Intervista Inno (Marco Mastrobuono, Elisabetta Marchetti)
Volti noti, ma band nuova di zecca. Attraverso le parole di Marco Mastrobuono (basso) ed Elisabetta Marchetti (voce), andiamo a conoscere gli Inno da Roma, forti della freschissima pubblicazione dell’album di debutto “The Rain Under” su Time To Kill Records.
Qual è il motivo che spinge musicisti impegnati su più fronti a mettersi in gioco in una nuova avventura, specialmente considerando l’attuale scena musicale davvero ingolfata di proposte?
Marco: Siamo musicisti e vuoi o non vuoi sappiamo fare solo questo, non metterci in discussione ogni giorno su qualcosa di stimolante sarebbe impossibile.
Purtroppo come dici tu è vero, la scena musicale è molto ingolfata e si fa sempre fatica a far arrivare a tutti la propria musica, ma bisogna anche capire con che presupposti si è fatto partire un progetto.
Fare musica per cavalcare una momentanea ondata e suonare il più possibile o semplicemente fare musica che si è sempre voluto suonare, sperando che venga apprezzata anche da altre persone.
Gli INNO di base nascono per questo, suonare con amici che si stimano reciprocamente per fare musica che non si è mai avuto modo di approfondire precedentemente. Se poi dovessero uscire grandi tour o altro ne saremo solo che felici.
Gli Inno nascono come “progetto” o sono una vera e propria band? E quali sono le vostre ambizioni?
Marco: Gli INNO nascono come una vera e propria band, non abbiamo lasciato nulla al caso e volevamo che tutto suonasse come era nella nostra mente, e vogliamo portare la nostra musica nel migliore dei contesti live.
Perché “INNO”? E’ semplicemente il termine italiano che definisce il canto di lode e gloria oppure c’è qualcosa di più dietro?
Elisabetta: La scelta di questo nome non è stata facile. Ne abbiamo discusso a lungo, poichè cercavamo non solo di trovare un concetto, ma anche di non andare ad incappare in qualche nome che risultasse già in uso da altre band, o peggio, che suonasse scontato. Il significato etimologico del termine esprime appieno il concetto che vorremmo trasmettere con la nostra musica, intesa in questo progetto, come un qualcosa di solenne e mistico
Parliamo di influenze: alle nostre orecchie, abbiamo sentito soprattutto i Katatonia di una decina di anni fa ibridati con i Lacuna Coil della prima parte della loro carriera. Il vostro punto di vista?
Elisabetta: Di sicuro i Katatonia sono in cima alla classifica delle band alle quali ci siamo ispirati. Personalmente la maggiore fonte di ispirazione per me sono stati i The Gathering con Anneke che ancora oggi seguo e della quale ammiro lo stile e la tecnica impeccabile.
Marco: Siamo fan di tutta la scena nord europea che ha sonorità che sfociano nel dark/gothic e sicuramente i Katatonia sono quelli che più hanno ispirato la stesura del disco.
Siamo tutti grandi fan dei Lacuna Coil e li ammiriamo tantissimo per quello che hanno creato nella scena musicale, sono stati tra i primi a esportare una realtà musicale italiana che non era mai stata presa in considerazione, ma se ti dicessi che ci siamo ispirati a loro stilisticamente sarebbe sicuramente una bugia. Purtroppo in Italia si ha sempre fretta di accostare a una band melodica con voce femminile ai Lacuna Coil, come una band con una ragazza che canta in growl agli Arch Enemy , ma ci sono realtà più o meno recenti che sicuramente ci hanno influenzato di più, come i Porcupine Three, i Threes of Eternity o i recenti Cellar Darling, che hanno fatto un eccellente primo disco.
Al momento non abbiamo ancora i testi sotto mano (il cd di chi scrive è in viaggio ndr), avete voglia di parlarci dei contenuti lirici di “The Rain Under”?
Elisabetta: Molti dei testi che ho proposto in questo disco sono stati scritti nel corso di parecchi anni ed ognuno di essi si riferisce a sogni, incubi e ricordi. Ho sempre sognato tantissimo e spesso i miei sogni erano delle vere e proprie “storie” che riassumevano il periodo che stavo vivendo. Verso i 15 anni ho iniziato a soffrire di paralisi notturne che mi lasciavano impaurita e sconvolta per giorni interi senza riuscire a liberarmi dalle immagini terribili che avevo visto e dalle sensazioni così reali da non capire se avessi davvero vissuto quegli incubi. Il titolo del disco, tramite un gioco di parole fra “Rain” e “Reign”, racconta del mondo dei sogni in cui realtà e immaginazione si fondono e danno vita a storie incredibili e spaventose (almeno nel mio caso!)
Il female fronted metal è oramai sempre più in voga. Ma negli ultimi tempi sono saliti agli onori della cronaca gruppi più orientati verso sonorità sinfoniche, folkeggianti o addirittura pop, mentre il vostro approccio è un po’ meno attuale, meno “vendibile” se vogliamo. Come vi ponete davanti a questa situazione e come siete arrivati a definire il vostro sound?
Marco: Personalmente l’idea del sound della band era principalmente quello di suonare quello che ci è sempre piaciuto, e venendo quasi tutti da realtà estremamente distanti da quello che poi sono diventati gli INNO più che vendibile, sinfonico, folk o altro doveva suonare “bello”. Per quello che ho visto nel corso degli anni cercare di lanciarsi in un trend sonoro del momento può sicuramente portare dei vantaggi immediati, definire un proprio sound e portarlo avanti cercando di farlo crescere insieme a chi ti ha saputo apprezzare da subito è qualcosa che definirei più artistico e appagante.
Tra l’altro, quasi tutti provenite da esperienze o band decisamente più “pesanti” a livello di sound. Gli Inno sono forse un modo per prendersi una “pausa” da certe sonorità?
Elisabetta: Esatto. Abbiamo deciso all’unanimità di dare spazio alle nostre influenze più ricercate per avere la possibilità di esprimere anche il nostro lato più “soft”, se così lo si può definire!
Marco: Assolutamente si, non riuscirei mai a immaginarmi per il resto della mia vita a suonare un solo genere musicale. Prendersi una pausa e “sfogare” un lato creativo totalmente differente aiuta anche a riguardare a mente lucida tutto quello che hai scritto prima.
Qual è il vostro punto di vista sulla scena romana che agli occhi di chi scrive sembra davvero interessante e brulicante di band, partendo da generi più alternativi fino ad arrivare alla scena brutal death metal
Marco: La scena romana è sempre stata molto ricca di band valide. Questo ha portato a grandi evoluzioni e band che si sono influenzate tra di loro anche appartenenti a generi molto diversi, tutto veramente molto bello e utile.
Il lato “negativo” è che forse purtroppo l’elevatissimo numero di concerti quasi praticamente ogni sera ha fatto si che molte persone dovessero scegliere dove andare, non tutti purtroppo possono permettersi di vedere concerti ogni sera, vuoi per motivi di tempo, distanze, o semplicemente economici, quindi suonare a Roma può essere bellissimo come suonare in un locale semivuoto.
Ho sempre ammirato la dedizione della scena Hardcore romana, che ha band veramente molto valide e tutti cercano di supportare al massimo ogni evento. Il death metal o comunque il metal in generale locale avrebbe veramente molto da imparare da quella realtà.
Avete registrato l’album presso i “vostri” Kick Recording Studio, ma per il mastering vi siete affidati a Jacob Hansen, forse al giorno d’oggi il migliore nel suo campo. E’ stato complicato riuscire ad ottenere questa collaborazione e quale è il vostro riscontro?
Marco: Ho collaborato con Jacob durante le registrazioni di “Veleno” dei Fleshgod Apocalypse, io mi sono occupato di tutto il tracking, editing e alcuni reamping e lui di mix e mastering. Durante tutto il processo siamo rimasti sempre in contatto e ci confrontavamo regolarmente su scelte e direzioni da prendere. Si è rivelato sin da subito una persona incredibilmente alla mano e allo stesso tempo professionale, e abbiamo continuato a sentirci anche a lavoro ultimato. Quando gli mandai il mix di “The Rain Under” era inizialmente più per un parere e per sapere se avesse qualche suggerimento, ma quando ci ha detto che sarebbe stato felice di occuparsi del mastering è stata veramente una notizia incredibile che ci ha reso molto felici. Sicuramente lavoreremo nuovamente insieme in futuro.
Quali sono i prossimi obiettivi o comunque i vostri prossimi passi a livello di esibizioni live o video?
Marco: Stiamo confermando delle date per Giugno in Italia e speriamo di confermarne molte altre dopo l’estate, purtroppo quando è uscito il disco quasi tutti i festival estivi erano ormai completamente pieni ma abbiamo già delle proposte per l’anno prossimo che riveleremo a tempo debito.
Stiamo lavorando anche su un altro video che dovrebbe essere pronto nei prossimi mesi.
A proposito di uscite video, complimenti per quello di “Pale Dead Sky”, veramente ben fatto. Ci ho trovato anche parecchio simbolismo, anche se di difficile interpretazione. Ci volete raccontare qualcosa su location, riprese e soprattutto sui suoi significati?
Elisabetta: Innanzi tutto grazie! Siamo davvero entusiasti del video e delle reazioni positive che ha suscitato! La location del video (la stessa dove sono state scattate le nostre foto) è la Caldara di Manziana, situata a poco meno di un’ora da Roma ed è un vero e proprio monumento naturalistico. Si tratta di un piccolo cratere di un antichissimo vulcano inattivo, dal quale fuoriescono acque sulfuree che rendono il paesaggio meravigliosamente tetro e desolato. Una perfetta location per il nostro video! Il pezzo “Pale Dead Sky”, descrive la tristezza più profonda e l’incapacità di liberarsi dal peso delle delusioni, dei lutti e della sofferenza. Grazie a Martina (e al suo fantastico team di Sandamovie) che ha saputo cogliere il significato e tradurlo in immagini oniriche meravigliose
A voi l’ultima parola per salutare i nostri lettori e magari per convincerli a dare una chance agli Inno ed un ascolto a “The Rain Under”.
Elisabetta: Salutiamo tutti coloro che ci stanno supportando sin dalla nascita di questo progetto e speriamo davvero che la nostra musica riesca a raccontare qualcosa in più di noi, e che ci venga data l’opportunità di essere ascoltati. Grazie a tutti!