Intervista Lili Refrain
Lili Refrain
Intervista a cura di Lisa Deiuri
In occasione della data di Trieste, inserita nell’ambito della rassegna ‘PROTAGONISTE’ promossa da Teatro Miela Bonawentura, della quale trovate a seguire il live report con le immagini di Andrea Stoppa, abbiamo incontrato Lili Refrain per una chiacchierata pre-concerto sul suo percorso artistico e i progetti futuri.
Ciao Lili, grazie per l’intervista. Ti seguo da tempo e già all’Alcatraz di Milano, dove hai aperto per gli Heilung, avevo apprezzato la tua grande capacità tecnica e la potenza scenica che ti contraddistingue, quindi stasera sono molto contenta di fare due chiacchiere con te. Com’è nata Lili Refrain?
Ho incominciato questo progetto nel 2007 e, inizialmente, è stato il mio tentativo sperimentale di documentare stati d’animo attraverso la musica. La chitarra è stata lo strumento che mi ha permesso di trasformare le mie paure, di viverle in maniera più amicale e meno spaventosa. Si è trattato, quindi, di una sorta di diario di bordo che mi ha portato a scrivere i primi due dischi (‘Lili Refrain‘ e ‘9‘ n.d.r.) dove praticamente c’è solo chitarra, e una voce ancora molto “timida”, embrionale.
I tuoi concerti in realtà sono performance, rituali. Cos’è che ti ha fatto scegliere questa modalità di espressione artistica, che accompagna l’ascoltatore in una dimensione, chiamiamola così, “spirituale”, o comunque molto diversa dal semplice presenziare a un concerto?
Ci sono arrivata tanto dopo. Nel 2012 mio padre, al quale sicuramente devo la mia passione per la musica, è venuto a mancare per un incidente e questo evento, insieme agli incontri che ho fatto nelle settimane successive, mi ha fatto prendere consapevolezza di quello che stavo facendo. Nonostante la difficoltà emotiva, sono partita per il mio primo tour europeo perché sapevo che mio padre sarebbe stato orgoglioso di me. Durante il tour sono successe molte cose; ad Amburgo ho incontrato una persona della quale non ho mai saputo il nome, ma che io definisco “lo stregone del Mali” (sorride): è stato davanti a me per tutto il concerto, poi è venuto al banchetto e mi ha parlato in francese. La cosa che mi ha scioccato è che mi ha detto: “So tutto del tuo 15 febbraio.” che è la data di morte di mio papà. Abbiamo continuato a parlare dell’inesistenza della morte e del ciclo della vita e, ad un certo punto, mi ha detto: “Tu non sai bene cosa stai facendo. Quando suoni quei campanelli chiami intorno a te un sacco di persone…”. Poi se n’è andato. Non so dirti cosa sia successo, ma so che quello è stato il momento scatenante di una prospettiva diversa su quello che stavo facendo. Ho pensato: se questo è l’ultimo rituale che ci è rimasto, che ci connette a qualcosa di atavico, ancestrale, ho la responsabilità di suonare per dare, per scambiare, per creare un contatto con gli altri. Non avevo ancora scritto ‘Kawax’, il mio terzo album.
In effetti, nei tuoi live c’è questo contatto costante con il pubblico: è come trovarsi all’interno di un cerchio magico. Nei primi album chitarra e loop dominano la scena mentre in ‘Mana’ sono la voce e le percussioni a sostenere tutto il discorso. Cosa ti ha portato a fare questa virata? Le tue non sono canzoni …
Grazie per dirlo (sorride)… Sì, sono dei brani. In realtà anche la ricerca vocale è stata graduale e frutto di una crescente consapevolezza. Lo strumento della voce, a mio parere, è il più difficile che abbiamo perché la voce cambia costantemente, non è come una chitarra che ha sei corde, lì metti le mani e, se lo strumento è accordato, suona. Certo, a seconda del tuo tocco, ma quelle sono le note. La voce cambia a seconda dell’umore, cambia con il clima, con il tuo stato fisico di quel momento, quindi ci vuole un controllo sull’emotività. Con la voce non puoi barare. Puoi avere tutte le tecniche che vuoi ma non puoi fare finta di provare una cosa che, in quel momento, non stai provando, altrimenti, alle persone non arriva. Inizialmente ero molto timida, mi sentivo quasi a nudo ad usare la voce. Ho dovuto affrontare la mia emotività con la voce, ho dovuto mettermi alla prova per sostenerla. Lei sostiene me, ma anche io devo sostenere lei. Ho dovuto trovare il punto di scambio, di equilibrio fra quello che sento e quello che esce. Diversamente, per me non ne vale la pena. Meglio fare solo brani strumentali.
E le percussioni?
Le percussioni sono arrivate molto dopo perché avevo necessità di un elemento “terreno”. Ho sempre usato la voce e la chitarra, quindi delle frequenze medio-alte, ma avevo bisogno di un suono che sostenesse l’altra gamma, che andasse verso la visceralità.
Una gamma di suoni, dunque, e, infatti, nella tua musica troviamo black metal, blues, folk, lirica… e tanta sperimentazione. Un sincretismo che, inevitabilmente, va oltre il genere. Dopo ‘Mana’ dove ti porterà questo viaggio?
Oh, questo non lo so ancora, però sicuramente voglio continuare a sperimentare, soprattutto sui synth, che ho usato prevalentemente per creare dei droni e, invece, mi piacerebbe cominciare a usarli anche dal punto di vista melodico. Poi, sicuramente, vorrei continuare ad usare le percussioni, magari in maniera sempre più articolata, e la voce. Non so se riprendere la chitarra perché con lei ho un rapporto bellissimo ma ad un certo punto ho sentito il bisogno di uscire dalla mia zona di comfort. Intanto, continuerò su questa linea di ricerca e poi vedremo, perché sto ascoltando tanta musica classica ed elettronica e, poi, mi piace il metal (sorride).
Ritornando alle tue esperienze degli ultimi anni e, in particolare, a quella fatta con gli Heilung, quanto è stato importante l’incontro con loro?
È stato fondamentale. Li ho incontrati a Copenhagen durante un tour e, a parte il fatto di non aver riconosciuto subito Maria e Christopher che mi si sono avvicinati dopo il live, banalmente perché li avevo sempre visti truccati (ride), ti dico solo che nel giro di qualche mese siamo partiti insieme. Non solo, mi hanno invitata nel loro studio perché su palchi giganteschi e in teatri non avrei avuto la possibilità di suonare con dei monitor. Quindi, dal punto di vista tecnico e professionale mi hanno fatto fare un salto in avanti, assemblando per me un rack in modo tale che io potessi gestire i miei suoni sul palco senza bisogno di avere un fonico con me. Insomma, loro che si definiscono “amplified history” hanno proprio fatto un “ampliefied Lili Refrain” (ride). È stato tutto perfetto, anche sotto l’aspetto umano, tanto che alcuni hanno detto: “è come vedere la nascita di un universo e lo sviluppo di una civiltà in esso”.
Farete qualcos’altro insieme?
Non lo so, però sicuramente ci incontreremo di nuovo. Indipendentemente dalla musica, sono persone che ti restano nel cuore. Mi hanno fatta crescere tantissimo.
In quella che viene definita musica “underground” molte sono le band italiane estremamente valide ma forse non ancora abbastanza apprezzate. In base alla tua esperienza, essendo un’artista italiana che ormai calca i palchi più importanti d’Europa, quale consiglio daresti?
Credici davvero tanto, ama quello che fai, quindi non parlo di una cosa solo per vendere o per avere i numeri ma di un progetto artistico che abbia un valore. Ti devi chiedere se è la cosa che ti appassiona di più, che metteresti comunque in cima a tutto quello che ti fa stare davvero bene nel mondo. Se è così, allora è la strada giusta. E, per una cosa simile, perché poi alla fine è una questione d’amore, si lotta e si fanno anche scelte difficili. Ti faccio un esempio: chi me lo fa fare di spaccarmi la schiena con ottanta chili di strumenti? Potevo suonare l’ukulele (ride)… Scherzi a parte, ci sono tanti opposti della medaglia, però il fine ultimo è sentirsi in equilibrio, perché senti che non sei da solo e il livello di connessione umana che si raggiunge durante un concerto è un’esperienza della quale tutti abbiamo un enorme bisogno.
Ecco, la passione in quello che si fa… quella che mi porterebbe a farti altre mille domande ma è tardi e manca poco al concerto, quindi: last question. Musica che hai ascoltato e che ascolti?
Da piccolissima, grazie a mio padre, Black Sabbath, Pink Floyd, Carlos Santana, ma anche canti di lotta popolare, quindi diciamo che la mia infarinatura è stata il rock. Poi i Beatles, mi ricordo che un brano che mi faceva veramente paura e che per me è stato determinante è “Revolution 9”, fondamentalmente un field recording con questo loop, appunto, “Number nine, number nine…” che mi ipnotizzava e dal quale non riuscivo a staccarmi. Da lì, quando ero una teenager, mi è venuto spontaneo ascoltare il metal: dai Metallica ai Pantera. All’epoca il mio gruppo preferito erano i Sepultura. Sono cresciuta con ‘Chaos A.D.‘, un disco del 1993 che mi ha cambiato la vita. È un disco molto percussivo, tribale. Poi, ancora, la musica classica: ‘La sagra della primavera‘ di Stravinskij, il barocco con Vivaldi, che secondo me è metal fatto con i violini; poi il minimalismo, perché mi piaceva questa idea della ripetizione dove piano, piano si aggiungono delle cose. Quindi: Steve Reich, György Ligeti. Senza quest’ultimo, non ci sarebbe stata Lili Refrain. Stavo per mollare tutto, e invece…
Attualmente, a proposito di sincretismo, dei gruppi che trovo enormemente interessanti sono: Tinariwen, tuareg che fanno blues mixato alla loro tradizione musicale; gli Huun-Huur-Tu, provenienti dalla repubblica di Tuva (Russia, n.d.r.) che hanno lavorato anche con i Cori Bulgari in un disco talmente emozionante che solo a pensarci mi viene la pelle d’oca. Poi ci sono i Duma, (Kenya-Uganda, n.d.r.) che fanno grindcore e noise ai quali mischiano quello che potrebbe essere un rito voodoo, e i coreani Jambinai. Il loro disco “Onda” è davvero bellissimo. Insomma, mi piacciono molto le band che uniscono le loro tradizioni musicali a generi più contemporanei.
Ti ringrazio tantissimo, è stata davvero una chiacchierata fantastica!
Grazie a te! E buon concerto!