Live Report: Amon Amarth+Machine Head+The Halo Effect @Fabrique, Milano – 4/10/2022
In un mese di Ottobre mai così congestionato di appuntamenti dal vivo, è la volta di un vero e proprio scontro tra titani, un’accoppiata anomala in quel di Milano: al Fabrique è di scena la data italiana del “Vikings & Lionhearts Tour”, che vede la partecipazione come co-headliner di Machine Head e Amon Amarth, due mondi che alla fine si riveleranno solo formalmente agli antipodi. Ad aprire quella che si presenta come una serata infuocata, gli svedesi The Halo Effect, alle loro prime apparizioni dal vivo, perlomeno in questa formazione.
THE HALO EFFECT
Dopo una lunga intro (forse un po’ troppo per una band di apertura) e contornati da luci verdi, salgono sul palco i The Halo Effect da Gothenburg. Questa volta non si tratta della giovane band che deve fare gavetta, ma nientepopodimeno che di Niclas Engelin (chitarra, ex Gardenian e In Flames, tra le varie cose), Peter Iwers (basso, anche lui ex In Flames), Daniel Svensson (batteria, idem con patate, ex In Flames), Mikael Stanne (nemmeno a ricordarlo, dei Dark Tranquillity) e al posto del celebre Jesper Strömblad (ex In Flames come i precedenti e di altre mille band, sostanzialmente uno dei padri putativi del Gothenburg sound) troviamo Patrick Jensen (ex The Haunted). In sostanza, 5 vecchi amici (dirà il frontman che si tratta di un’amicizia nata a 14 anni) che hanno preso a suonare insieme non tanto per reinventare il genere, ma per il gusto di ritrovarsi strumenti alla mano e riproporre sonorità che, in qualche modo, hanno inventato, lontano dalle loro band precedenti/principali. In effetti, fa un certo effetto vedere questi ultraquarantenni in apertura di serata, specialmente Stanne, abituato a ben altri “orari”, ma i nostri sembrano infischiarsene altamente e, sorridenti, propongono i pezzi del loro esordio “Days Of The Lost”. L’accoglienza è certamente buona, quasi di lusso per un’opener che è di lusso, come a rispettare chi, al di là del momento e delle mode, testimonia un vero amore per il melodic death metal. I pezzi non sono affatto male, come da canoni del genere, orecchiabili e dotati di un buon tiro, eppure…Eppure è difficile non chiedersi il perché di tutto questo, quando è sufficiente prendere le cose migliori degli ultimi Dark Tranquillity – per fare un nome a caso – per trovare cose simili se non più convincenti. Chi vivrà, vedrà.
The Halo Effect setlist:
Days of the Lost
The Needless End
Gateways
Feel What I Believe
Last of Our Kind
Conditional
Shadowminds
MACHINE HEAD
Passano gli anni, ma i Machine Head riescono a sfoderare la stessa intensità di un tempo, sempre, come se si trattasse dell’ultimo concerto della loro carriera. Si inizia con una “fast one” (cit.), “Become The Firestorm”, tratta dall’ultimo, recente album “Of Kingdom And Crown” e subito la situazione appare chiara: si tratterà di un’ora e mezza di sudore, birra, passione e ferocia, con il solito Robb Flynn a farla da protagonista, tra un proclama e l’altro, tra un incitamento alla folla e un lancio di bicchieri mezzi pieni verso il pubblico. “Imperium” e “Ten Ton Hammer” sono due pezzi da 90, ma tanto il pubblico è già conquistato, come sempre del resto ai concerti dei Machine Head: una sorta di rituale, dove tutto il pubblico è partecipe e membro attivo della cerimonia, come se fosse parte stessa della band, con pezzi perfetti per la rappresentazione dal vivo, tra accelerazioni e break costanti, refrain cantabili e strofe da urlare a squarciagola. Da dire, oltretutto, che la band di Oakland (sia benedetta quella Baia, per inciso!) è – assieme a Slayer, Death Angel, Hatebreed – uno di quei gruppi che dal vivo riesce a riprodurre quella “botta” che pochi altri possono vantare e che dona alla performance un vigore ancora maggiore che su album. Non c’è nessuna tregua, il pogo com’era lecito attendersi è feroce e l’intro di “I Am Hell” concede solo una piccola pausa prima che il circle-pit continuamente incitato da Robb Flynn riprenda. Prima di “Darkness Within” il discorso introduttivo del cantante è molto significativo e sottolinea il profondo legame esistente tra musica e forza interiore, con l’ammissione che in ogni momento difficile della sua vita è stato proprio il potere delle sette note a sostenerlo e risollevarlo. La band sembra in palla, specialmente Jared MacEachern al basso, ormai dal 2014 in pianta stabile nella band e diventato il fiero scudiero del frontman. Anche lui “vive” i pezzi al 100%, accompagnando alla voce e sfoderando una grande presenza scenica. Meno coinvolti e forse ancora un po’ anonimi, invece, i nuovi innesti Wacław “Vogg” Kiełtyka dai Decapitated alla chitarra e Matt Alston, tecnicamente impeccabili ma ancora limitati nello stretto ruolo di semplici musicisti. Certo che cavalli di razza come Phil Demmel e Dave McClain non si trovano dietro l’angolo e un personaggio come il frontman, istrionico, guascone e vero trascinatore, cattura completamente la scena, tra scambi irripetibili con il pubblico e veri e propri lanci di birra in stile football americano. Ci si avvia verso la fine, “From This Day”, seppur provenga da un album e da un periodo bistrattato dai più, fa la sua bella figura dal vivo e “Davidian” è un pezzo che non ha nemmno bisogno di essere raccontato. Con grande facilità, i Machine Head portano a casa il risultato, conquistando gli astanti con un mix di energia e passione.
Machine Head setlist:
BECØME THE FIRESTØRM
Imperium
Ten Ton Hammer
I Am Hell (Sonata in C#)
CHØKE ØN THE ASHES ØF YØUR HATE
Darkness Within
Now We Die
From This Day
Davidian
Encore:
Halo
AMON AMARTH
Se lo show dei Machine Head si rivela un rito pagano dove tutti, dai musicisti sul palco fino all’ultimo fan in fondo alla sala, si sono riuniti in un’unica forza distruttrice, lo show degli Amon Amarth ha invece tutti i crismi dello spettacolo all’insegna del puro entertainment, con le opportune esagerazioni, kitsch quanto basta, ma dannatamente divertenti. Johan Hegg oramai si avvia alla cinquantina e l’evidente incanutimento – barba compresa – gli conferisce un’aura da vecchio saggio vichingo (no, che nessuno pensi a Babbo Natale, per carità!). La prima cosa che si nota è certamente una scenografia importante, con muraglie, scalini e un immensa e cornuta maschera vichinga che occupa quasi tutto il palco e che fa da piedistallo alla batteria.Almeno un Tir sarà stato utilizzato per trasportare il tutto in giro per l’Europa. Ma non è tutto, come è risaputo, gli show degli Amon Amarth sono vere e proprie rappresentazioni, dove non si lesina su figuranti, attori, maschere e pupazzi vari. Già durante “Deceiver Of The Gods” è proprio Loki in persona (o quasi) ad entrare in scena con fare minaccioso verso pubblico e musicisti in scena. Gli Svedesi, al di là delle trovate, aggrediscono il pubblico con un filotto di tracce davvero trascinanti, che trovano il loro climax in “The Pursuit Of Vikings”, sicuramente uno dei pezzi che dal vivo meglio si presta ad esaltare i fan con il suo incedere bellicoso e il tema principale così facilmente memorizzabile. Arriva quindi il momento di omaggiare il nuovo album “The Great Heathen Army”, proponendone proprio la title-track. Ed è l’occasione per affermare che, se su disco nelle ultime uscite i nostri non hanno particolarmente convinto, con album sufficienti o poco più, ma comunque lontani dai fasti del passato, dal vivo hanno ancora parecchie frecce al loro arco (non che i Vichinghi prediligessero questo tipo di arma!), tanto che probabilmente potrebbero coinvolgere attivamente anche chi non li conosce o li apprezza particolarmente. Basti pensare a quello che succede durante “Put Your Back Into The Oar”, con tutto il pit che per un attimo abbassa le corna costantemente alzate al cielo, si siede per terra e mima una ciurma nordica nel pieno di una immaginaria voga. Anche nel caso degli Amon Amarth è il frontman a farla da padrone, mentre gli statuari compagni sembrano dei fieri argonath al suo fianco. I suoni sembrano tutt’altro che perfetti (leitmotiv della serata, tra l’altro) e pazienza, di certo una splendida “Cry Of The Black Birds” non può non catturare tutti. Si procede tra canzoni e vere e proprie rievocazioni in costume: la corale “The Way Of Vikings” fa da colonna sonora ad un combattimento all’ultimo sangue tra due guerrieri e altrettanti aizzano il pubblico durante “Shield Wall”. In chiusura, in apertura di “Raise Your Horns”, ovviamente c’è l’occasione per brindare, corni alla mano, con gli astanti. Solita, breve uscita di scena e per l’encore finale viene scelta la splendida “Twilight Of The Thunder God” dall’omonimo album e questa volta è Johan stesso a impersonare il dio Thor, prendendo letteralmente a martellate un gigantesco Jörmungandr gonfiabile.
Tutto l’immaginario norreno viene in parte banalizzato, è vero: di certo non stiamo assistendo ad uno show dei Wardruna con i suoi evidenti riferimenti alla cultura nordica. C’è quindi intensità, ma una forte dose di ignoranza nel concerto degli Amon Amarth e forse va bene così.
Dopo la buona prova dei The Halo Effect, Machine Head e Amon Amarth hanno rappresentato due universi davvero lontani tra loro e per certi versi all’opposto, che si sono ritrovati solo sull’intensità messa in atto. Sì è svolta una battaglia, che probabilmente ha visto come unico vincitore il pubblico presente, questa volta davvero coinvolto.
Amon Amarth setlist:
Guardians of Asgaard
Raven’s Flight
Deceiver of the Gods
The Pursuit of Vikings
The Great Heathen Army
Heidrun
Destroyer of the Universe
Put Your Back Into the Oar
Cry of the Black Birds
The Way of Vikings
Shield Wall
First Kill
Raise Your Horns
Encore:
Twilight of the Thunder God
Vittorio Cafiero