Joerg Deisinger (ex Bonfire)
A cura di Federico Mahmoud e Gloria Baldoni.
Ciao Joerg, finalmente riusciamo a fare una chiacchierata! Allora, come te la passi? Qualche giorno fa ti ho sentito molto eccitato per l’accoglienza ricevuta dal tuo libro…
Lo sono ancora! E’ una cosa incredibile! Sto ricevendo tantissimi commenti dalle prime persone a cui ho mandato “Fire and Fame” e sono tutti positivi, pensa che ero un po’ preoccupato di sentirmi dire che il libro fa schifo… Sai, in fondo non sono uno scrittore di professione, quindi un po’ d’ansia era normale, no? Invece per ora va tutto alla grande, ricevo richieste di interviste da molti magazine e tutti mi dicono che il libro è divertentissimo…
Ti andrebbe di presentare “Fire and Fame” ai nostri lettori, comprese le ragioni che ti hanno spinto a scriverlo?
Certo, anzi è una cosa che mi sta molto a cuore. Vorrei che fosse chiaro che non è una faccenda di soldi: non ho intenzione di guadagnare qualche spicciolo sfruttando il passato e presente successo dei Bonfire, facendo del becero gossip o rivelando gli scheletri nell’armadio della band. Se ho scritto questo libro l’ho fatto soltanto per me stesso dopo un’esperienza straordinaria che ho vissuto.. Posso raccontarla?
Ovvio, siamo qui per questo!
Dunque, nel 2004 mi trovavo nel sud della Thailandia, dove mi ero trasferito già da qualche tempo, e insieme a quella che allora era la mia ragazza, An, lavoravo come insegnante di inglese per bambini in una scuola locale. Per Natale io e An avevamo deciso di concederci una vacanza nell’isola di Phi Phi, la stessa dove è stato girato il film “The Beach” con Leonardo di Caprio. Era tutto stabilito e avevamo già prenotato il nostro bungalow per la settimana di Natale, ma una settimana prima di partire abbiamo cambiato programma. Devi sapere che un buon 90% della popolazione thailandese è buddista e quindi non festeggia il Natale, An invece è cattolica e mi propose di rimandare il nostro viaggio per organizzare una festa per i bambini della scuola, e così facemmo. Annullammo la prenotazione, pensando di partire il mese successivo, e festeggiammo il Natale con i bambini.
Il 26 dicembre ricevetti una telefonata da Sven, un mio amico. Era molto agitato, mi chiese circa quindici volte se stavo bene e io non capivo per quale motivo fosse tanto preoccupato: nel mio villaggio non arrivavano giornali nè televisione per cui ero praticamente tagliato fuori da tutto ciò che accadeva nel mondo. Comunque, rassicurai Sven sulla mia salute e su quella di An. “Ma come” chiese lui “non siete sull’isola di Phi Phi?”. Gli spiegai brevemente che avevamo cambiato programma ed eravamo rimasti nel nostro villaggio, e lui sollevatissimo mi raccontò dello tsunami e di tutte le persone rimaste uccise. “L’isola di Phi Phi è stata completamente sommersa e distrutta” concluse. Ero shockato: se non avessimo avuto la nostra scuola, se An non avesse fatto parte della minoranza cattolica della popolazione, se non avessimo rimandato il viaggio.. io sarei morto. E’ una sensazione che non riesco a descriverti e che mi ha fatto star male per giorni. Ma piano piano ho capito che da questa esperienza potevo e dovevo trarre una lezione importante: nella mia vita mi sono sempre preoccupato troppo del futuro e raramente mi sono goduto il presente come avrei voluto, ma in quel frangente capii che è un atteggiamento sciocco e sbagliato. Con questo non voglio certo dire che da quel momento in poi sono stato sconsiderato ed egoista o che non ho più pensato alle conseguenze delle mie azioni, diciamo che ho rivisto la mia attitudine verso la vita. Ho imparato a considerarla come un dono e a godere anche delle piccole cose positive che mi sono concesse ogni giorno invece di vivere proiettato esclusivamente nel futuro, in una continua aspettativa. Finita l’intervista con te andrò a fare jogging e magari mentre sono per strada vengo investito e ucciso da una macchina.. e allora che senso avrebbe avuto preoccuparmi eccessivamente di quello che succederà fra due mesi o un anno? Non voglio più vivere la mia vita in questo modo, e per celebrare questo cambiamento nella mia scala di valori ho deciso di pubblicare un libro sulla mia vita e su come ho realizzato il mio sogno di bambino: diventare una rockstar.
Nella stesura del libro ti sei avvalso della collaborazione del giornalista canadese Carl Begai. Qual è stato esattamente il suo contributo?
Ho deciso di coinvolgere un giornalista per due motivi: innanzitutto non sono così presuntuoso da pensare di poter scrivere un libro intero senza essere uno scrittore di professione, e poi l’inglese non è la mia lingua madre. Era necessario trovare qualcuno di madrelingua inglese ma con una buona conoscenza del tedesco, disposto a investire buona parte del suo tempo in questa follia; ho subito pensato a Carl. Come hai detto tu, Carl è canadese ma si trova spesso a Norimberga, la mia città, per lavoro. Infatti lavora per una webzine canadese che si occupa di heavy metal, e lui è una sorta di corrispondente dall’Europa. E’ proprio a Norimberga che ci siamo conosciuti circa dieci anni fa e nel tempo siamo diventati ottimi amici. Quando gli ho esposto per la prima volta il mio progetto ho capito dalla sua reazione che era proprio quello che ci voleva per me.
In che senso?
Vedi, quando una rockstar scrive un libro (senza fare nomi!) di solito il lavoro che c’è dietro è questo: il management ingaggia un giornalista che prepari un’intervista dettagliata alla rockstar in questione e poi stenda il libro utilizzando le risposte. Molto poco personale, non trovi? Nel mio caso invece prima ho scritto lo scheletro di “Fire and Fame” da solo, poi mi sono confrontato con Carl per sentire le sue critiche, i suoi suggerimenti su qualcosa che magari avevo tralasciato e sarebbe stato interessante raccontare e anche per mettere a posto l’inglese. Dopodichè sono volato a Sharm-el-Sheik con la stesura quasi definitiva, ho spento il telefono per non essere disturbato da nessuno e ho fatto un’ultima revisione. Nel gennaio del 2007 il libro era pronto.
Il libro è uscito però soltanto lo scorso luglio, come mai è passato tanto tempo?
Abbiamo avuto qualche problema tecnico: una persona si era offerta di pubblicare il libro con tutto ciò che questo comporta: trovare una tipografia, occuparsi della promozione e così via. Invece ci ha lasciati in mezzo a una strada proprio quando avevamo la stesura definitiva quindi, senza avere la minima esperienza, abbiamo dovuto organizzarci da soli e questo ha preso del tempo. Ma non mi piace parlare male delle persone, quindi per favore non chiedermi di fare dei nomi!
D’accordo, allora cominciamo a parlare dei contenuti di “Fire and Fame”. Poco fa mi ha detto che si tratta principalmente della narrazione di come sei riuscito a realizzare il tuo sogno di diventare una rockstar. Di solito un ragazzino imbraccia uno strumento spinto dal desiderio di emulare una band che l’ha particolarmente colpito. E’ stato così anche nel tuo caso?
Sì e no. Io ho cominciato a suonare da bambino senza aver mai sentito una rockband, sapevo solo che volevo suonare. Da adolescente ho scoperto il rock ed è stata una svolta importante: sai, a scuola ho sempre fatto molta fatica a stare al passo con gli altri, ma finalmente avevo trovato quello che volevo fare davvero nella mia vita. Quando poi il primo tour con Brian Johnson degli AC/DC ha toccato Norimberga ovviamente sono andato a vederli.. Non so descriverti la loro carica e l’atmosfera che hanno creato nel locale. Insomma, da lì in poi non ho avuto più alcun dubbio e ho cominciato a darmi da fare con le mie prime band. Ne ho cambiate diverse perchè molti musicisti si accontentano di strimpellare una volta alla settimana e rimanere dei dilettanti, io invece ero molto determinato a fare carriera.
Così nel 1984 sei entrato a far parte dei Bonfire, che all’epoca avevano ancora il monicker Cacumen. Ricordi la tua prima impressione sui ragazzi?
Conoscevo già bene la band perchè possedevo due dischi e li avevo anche visti dal vivo, ma non avevo mai parlato con nessuno di loro. Un giorno un amico comune mi disse che poco prima Hans Ziller, il chitarrista dei Cacumen, gli aveva confidato di essere in cerca di un nuovo bassista ma che la notizia non era ancora stata resa ufficiale. Credo di non avergli nemmeno permesso di finire la frase! Sono corso a casa, ho recuperato il numero di telefono della manager della band, Heidi, e con il cuore che batteva forte le ho telefonato. Dopo cinque minuti avevo un’audizione fissata per la settimana successiva. Avevo solo diciotto anni e questo era già un traguardo per me! Quando arrivai alla stazione di Ingolstadt fu Horst Maier-Thorn, l’altro chitarrista, a venirmi a prendere e a condurmi in sala prove. La prima cosa che pensai fu “Wow, questo tizio ha l’acconciatura più alta che abbia mai visto!”. In sala prove c’erano solo Hans e Claus Lessmann, il cantante, perchè al momento erano anche senza batterista (poi venne assunto Dominik Huelshorst). Entrambi mi sembrarono molto gentili e simpatici, specialmente Claus, e questo giudizio non è mai cambiato negli anni successivi. Non ci sono mai stati problemi personali tra noi, e quando ci sono stati non siamo rimasti insieme per forza solo per continuare a guadagnare dei soldi. Penso ad esempio a quando abbiamo dovuto allontanare Hans: la band non era più tanto importante per lui quanto lo era per tutti noi, era più concentrato sulla sua famiglia e questo inficiava la sua professionalità e il suo rendimento, così nonostante fosse uno dei fondatori dei Bonfire lo abbiamo licenziato, seppur a malincuore. I Bonfire non sono mai stati come i Mötley Crüe: so per certo che non si sopportano tra di loro, specialmente Nikki e Tom, però continuano a incidere dischi e andare in tour perchè hanno capito che hanno ancora mercato. Pensa che quando sono in tour viaggiano tutti e quattro separatamente! E avrei anche altri nomi…
Meno male che non ti piace sparlare delle persone!
Ahahahah hai ragione! Allora tacerò gli altri esempi, non sia mai che qualcuno mi denunci! Meglio passare alla prossima domanda..
Prima hai accennato a Dominik Huelshorst. Poco dopo l’uscita di “Don’t Touch the Light” fu licenziato, e qualcuno dice che il motivo fu la sua scarsa avvenenza.. Confermi?
Erano gli anni Ottanta e noi eravamo una hair band, quindi sarei un ipocrita se rispondessi che il look non era importante. Tutti noi dovevamo fare esercizio fisico costante e se necessario seguire una dieta: le regole dell’industria discografica erano queste, e se volevi fare successo dovevi adeguarti per forza. Quindi sì, allontanammo Dominik perchè non rientrava nell’immagine dei Bonfire, ma non solo per questo. Man mano che scrivevamo il nostro secondo full-length, “Fireworks”, ci era sempre più chiaro che quei pezzi richiedavano un batterista meno canonico e più potente. Per farti un esempio, uno come Tommy Aldridge sarebbe stato perfetto.
Invece avete ingaggiato Ken Mary…
Ken Mary ci fu suggerito da Michael Wagener, il nostro produttore. Oltre a “Fireworks”, in quel momento stava producendo anche “Raise Your Fist and Yell” di Alice Cooper, in cui Ken ha suonato la batteria. Michael ci aveva visto giusto: il lavoro di Ken su “Fireworks” è davvero perfetto, tant’è che gli proponemmo di entrare a far parte della band in pianta stabile. Ma solo una settimana prima di iniziare a lavorare con noi Ken aveva firmato un contratto con Gregg Giuffria ed era entrato negli House of Lords.. Che sfortuna.
“Fireworks” contiene anche una canzone, “Sweet Obsession”, che porta l’illustre firma di Joe Lynn Turner e che era stata pensata come un duetto tra Claus e lo stesso Joe. Come siete riusciti a farvi dare una canzone da lui?
Figurati, fu tutto organizzato dall’etichetta. Volevano un songwriter esterno e si accordarono con Joe. In verità desideraano che assorbissimo il modo di comporre degli americani, infatti in quel periodo venimmo in contatto con personaggi del calibro di Jack Ponti e Desmond Child. Purtroppo il duetto non fu possibile perchè contemporaneamente Joe stava lavorando con Malmsteen all’album “Odyssey”. Però so che l’ha utilizzata nel suo ultimo disco.
E a te piace?
E’ tutta un’altra cosa: altri anni, altri suoni.. Un paragone è impossibile.
Che diplomazia! Passiamo oltre: a soli ventidue anni hai avuto l’onore di dividere il palco nientemeno che con i Judas Priest. C’è un episodio che ricordi con particolare piacere?
I Judas Priest sono delle persone fantastiche, dei veri gentiluomini di stampo inglese, e il tour che abbiamo fatto insieme è stato uno dei periodi più belli della mia vita. Se proprio dovessi scegliere un momento particolare, direi sicuramente quella volta in cui i Priest dovevano fare il soundcheck e Ian Hill ancora non si vedeva. Dopo diverso tempo la band non poteva più aspettarlo così KK Downing venne da me e mi chiese: “Joerg, sai suonare qualche nostro pezzo?”. Risposi che me la cavavo con “The Green Manalishi” e lui fece: “Bene, allora vieni a suonarla!”. Mentre ero lì a provare con una delle mie band preferite mi tremavano le gambe ma al contempo ero gasatissimo! Quando Ian finalmente si è presentato e mi ha detto: “Joerg, grazie per aver aiutato la band” la mia risposta è stata semplicemente: “Grazie a te per essere arrivato in ritardo!”. Ci siamo divertiti anche durante l’ultima data: non so se sai che quando due band vanno in tour insieme è consuetudine che nell’ultima data si scambino degli scherzi mentre sono sul palco. Tutto è concesso a patto che ognuno possa continuare a suonare e che nessuno si faccia male. Bene, mentre i Judas Priest erano sul palco noi abbiamo fatto irruzione vestiti di tutto punto con i tipici indumenti bavaresi, e la cosa più divertente è stata che per un bel po’ nessuno di loro si è accorto di niente!
Ho letto nel tuo libro che i veri problemi della band, a parte il licenziamento di Hans, sono iniziati con la pubblicazione di “Knock Out”, che non ha riscosso il successo che forse vi aspettavate. E curiosamente fai i nomi di due band che ritieni responsabili per questo: Guns’n’Roses e Nirvana.
Infatti. I Nirvana sono stati il male generale, i Guns’n’Roses il male particolare. Sappiamo tutti che l’uscita di “Nevermind” ha innescato una reazione a catena di proporzioni enormi: MTV ha cominciato a trasmettere solo video di gruppi grunge, quasi tutte le hair band sono state scaricate dalle etichette senza tanti complimenti e così via. E’ stato un momento cruciale nella storia del rock, ha sovvertito ogni ordine, quindi era inevitabile che anche i Bonfire ne risentissero. Come se tutto questo non bastasse, noi e i Guns’n’Roses eravamo sotto la stessa etichetta, la BMG. Indovina quale album tra “Knock Out” e i due “Use Your Illusion” è stato promosso di più dalla casa discografica? Pensa che li hanno pubblicati lo stesso giorno!
Se però vogliamo proprio dirla tutta, in quel disco lo stile dei Bonfire è cambiato parecchio, e non pochi lo considerano uno tra i peggiori album della band.. Ti confesso che non l’ho mai ritenuto così malvagio, tu che ne diresti dopo quasi vent’anni?
Io credo che il problema di “Knock Out” sia la produzione. Abbiamo ingaggiato una persona che sicuramente era un professionista, ma non aveva ben chiaro che cosa fossero i Bonfire: infatti è tutto troppo grezzo, le chitarre troppo distanti dal suono che ci aveva sempre contraddistinti.. una vergogna. Se tu sentissi le versioni demo delle canzoni, diresti che si tratta di un incrocio tra “Point Blank” e “Fireworks”, quindi tutt’altra cosa dal prodotto finale.
Tirando le somme, hai qualche rimpianto riguardo alla tua esperienza con i Bonfire?
Uno solo: non dovevamo licenziare Hans. Non era uno qualsiasi, era il fondatore della band e quindi era ovvio che senza di lui saremmo stati fregati, infatti è esattamente quello che è successo. Non sto dicendo che col senno di poi ho capito che lui aveva ragione e noi torto, semplicemente se potessi tornare indietro lo prenderei da una parte e proverei a parlare con lui per vedere di superare il problema. Ma sai, un po’ per la nostra giovane età e un po’ per le pressioni dell’etichetta non siamo riusciti a discutere civilmente dei nostri problemi e a trovare una soluzione. Anche perchè poi la vicenda avuto degli strascichi poco piacevoli, sono anche stati messi in mezzo gli avvocati.. C’è stata molta tensione.
E ora come sono i vostri rapporti?
Hans e Claus hanno comprato da me, Angel ed Edgar i diritti sul monicker Bonfire e hanno ricominciato da capo. Non c’è niente da dire se non che si tratta di un’altra band, e che sono felice per loro sapendo che hanno ancora un discreto successo. Non siamo bambini dell’asilo quindi ci parliamo tranquillamente, d’altronde almeno con Claus non ho mai avuto alcun problema quindi non avrebbe senso tenere il muso. Recentemente mi hanno anche mandato il loro ultimo disco e ho saputo che suonano addirittura nel teatro principale di Ingolstadt.. Sì, sono molto felice per loro. Però ti ripeto, i Bonfire eravamo tutti noi e quindi questa è un’altra band.
Accantoniamo il discorso Bonfire. Dopo di loro hai suonato in altri gruppi, tra cui Sabu e Soul Doctor. Cosa puoi raccontarci di queste esperienze?
Beh, già nel 1993 era abbastanza chiaro che il destino dei Bonfire era segnato. In quell’anno ho conosciuto Paul Sabu, siamo diventati amici e abbiamo scritto un paio di canzoni. Qualche tempo più avanti, quando ero ufficialmente senza una band, ci siamo incontrati di nuovo e abbiamo pensato di metterne su una tutta nostra perchè vedi, per me era impensabile stare senza suonare. Con i Sabu ho inciso due dischi che hanno riscosso un successo inaspettato in Giappone, tuttavia dopo un po’ la cosa è diventata frustrante perchè io volevo suonare dal vivo ma ero l’unico a sentire questa esigenza, così me ne sono andato, il che è coinciso con la fine dei Sabu. Sempre nel 1993 avevo stretto amicizia con Tommy Heart dei Fair Warning, che già allora non era affatto contento di far parte di una band osannata in Giappone e snobbata in Europa. Perciò dopo aver abbandonato i Sabu mi sono messo in contatto con lui e così sono nati i Soul Doctor. Anche in questo caso ho dovuto mollare dopo due dischi, perchè io e Tommy abbiamo opinioni diametralmente opposte riguardo al music business.
Che vuoi dire?
Parlo della gestione della band e soprattutto dei soldi da investirci, ecco tutto. Ma preferisco non andare oltre, sono cose personali e non credo che a Tommy farebbe piacere sapere che le ho rivelate in pubblico. Ti dispiace?
Nessun problema. Piuttosto, ho letto in una tua intervista di qualche anno fa che avevi in mente di pubblicare un disco solista. Che ne è stato di quel progetto? E se dovessi realizzarlo, chi vorresti che ci suonasse?
Effettivamente avevo avuto quest’idea.. Sai, è impossibile abbandonare del tutto la musica. Avrei anche una quindicina di canzoni pronte, ma ci ho rinunciato. Il mercato discografico non è più quello di una volta e ha delle nuove regole che a me non vanno per niente giù. Ma mai dire mai! Per rispondere all’altra tua domanda, non ho mai pensato a quali musicisti coinvolgere. Alla batteria vorrei sicuramente Zacky, mio compagno nei Soul Doctor, ma per il resto non saprei proprio.
Tu ce l’hai fatta negli anni Ottanta; da allora molte cose sono cambiate e chi vuole sfondare nel mondo della musica ha molte più possibilità di farsi conoscere. Pensa alla diffusione del file sharing o a una vetrina come MySpace: secondo te questi strumenti agevolano davvero le band sconosciute?
Tutt’altro, direi anzi che adesso è molto più difficile farsi strada. Certo, chiunque può mettere i propri brani su MySpace, ma in questo modo in rete ci sono talmente tante band che a uno passa la voglia di ascoltarle tutte e la concorrenza è molto più agguerrita. Peggio ancora sono gli mp3 e il file sharing gratuito: quasi nessuno compra più i dischi perchè possono averli gratis e in numero molto maggiore, col risultato che molti hanno l’hard disk pieno ma ascoltano il 10% dei dischi che si sono scaricati. Una volta i ragazzi risparmiavano per settimane per comprarsi il nuovo album del loro artista preferito e conoscevano ogni singola nota dei dischi in loro possesso: questa è per me cultura musicale. Senza contare che con il crollo delle vendite dei dischi le etichette non se la sentono più di investire su nuove leve con tutti i rischi che questo comporta, perciò non ti danno più niente finchè non porti a casa i risultati. Quando ti dicevo che le regole del mercato discografico sono cambiate intendevo proprio questo, e per quanto mi riguarda è un’assurdità. L’unico consiglio che posso dare a chi veramente insegue il sogno di diventare una rockstar è di non mollare mai e poi mai, nemmeno quando tutti intorno non fanno altro che dire “non ce la farai, torna con i piedi per terra”, perchè quelle sono le stesse persone che quando diventi qualcuno vanno in giro a pavoneggiarsi di aver sempre creduto in te. Parlo per esperienza personale perchè anche mio padre si è comportato in questo modo con me: essendo lui stesso un musicista e non avendo mai avuto successo, mi ha sempre ostacolato in ogni modo, salvo poi vantarsi con gli amici del successo che ho ottenuto qualche anno dopo. Per fortuna sono tra quelli che credono fermamente che se vuoi qualcosa con tutte le tue forze prima o poi la otterrai, per cui non ho mai prestato attenzione alle critiche e ho continuato per la mia strada. E come vedi questo atteggiamento paga!
Bene, Joerg, questa era la mia ultima domanda. Grazie mille per avermi dedicato tanto del tuo tempo ed essere stato così esauriente e disponibile. Prima di lasciarci, c’è qualcos’altro che vorresti aggiungere?
Innanzitutto grazie a te e a TrueMetal.it per avermi dato la possibilità di parlare di “Fire and Fame”, in cui credo moltissimo. Se a qualcuno dei tuoi lettori fosse venuta la curiosità di leggere la mia fatica letteraria, possono contattarmi tramite il mio sito, www.fireandfame.com, o il mio MySpace, www.myspace.com/joergdeisinger. La cosa davvero importante per me è che poi mi lascino le loro impressioni, i loro commenti, e perchè no? anche le loro critiche!