Intervista Mark “Weissguy” Weiss
Pochi giorni fa, il 2 giugno, Mark Weiss ha pubblicato il suo primo libro, “The Decade That Rocked“.
Se il nome di Mark non vi suona familiare, basterà sfogliare rapidamente il libro, o anche solo guardare la copertina, per riconoscere immediatamente i suoi lavori. Il fotografo ha scattato foto di un po’ chiunque contasse, e non solo, nel Rock e nel Metal negli anni ’80.
Iron Maiden? Fatti. Judas Priest? Fatti. Metallica? Bon Jovi? Van Halen? Kiss? Fatti tutti.
Weiss ha fotografato la leggendaria copertina di “Stay Hungry” dei Twisted Sister, il concerto di reunion dei Black Sabbath nel 1985 al Live Aid e innumerevoli altri eventi storici della nostra musica preferita.
“The Decade That Rocked” raccoglie tantissime foto del fotografo insieme alle storie che ne raccontano i retroscena e non potevamo farci mancare un’intervista con questa leggenda, ecco quindi il risultato della nostra conversazione con Mark.
A fine pagina è possibile vedere la registrazione dell’intervista.
You can read the interview in English here.
Innanzitutto, il tuo nuovo libro, “The Decade That Rocked” uscirà martedì prossimo [2 giugno], un libro con tante fantastiche foto che hai scattato negli anni ’80 e alcune storie su queste foto e su di te. Per cominciare vorrei chiederti come mai hai deciso di scrivere questo libro ora, 30 anni dopo la fine degli anni ’80, e non magari cinque o dieci anni fa?
Sai, quando molti fotografi quando andavano in tour con le band quando erano al picco del loro successo, Van Halen, Mötley Crüe, hanno fatto lavori monotematici su di una sola band.
Anche io ho avuto queste opportunità, ma non volevo che il mio primo libro fosse così, poi sono passati gli anni, i decenni, e volevo che il mio primo libro raccontasse la mia storia, rappresentasse la mia storia.
Così ho aspettato!
Sapevo che sarebbe stato un grande traguardo e che avrebbe richiesto del tempo e un certo stato mentale, quindi non sono stato pronto fino a tipo sette anni fa, a dirla tutta.
All’inizio doveva essere un tipo diverso di libro con tante foto di gruppi con i capelloni, un libro facile, ma poi mi sono detto, “No, è troppo facile”. Mi sono messo alla prova e ho deciso di farlo diventare una storia con l’aiuto dei miei amici rockstar, così li abbiamo contattati tutti per sentire le loro storie; non ce ne sono poi così tante, pensavo che sarebbero state di più all’inizio, ma sono finite per essere piccole citazioni ai lati delle foto.
Partendo dall’inizio, hai cominciato a fotografare concerti portando dentro la macchina fotografica di nascosto quando avevi 14-15 anni. A 17 anni hai cominciato a lavorare con delle riviste, prima Circus e poi Spectrum, e a 19 hai cominciato a venire pagato per i tuoi lavori. Nel 1979 sei stato assunto per fare delle foto promozionali per il nuovo album di Peter Frampton; questa è la prima volta che fotografi un musicista al di fuori dal palco, come ti sei preparato? Voglio dire, da quello che racconti nel libro a parte un corso a scuola la tua conoscenza di fotografia era basata principalmente sull’esperienza sul campo, giusto?
Sai, io volevo fotografare concerti, conoscere gente, semplicemente mi piaceva essere intorno a tutta questa nuova gente, i miei nuovi amici.
Non pensavo che sarebbe diventata una carriera fino ai vent’anni; sono andato in college per fare contenti i miei genitori, ho provato quello facendo foto nel tempo libero finché non mi sono detto, “Sai cosa? Sto facendo soldi con la fotografia”, e così ho deciso di buttarmi completamente su questa attività e ogni volta che mi si è presentata un’opportunità con qualcuno mi ci sono lanciato, è una cosa che faccio ancora oggi.
Dico sempre, “Devi crearti le tue opportunità”, e sono stato fortunato perché le opportunità mi si sono presentate davanti senza che dovessi mai sforzarmi troppo, o così pensavo, ma in realtà sono io che mi sono creato l’opportunità quando mi sono fatto arrestare ad un concerto dei Kiss quando avevo 17 anni perché stavo vendendo le mie foto per un dollaro, le vendevo a scuola e sono diventato popolare, era divertente, mi ha portato tante attenzioni, anche delle ragazze a cui interessavo perché ero tranquillo, e poi sono stato arrestato a quel concerto.
Il giorno dopo presi le riviste che avevo da quando avevo 13 anni, Circus magazine, la più grande rivista Rock dell’epoca, guardai l’indirizzo all’interno, andai alla sede, bussai e mi fecero entrare.
La segretaria mi prese in simpatia e mi disse, “Rimani nei paraggi finché non torna il direttore artistico, oggi è di buon umore”, e così aspettai un paio d’ore finché non arrivò, gli strinsi la mano, gli feci vedere il mio portfolio e lui mi diede dei consigli, mi disse che tipo di pellicola usare, e io tornai in estate, forse sei mesi dopo, con delle foto di Ted Nugent e degli Aerosmith.
Avevano bisogno di foto perché le band non si facevano fotografare da molti fotografi e io portai di nuovo la mia macchina di nascosto; lasciai le foto nell’ufficio e due mesi dopo erano nel poster a metà della rivista, questo diede il via al tutto.
Il loro management lo vide, Steve Tyler vide la foto e gli piacque, quindi successe tutto in maniera organica.
Alcune pagine dopo parli di un servizio che facesti con Eric Bloom dei Blue Öyster Cult, e racconti che dopo il servizio andasti a parlare con il tour manager dei Black Sabbath per vedere se potevi fotografare anche loro. Questo è qualcosa di cui parli spesso nel libro, di come ogni volta che ne avevi la possibilità ne approfittassi per fare delle foto, magari del gruppo di supporto al concerto dove lavoravi, o di qualunque musicista ti capitasse. Stiamo parlando di foto improvvisate, non che ti erano state commissionate dalla rivista, cosa ne facevi poi? Le facevi sperando di venderle in un secondo a qualche rivista, le facevi per te o cosa…?
Sai, all’epoca stavano iniziando ad assegnarmi lavori per Circus Magazine, ma quel lavoro me lo passò Lynn Goldsmith, una fotografa che aveva un’agenzia e che mi stava aiutando ad avere un po’ più di accesso [alle band]; in quel caso lei non poteva, o voleva, fare quelle foto.
Eric Bloom, il cantante dei Blue Öyster Cult, voleva una foto di lui e la sua moto e penso che lei non potesse occuparsene quindi mi disse che questo lavoro sarebbe stato perfetto per me, quindi mi diede una mano facendolo fare a me. Io andai, regolai le mie luci – era una delle prime volte che mi portavo ad un concerto le luci da studio – le misi nel backstage, penso che fosse al Madison Square Garden a New York.
Black Sabbath erano lì perché era il Black and Blue Tour, e una volta finito il servizio con Eric, voleva una foto con la moto perché guidava l’Harley durante tutti i concerti, io ero una sorta di freelance, all’epoca lavoravo per Circus e mi lasciavano fotografare concerti, anche quando non mi richiedevano un concerto particolare mi lasciavano mandare foto e ricevevo un compenso, quindi ovviamente volevo fotografare i Black Sabbath, volevo provare anche se non avevo un accredito.
Così cercai il loro tour manager, mi presentai in maniera educata, gli dissi, “Sto facendo delle foto con Eric, ho tutta l’attrezzatura montata, le luci, posso fare qualche foto anche ai Sabbath?”.
Loro accettarono e furono molto gentili, Ronnie [James Dio] rimase indietro a chiacchierare; Ronnie era un personaggio davvero carino e alla mano, uno che ti faceva sentire importante. Era una figura paterna per tanti musicisti, e anche per me, o almeno come un fratello maggiore.
Dopo che la band se ne andò, Tony, Geezer e… chi era il batterista, Vinnie, no?
Se era il 1980, forse Bill?
No, era Vinnie, era Vinnie, sì.
Quindi, loro se ne andarono e Ronnie rimase indietro, “Sei sicuro di avere tutto quello che ti serve?” e ci mettemmo a chiacchierare e io gli dissi, “Be’, mi piacerebbe farti qualche foto”, e lui, “Certo, Mark!”, e questa è una pagina intera del libro.
Nel tour successivo cominciai a lavorare con loro, gli piacquero le mie foto; intanto lavoravo anche con altre riviste, US Magazine, una rivista più mainstream che stava cominciando a fare più Rock n’ Roll e io ero il loro uomo.
Questo mi diede più accesso e la band mi dava anche più tempo per lavorare con loro e così mi conobbero meglio.
Dopo di quel tour una cosa tirò l’altra, Dio cominciò la carriera solista nell’83, uno o due anni dopo, e io feci le foto per “Holy Diver”; negli anni e decenni successivi, anche quando fecero il tour di reunion per “Heaven and Hell”, mi chiesero di fare le foto per il disco, tutte quelle foto sono mie, e quello è stato l’ultimo servizio che fecero insieme.
Una cosa che mi ha sempre colpito è come sembra che ogni foto iconica dei grandi gruppi Rock e Metal degli anni ’80 sia stata scattata da te o da Ross Halfin. Come è stato possibile? C’erano semplicemente pochi fotografi che si occupassero di queste band, o eri proprio il migliore a creare un rapporto con le band e a riuscire ad ottenere il tipo di scatti che volevano?
Eravamo in tre, in realtà.
C’era Neil Zlozower sulla West Coast, io sulla East Coast e Ross in Inghilterra; avevamo tutti la nostra piccola nicchia, siamo tutti molto diversi, ma anche molto competitivi.
Ross scattava per Kerrang, aveva accesso alle band in questo modo, quindi è riuscito a connettere con molte band, e prima penso che lavorasse per Sounds.
La mia connessione era Circus quindi… sai, le band avevano bisogno di noi, loro erano le rockstar ma capivano l’importanza di darci accesso, quindi noi eravamo tra i pochi prescelti.
Ognuno di noi aveva i suoi metodi e ci davamo una mano l’un l’altro; io ero il più giovane, quindi sono arrivato un po’ dopo gli altri.
Neil è il più vecchio, poi penso che Ross abbia qualche anno più di me, poi ci sono io.
Ma, per rispondere alla tua domanda, c’erano un mucchio di fotografi Rock, o aspiranti tali, c’era gente che vedeva come tante riviste stessero nascendo e ne approfittava per farci qualche soldo e andare ai concerti, perché la maggior parte dei fotografi che trovavi nel pit erano fan, ma tutti cercavano di sbarcare il lunario in questo modo.
La maggior parte di loro non è sopravvissuta [come fotografi] agli anni ’80, io ho dovuto aggiustare un po’ il tiro ma non ho potuto contare unicamente sul fotografare musicisti Metal/Rock, ho fatto un sacco di cose diverse, ho persino fatto video, ho lavorato con tanti gruppi Rock classici negli anni ’90, ho lavorato con Christina Aguilera, ho fatto delle copertine di album per lei, Gwen Stefani, Lil’ Kim, cose del genere, ho lavorato con i Backstreet Boys, con Justin Timberlake, quindi ogni decade si è evoluta in quella successiva fino a oggi, 40 anni dopo.
Non ho mai mollato ma ho anche avuto periodi difficili, ci sono stati due o tre anni che non sono andati bene, ma ho insistito e poi ho cominciato a valorizzare il mio nome, a stampare foto per gallerie, e pian piano sono arrivato ad essere dove sono oggi.
Nel libro c’è una citazione di Nikki Sixx che dice, “Era uno dei ragazzi. Per questo gli è andata così bene con tanti artisti. […] Era uno di noi”. Cosa facevi per mescolarti così bene con loro, era il modo in cui parlavi, il tuo aspetto, o cosa?
Ripensandoci ora, sai, avevo i capelli più lunghi di molti di loro, ho ancora adesso i capelli lunghi, semplicemente mi piacciono così, io sono un prodotto degli anni ’70, quelli sono gli anni in cui sono cresciuto.
Venivamo tutti dagli stessi posti, a tutti piacevano le stesse band che piacevano a me, i Led Zeppelin, gli Aerosmith, Ted Nugent, questo genere di band.
C’era questa connessione perché avevamo interessi simili, ci piaceva a tutti fare festa, le ragazze, si sentivano a loro agio con me, eravamo tutti buoni amici.
Molte band, come i Mötley Crüe, grazie a me hanno avuto per la prima volta visibilità a livello nazionale su Oui Magazine, c’è una sezione del libro con ragazze mezze nude, sai, era una rivista per uomini, e ad un sacco di band questo piaceva e io ero la persona che faceva quelle foto, quindi mi prendevano in simpatia.
Ma, sai, o piaci o non piaci, a loro piaceva il modo in cui lavoravo con loro, non ero mai insistente, altri dei fotografi che hai nominato, Ross è un po’ più insistente, a Neil piace un po’ più fare casino, fare festa, ma alle band piacciamo per come siamo fatti, è come se le band avessero tre fidanzate, noi: se si sentono di avere in giro Ross stanno con lui, o se venivano nel mio territorio stavano con me, o con Neil nella West Coast. Non siamo mai stati… le band si assicuravamo che non fossimo mai lì insieme; ogni tanto la nostra strada si incrociava, ai concerti, ma i musicisti sapevano che tutti noi volevamo le nostre attenzioni.
Le rockstar sono notoriamente persone con cui spesso è difficile lavorare, come affrontavi questa cosa? Perché quando parli del servizio con Vince Neil e Ozzy scrivi che dicesti a Neil, “Porta uno smoking e non fare domande”, quindi un po’ simpaticamente brusco, mentre ovviamente c’è la storia di Danzing che si incazzò semplicemente perché lo toccasti durante un servizio fotografico, quindi immagino che un po’ dovessi adattare il modo in cui ti comportavi a seconda di con chi avevi a che fare.
La maggior parte degli artisti apprezza il mio senso dell’umorismo e che io faccia il cazzone, anche se è la prima volta che li incontro.
Con Danzig sono stato assunto per il packaging dell’album di ‘Mother’, come si chiama…? Solo “Danzig”, mi pare, il suo primo album solista, quello con sopra il teschio.
Quindi, avevano bisogno di scatti promozionali, avevano bisogno della foto per l’interno del vinile quindi l’etichetta mi assunse. Io non li avevo mai incontrati prima e loro non erano per niente amichevoli; volevano solo le foto, così dissi, “Va bene, mettiamoci al lavoro”, ma non si muovevano.
All’inizio li misi in posizione in modo che avessero l’aspetto giusto, erano in quattro, tutti di altezze diverse, Glenn era il più basso così lo misi davanti e scattai dal basso, un trucchetto di fotografia per giocare con la prospettiva; poi una volta in posizione dovevo lavorare sulla loro posa ma non mi davano niente.
O meglio, erano in posa ma avevano la testa inclinata un po’ indietro e io avevo bisogno che la spostassero avanti perché sennò gli veniva il doppio mento. Loro non mi ascoltavano, io continuavo a dire, “Inclinate la testa, inclinate la testa”, sai, se ti viene il doppio mento spostare la posizione della mascella aiuta.
Era come parlare ad un muro, così andai io a spostare fisicamente il primo: mi guardò male ma lasciò fare, intanto io scherzavo, normalmente con le band che conoscevo magari gli avrei fatto un po’ di solletico ma sapevo che con loro non mi sarei spinto a tanto; quando arrivai a Glenn, il terzo, lui fece, “Non mi toccare”, e io, “Va bene, amico”, e la finimmo lì.
Andai a fare le mie foto, gli dissi, “Va bene, abbiamo finito”.
Alla fine gli piacquero molto le foto, le usarono, ma lo scoprii il giorno dopo dall’etichetta; quando chiesi se erano piaciute mi risposero, “Le foto piacciono molto a tutti, ma cos’hai fatto per far incazzare Danzig?, e io, “Oh, forse perché gli ho spostato un po’ la spalla?”, e loro, “Non avresti dovuto toccarlo”… va bene.
Bon Jovi è un artista con cui hai molti trascorsi: l’hai fotografato quasi per sbaglio nel 1980 in una delle sue prime band, e sei finito a lavorare con lui sui suoi lavori più famosi, compresa la copertina di “Slippery When Wet”. Penso che una cosa molto interessante che menzioni nel libro sia come la prima volta che avete lavorato insieme lui ti disse che non ci credeva che stesse lavorando con te, facendo vedere come, nonostante nell’85 tu avessi appena 25 anni, eri già affermato e venire fotografato da te era quasi un segno che un musicista ce l’aveva fatta. Parlami del tuo rapporto con lui.
Quando l’ho fotografato che aveva 18 anni ero lì a fotografare Southside Johnny, lo stavo fotografando a lato del palco che beveva una birra mentre guardava Jon, non sapevo chi fosse ma Johnny mi disse, “Dovresti fotografare quel ragazzo”. Pensavo che stesse solo cercando di liberarsi di me, così gli dissi, “Va bene”, e scattai un rullino di foto, era la sua ultima canzone, e quelle foto finirono nel mio archivio fino a molti anni dopo, quando realizzai che avevo delle foto dei Rest [la band di Bon Jovi in questione], per tutti gli anni ’80 non avevo idea di chi fossero i Rest, oggi lo so, dieci anni fa l’ho scoperto mente mettevo insieme il libro.
Salta avanti di tre anni, è il 1983 e sono stato assunto dagli ZZ Top per fotografarli al Madison Square Garden e mentre ero nel photo pit vedo che il gruppo di supporto sono questi Bon Jovi che non ho mai sentito; in realtà avevo sentito qualcosa in radio, avevano appena vinto un concorso, credo si chiamasse WAPP, e scattai un paio di rullini, pensai che erano una buona band e scoprii qualcosa su di loro, conoscevo ‘Runaway’ che stava cominciando a diventare una hit, ma questo era quanto.
Avanti di altri due anni, stavo lavorando con i Mötley Crüe a Los Angeles e Doc McGhee mi fa, “Ho questa band sotto contratto, i Bon Jovi, vengono dalle tue parti”.
Effettivamente erano cresciuti dove ero cresciuto io, un paio di paesi più in là, erano qualche anno più giovani di me quindi non è che eravamo andati a scuola insieme o niente, ma venivamo dalle stesse zone, la costa del Jersey, avevamo un retroterra simile e quindi ci trovammo subito quando Doc mi assunse per fare le foto promozionali per “7800 Fahrenheit”.
Quella fu la prima volta in cui ci incontrammo, e lì fu quando mi disse che non ci credeva che stava lavorando con me e io gli risposi scherzando, “Un giorno mi dirai di toglierti questa macchina da davanti la faccia”.
Io lavoravo con Circus Magazine e loro volevano finire lì e in tutte le altre riviste, Faces, Hit Parader, qualunque altra rivista Rock ci fosse in giro. Questo fu l’inizio, poi esplosero parecchio in fretta, andarono a suonare al Farm Aid e Doc mi assunse per andare con loro, voleva che documentassi la cosa per farli entrare in quante più riviste possibili. Al Farm Aid tutti volevano essere fotografati con Jon, Kris Kristofferson, Willie Nelson, era una giovane star che stava sbocciando.
Poco dopo fecero “Slippery When Wet”.
A quel punto eravamo diventati amici, andavamo in giro insieme, andavo in tour con loro e scattavo foto per i poster e cose del genere, e così quando registrarono “Slippery When Wet’ mi vollero a Vancouver e avevano in mente un concept per “Wanted Dead Or Alive” che finì per venir realizzato in tre servizi fotografici diversi che diventarono “Slippery When Wet”.
Per quanto riguarda il nostro rapporto, io ero il suo fotografo, ero il suo fotografo fino a circa il ’96, “Keep The Faith”, quando si tagliarono i capelli; andai in tour in Sud America nel ’96, sei settimane con loro, e poi cambiò tutto.
Cominciarono a farsi fotografare da altri fotografi, non c’era molta richiesta di foto di Bon Jovi sulle riviste dove potevo farle pubblicare, e la cosa era che spesso, il più delle volte, non mi facevo pagare per i servizi fotografici, io li fotografavo e poi quando avevano bisogno delle foto glie le vendevo, loro pagavano per le mie spese, hotel e viaggi, ma non pagavano la mia tariffa giornaliera.
Facevo queste foto che sono di mia proprietà ancora oggi, e ogni volta che ne avevano bisogno per un poster o qualcosa del genere trovavamo un accordo; alla fine degli anni ’90 non era un accordo lucrativo per nessuno, perché loro avevano bisogno di solo una foto per la copertina del nuovo album e poi era finita, non avevano bisogno di foto nuove ogni due/tre settimane.
Negli anni ’80 non potevi mai avere abbastanza foto di chiunque fosse di successo in un certo momento.
Hai fotografato un numero incredibile di musicisti leggendari e sono sicuro che avresti un sacco di storie interessanti su di molti di loro, ma l’intervista durerebbe ore. Ce ne sono due però di cui ti voglio chiedere più specificamente dato che sono morti giovani e hanno assunto quest’aura leggendaria, e molti anni dopo ancora ispirano tanti. Il primo è Randy Rhoads il cui ritratto con le braccia incrociate che hai scattato è molto famoso. Com’era e com’è stato lavorare con lui?
Sì, quella foto è stata scattata al Capitol Theatre e mi sentii molto onorato quando la usarono su Rolling Stone per dare la notizia della sua morte.
Mi piace quella foto perché non ha la sua chitarra, è solo lui, sai.
Parlava in maniera molto tranquilla, ma onestamente non l’ho conosciuto molto bene, non abbiamo fatto molte foto insieme; avrei voluto conoscerlo meglio dopo tutto quello che ho sentito su di lui, ma io purtroppo non ho molto che posso dire, era molto umile e stava sulle sue.
Diventai buon amico di Kevin DuBrow che era il suo migliore amico e così sentii molte storie da Kevin, erano quasi fidanzati, erano come fratelli, quindi la maggior parte delle cose che so su Randy sono dalla prospettiva di Kevin.
L’altro di cui ti volevo chiedere è Cliff Burton che sei stato fortunato a conoscere dato che la prima volta che hai fotografato i Metallica è stato durante il tour di Master of Puppets, quindi poco prima della sua morte. Com’era Cliff?
Lui era un altro personaggio molto tranquillo e che stava sulle sue, ma era anche buffo.
Ozzy era in tour, e io finivo per conoscere chiunque Ozzy portasse con sé in tour dato che c’è solo un certo numero di foto di Ozzy che puoi scattare prima di annoiarti, prima che le foto comincino a diventare ripetitive, quindi se c’era una band di supporto usavo i momenti di pausa per fotografare loro, poi quando Ozzy saliva sul palco o mentre si preparava tornavo in “modalità Ozzy”.
I Metallica erano in tour così sono andato a presentarmi e gli ho detto, “Dato che siamo on the road insieme vorrei farvi delle foto, poi ve le farò vedere prima di mandarle alle riviste, ve le sottoporrò e poi le faremo pubblicare”, e così abbiamo sviluppato un rapporto.
Purtroppo Cliff morì nell’incidente di bus, e io fui chiamato dall’etichetta che mi chiese di fare delle foto promozionali a San Francisco dove [i Metallica] stavano provando con Jason, io dissi, “Alla grande!”, le prime foto di Jason con la band sul ponte di San Francisco, passammo un giorno insieme per fare quelle foto.
Parlavo prima di come sembra che tu abbia fotografato veramente tutti i musicisti più di successo di quegli anni, gli anni ’80, mi chiedevo se c’è qualche musicista che rimpiangi non essere riuscito a fotografare.
Non in quel decennio, penso di aver fotografato tutti.
Ovviamente se parliamo degli anni ’70 mi sarebbe piaciuto fotografare gli Stones e gli Zeppelin, un decennio prima ancora avrei voluto fare Jim Morrison, Janis Joplin, questi sono quelli più scontati, ma mi sarebbe piaciuto molto andare in tour con Led Zeppelin e con gli Stones, questi sono due che, sai, con tutto l’immaginario che gli gira intorno…
Questo sarebbe difficile per me che non le ho neanche scattate, ma hai una fotografia preferita tra tutte quelle che hai fatto negli anni?
Direi quella di Ozzy con il tutù rosa perché quella foto mi ha permesso di fare più foto del tipo che volevo io, con musicisti in costume, o in situazioni buffe, cose più creative, e Ozzy mi ha fornito l’occasione per far vedere alla gente quello di cui ero capace.
È stato un servizio divertente, Ozzy è stato grande e quella foto finì sulla copertina di Circus e divenne molto famosa, anche se non era stata pensata per la copertina, doveva solo essere una piccola foto in bianco e nero.
Feci tutto il servizio a colori e poi mandai le foto alla rivista e loro decisero di usare quella per la copertina e all’epoca Ozzy e Sharon non ne furono molto contenti, ma la cosa ebbe un effetto inaspettato, ottennero molta pubblicità e fu la scintilla che portò alla realizzazione di molti altri servizi simili, finimmo a fare delle foto davvero fuori di testa.
Siamo molto vicini ancora oggi con Ozzy.
Immagino che una cosa figa di questa storia sia che mostra l’effetto che può avere una semplice foto, perché senza quella foto magari Ozzy sarebbe rimasto il Principe dell’Oscurità per più tempo, forse fino ad oggi, senza far vedere mai questo lato buffo di lui che è diventato di dominio pubblico con la tua foto.
Sì, voglio dire, sarà sempre il Principe dell’Oscurità, ma una foto che c’è in mezzo al libro è lui vestito da coniglio pasquale.
Scattai quella foto per scherzo perché condividevo il mio studio con un fotografo commerciale ed il costume era in un angolo; quando Ozzy e Sharon entrarono in studio, iniziammo con delle foto normali di Ozzy, poi avevamo l’idea di fare delle altre foto di lui vestito da massaia.
Il costume pasquale era stato lasciato lì dall’altro fotografo e io non me n’ero neanche accorto, ma Ozzy lo vide e chiese, “Cos’è quello lì nell’angolo, Mark?”; io lo vidi per la prima volta e gli dissi, “Oh, ora devi indossarlo”.
C’era un set con dei fiori, c’era questo grosso costume da coniglio, così scattai le foto, lui saltellò in giro, ci facemmo quattro risate e poi misi le foto nel mio archivio dove rimasero per una ventina d’anni.
Un giorno le ritrovai e a Pasqua le mandai a Sharon e Ozzy dicendo, “Queste ve le ricordate?”.
Non volevo pubblicarle, il Principe dell’Oscurità vestito da coniglietto, ma quando glie le mandai le pubblicarono loro.
Così cominciai a pubblicarle anch’io ogni anno, lo fanno anche loro, ed è diventata una foto iconica.
Tu hai potuto iniziare la tua carriera come fotografo musicale perché c’erano riviste che volevano le tue foto, e solo in un secondo momento sei finito a lavorare direttamente con le band.
Quale pensi che sia il futuro del lavoro di fotografo musicale, non solo per te, in generale, oggi che le riviste di musica faticano a tirare avanti da un lato, e dall’altro ci sono forse più fotografi non professionisti che mai che finiscono per saturare il mercato dato che si può comprare una reflex a non molto ed imparare ad usarla con internet. Ed infine mi sembra che oggi molti siano contenti con le loro foto mediocri fatte col cellulare.
Quindi mi stai chiedendo cosa suggerirei ai fotografi?
Intendo, in generale, cosa pensi succederà dei fotografi musicali? È un mestiere che finirà per quasi sparire, dove pochissimi faranno le foto promozionali delle band e fine?
Probabilmente sì, ma chissà cosa succederà con le nuove tecnologie.
Oggi i fotografi non sono solo fotografi, devono anche fare video per i social media, conosco un fotografo che lavora al guardaroba di una band, devi fare cose diverse ed essere disponibile 24 ore su 24!
Io e i fotografi della mia epoca, andavamo, facevamo le nostre foto e poi aspettavamo di tornare a svilupparle, non dovevamo correre a passare ore a fare l’editing, perché questo è quello che succede oggi, ci vogliono ore, ci vuole più tempo ad editare le foto che a scattarle.
All’epoca scattavi e poi andavi a far festa con la band, mettevi le foto in una borsa e una o due settimane dopo tornavi dal tour e le sviluppavi.
Oggi se ti piace farlo, fallo. Quello che consiglierei e di crearsi un proprio brand, un proprio sito, mettere insieme le proprie foto, se si è bravi, e creare qualcosa di speciale online, perché le grosse aziende che devono fare pubblicità vanno su internet a cercare.
Se riesci a vivere della tua passione con la fotografia, il rock n’ roll, quello che è, crea qualcosa online, crea il tuo sito particolare, che sia un blog… ora tutti i siti si assomigliano, quindi cerca un’idea che sia speciale e diversa, potrebbe essere anche solo il nome.
Fai qualcosa dove sei te stesso e non lavori per nessuno, lavori solo per te stesso e quello ti farà felice.
Se tu sei felice probabilmente anche altre persone finiranno per trovarti perché si sentiranno allo stesso modo a riguardo.
All’inizio del libro dici, “Alla fine degli anni ’70 molta gente pensava che il rock n’ roll stesse morendo”, e dici che le grandi band di quella decade, gente come gli Zeppelin, gli Stones, gli Aerosmith stavano passando un periodo di transizione e questo permise a band come AC/DC e Van Halen di crescere. Stavo pensando che la stessa cosa successe il decennio successivo con band Grunge come Nirvana e Soundgarden, ma anche Pantera e altri, e il decennio dopo ancora con Linkin Park, Slipknot, System of a Down. Dopo di allora però non mi vengono più in mente nomi che sono diventati così grossi nel Rock e nel Metal, se penso a chi suona da headliner ai festival oggi siamo tornati a band vecchie come Metallica, Guns N’ Roses e Iron Maiden. Pensi che questa volta il rock n’ roll stia davvero morendo?
No, penso che sia il contrario!
Gli anni ’90 sono stati abbastanza difficile, poi nel 2000 tutto è cambiato, ci sono state band come i Linkin Park, musica un po’ più dura, e penso che negli ultimi anni sia molto cresciuto tutto grazie ad internet.
Ci sono un sacco di band mai sentite che suonano nelle arene, quindi sono in giro; purtroppo ora con questa situazione le band non possono guadagnare e crearsi una reputazione fino a che non si potrà tornare a suonare, ma bisognerà affrontare la cosa, cominciare a suonare nei piccoli club, crearsi un seguito anche grazie ad internet, e se fai della musica che piace ai ragazzi non hai bisogno di un’etichetta.
Una volta se l’etichetta ti scaricava eri finito, se non avevi un seguito di fan.
Grazie ad etichette, MTV e tutto il marketing che c’era dietro una band diventava grande molto rapidamente, questo è successo a molti gruppi che ho fotografato, e così ti creavi un seguito; ora molti musicisti che negli anni ’80 hanno iniziato una carriera solista esistono grazie a quel seguito, e da quel seguito possono crescere con nuovi ragazzi che li scoprono da altri ragazzi, dai loro genitori che li ascoltavano all’epoca, o grazie ad internet.
Molte band stanno meglio oggi di quanto stavano negli anni ’80; all’epoca erano grosse per due o tre anni e poi sparivano; ovviamente Bon Jovi, Mötley Crüe, Poison e una manciata di altre band, Metallica, Kiss¸ loro hanno sono riusciti a continuare mantenendo un buon livello di successo, ma molte band come White Lions, L.A. Guns e Winger, loro hanno dovuto costruirsi di nuovo un seguito, e ora sono tornati! A volte fanno solo crociere, come la crociera Monster of Rock, e così tengono i fan contenti e soddisfatti, magari poi fanno concerti nei fine settimana.
Non avranno le grandi case e barche che probabilmente si aspettavano negli anni ’80, ma non sono neanche alla canna del gas.
“The Decade That Rocked” è un libro di fotografia, ma ho trovato molto interessanti le cose che hai scritto, i retroscena di molte tue foto e di molte band che hai fotografato. Ovviamente sei stato costretto a scegliere su cosa concentrarti, ma nel libro possiamo vedere molte altre foto senza descrizioni – di gente come Anthrax e Slayer e Savatage, una band che amo molto, e altri ancora – che sono sicuro nascondono altre storie interessanti. Mi chiedevo se tu avessi già pensato di fare un secondo libro in futuro con altre foto e storie.
Sì, questo è il mio primo libro e ho imparato molto.
È venuto fuori esattamente come volevo alla fine, l’avevo progettato per essere lungo 600 pagine e doveva essere di solo 278, così l’abbiamo ritagliato fino a 400 e sono grato a Ensight Edition per aver esteso il limite ed avermi dato queste 120 pagine extra; hanno visto cosa avevo in mano e ci hanno creduto.
I libri sono storia e sento che le foto che ho scelto sono molto accurate nel raccontare una storia, anche se io non la racconto, chi le ha vissute la conosce.
Non dovevano esserci molte parole, quindi ho scelto solo le storie che sentivo essere più di un semplice servizio, perché molte effettivamente erano solo quello.
Molte band non sono neanche riuscito ad inserirle, per questo tutti i capitoli iniziano con tante piccole foto, quelle sono foto a cui avrei voluto dedicare pagine intere, erano pagine intere ma poi ho dovuto accorciare il libro, quindi ho dovuto inventarmi qualcosa e le ho messe come inizio capitolo.
Ogni capitolo ha una foto di me nel mio ufficio da qualche parte, una foto con la band, del pubblico perché amo le foto dei fan e delle folle, poi pass e laminati di quell’era che mi sembravano importanti, poi negativi ti altre band che non sono riuscito ad inserire nel capitolo.
Quindi mi sarebbe piaciuto avere qualche pagina in più, molte band non sono riuscito a farcele stare, ma quelle che ci sono sono speciali per me.
Per rispondere alla tua domanda, un altro libro, penso che il mio prossimo libro potrebbe essere forse… potrei chiamarlo “The Decade That Rocked – Black and White”, perché ci sono foto in questo libro in bianco e nero che sono speciali, ma quando ero on the road scattavo molte foto in bianco e nero perché era più economico, l’illuminazione era un po’ più semplice, e le band erano più rilassate.
Dicevo, “Queste sono solo foto in bianco e nero, non ci facciamo niente”, e loro mi lasciavano essere una mosca sul muro, che fossimo sul bus o nel backstage, era sempre questa macchina in bianco e nero, non quella grossa con il flash.
Quindi ho tutti questi negativi che non ho mai neanche guardato, ogni tanto ci do un’occhiata e penso che ci potrebbe venire un libro.
“The Decade That Rocked B/W” quindi sarebbe più on the road, mentre questo è un libro un po’ più tirato, foto in posa, copertine di album, quello sarebbe più grezzo, dritto al punto e in bianco e nero.
Sì, penso che per un appassionato di musica sarebbe molto interessante poter vedere questo tipo di foto spontanee da dietro le quinte.
Questa era la mia ultima domanda, grazie per la tua disponibilità, è stato un piacere parlare con te!