Molto spesso i contesti sono storici, naturalistici, dunque siti archeologici, chiese, luoghi abbandonati, boschi, parchi. Occorre sentirsi parte di questi luoghi mentre si suona.
Potete leggere l’intervista a Ignazio Cuga di Kre’u cliccando qui. Per la recensione del disco di debutto di Kre’u, invece, il collegamento è questo.
La promozione di “Jae” prevede un tour in giro per l’Italia? Ci sono speranze di potervi vedere dal vivo ‘nel continente’…che so, magari proprio nel mio Piemonte?
Beh sicuramente è nostro interesse portare sempre più la musica Ilienses in giro per il mondo. Dunque ci auguriamo di poter sovrastare il nostro mare in modo tale da connetterci maggiormente con i nostri ascoltatori ma anche con altri artisti che hanno la nostra stessa mission. In questo momento vi sono una serie di proposte interessanti fuori dalla Sardegna, tra cui anche il Piemonte, e stiamo lavorando per la costruzione di un piccolo tour. Nel 2024 abbiamo girato parecchio in Sardegna, ma per il 2025 contiamo di suonare maggiormente fuori dall’isola.
Ringrazio tutti i Lettori per essere arrivati fino a qui e approfitto dell’occasione per invitarli a cliccare sui collegamenti seguenti, in modo da approfondire la conoscenza della band. Come di consueto, oltre a ringraziare moltissimo gli Ilienses per la disponibilità, vorrei chiudere questa piacevole e interessantissima chiacchierata lasciando a loro l’ultima parola. Cari Ilienses, se volete inviare un saluto ai fan attuali e ai molti che lo diventeranno questo è il momento giusto. Avete carta bianca! Grazie e a presto!
Un grande saluto ai nostri fan, attuali e futuri (ci auguriamo) e a tutti i lettori di TrueMetal. Vorremmo salutarvi con un invito a riflettere sul significato della connessione, soprattutto in questo momento storico. La musica è di per sé un mezzo che può connettere varie culture e all’interno di una stessa cultura può connettere le persone. In questo caso attraverso i nostri suoni Ilienses crediamo che le persone nel mondo possano identificarsi e essere più consapevoli del loro valore storico, in quanto popoli che in passato sono rimasti uniti e connessi sulle proprie battaglie per la preservazione della terra e della propria cultura.
‘Torramus gràssias a True Metal e a totus sos chi nos sighint, ascurtande sa mùsica Ilienses.‘
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