Live Report: Hellfest 2023 – Giorno 2

Di Davide Sciaky - 21 Luglio 2023 - 12:16
Live Report: Hellfest 2023 – Giorno 2

Guarda le foto della seconda giornata di festival.

Helms Alee

Nel calore del pomeriggio, delle volute di fumo nascondono il palco della Valley, che da quest’anno è stato spostato di fronte al Warzone oltre il bosco “Kingdom of Muscadet” (fino all’anno scorso si trovava di fianco ai palchi Temple e Altar, sotto un tendone).

Gli Helms Alee, trio sludge/post hardcore statunitense formatisi nel 2007, si presentano subito in tutta la loro particolarità: al centro Hozoji Matheson-Margullis, la batterista e cantante, alla destra la bassista Dana James e alla sinistra, dietro ad un secondo set di percussioni e ad una sei corde elettrica, Ben Verellen.

Con un suono che ricorda il moto ondoso, escono dalle nebbie e cominciano un set di mezz’ora che sembra prolungarsi all’infinito grazie ai ritmi serrati e ai suoni cupi che rimandano a lontane valli nel deserto o alla solitudine delle distese ondose dei vasti oceani.

Il pubblico sembra congelato dal muro di suono che si scatena dal palco, ma ci sono segni che fanno capire come il lavoro del trio sia apprezzato: qualche testa si muove qua e là, la maggior parte degli occhi non riescono a staccarsi dalla scena (inclusi i nostri, che si staccano a fatica solo per osservare la folla) e il numero di spettatori aumenta costantemente fin anche dopo la fine dello show. Prende quasi di sorpresa il boato della folla che saluta l’ultimo pezzo, dopo mezz’ora in cui il suono della band è il solo compagno delle nostre orecchie.

 

Skid Row

Nonostante il concerto degli Skid Row sia in mezzo al pomeriggio il pubblico è già molto abbondante, quello che solitamente si vedrebbe ad un’ora più tarda. L’amore per brani che hanno fatto la storia dell’Hard Rock è sicuramente tanto, come forse è la curiosità nei confronti del “nuovo” (ormai sono già due anni) cantante, Erik Grönwall. Sicuramente la nostra è grande. Il concerto comincia con un tris di classici, “Slave to the Grind”, “Big Guns” e “18 and Life” che mostrano immediatamente tutto il grande talento del vocalist svedese che non fa rimpiangere affatto il cantante storico, Sebastian Bach, anzi, Grönwall così giovane, energico, talentuoso è evidentemente l’asso nella manica che può far tornare a livelli altissimi la band. Dietro al cantante tutta la band è in gran forma e l’esibizione è davvero potente e, con l’aiuto dei cori del pubblico, il concerto è da manuale del Rock. D’altronde con una scaletta che pesca per 8 brani su 9 dai primi due album classici, con una sola concessione al passato recente, “The Gang’s All Here”, come si può sbagliare?

 

Alter Bridge

Gli Alter Bridge, gruppo patria di Myles Kennedy e Mark Tremonti, si presenta sul palco senza particolari pretese: un logo sul megaschermo, gli strumenti sul palco ed un muro di amplificatori.

Suonano alle 18:25, quindi l’accompagnamento luminoso fa un effetto minimo.

Chiaramente, il quartetto non ha bisogno di nessun fronzolo per arricchire il loro concerto: la voce incredibile di Kennedy, unita all’abilità tecnica dei compagni rende tutti i 50 minuti un’esperienza da brivido, senza dare mai spazio ai fan nemmeno per respirare.

Il pubblico non è però molto, forse per il sole che ancora picchia sulle teste, forse per la stanchezza e la prospettiva delle enormi band che avrebbero seguito.

La scaletta è fortissima: la doppietta Silver Tongue seguita da Addicted to Pain apre il concerto, per poi continuare con Sin after Sin, Cry of Achilles e This is War. Un veloce intermezzo viene seguito da Blackbird, che tiene senza fiato l’audience dal primo all’ultimo secondo, a sua volta seguita da Isolation e Metalingus che danno il colpo di grazia.

Il set è fenomenale, la qualità tecnica ottima (anche se da dei discorsi sentiti successivamente tra le persone che hanno assistito al concerto, si può presupporre che dipendeva molto dal posizionamento dell’ascoltatore) e la presenza scenica della band è ottima, nonostante la mancanza di scenografie.

 

Papa Roach 

All’indomani dell’uscita del loro ultimo disco, “Ego Trip”, i Papa Roach tornano all’Hellfest per uno show rovente, letteralmente e figurativamente. Letteralmente perché agli americani piace giocare col fuoco, o meglio con gli effetti pirotecnici, e quindi il loro concerto viene arricchito visivamente da effetti che completano bene la musica adrenalinica. Si parte proprio con un brano nuovo “Kill the Noise” che scalda bene l’atmosfera e carica a dovere il pubblico prima di tornare indietro di 20 anni con la title-track di “Getting Away With Murder”. Che piacciano o meno, è impossibile non riconoscere la bravura di Jacoby Shaddix come frontman. A più di 25 anni dal debutto il cantante non sembra minimamente scalfito dal passare del tempo e con grande energia, e voce che non perde un colpo, incalza il pubblico da cui riceve sempre una risposta entusiastica. Curioso vedere il pubblico dell’Hellfest con le mani in aria sulla musica di “Still D.R.E.” del Dr. Dre durante la quale viene presentata la band. Immancabile, per concludere lo show, “Last Resort”, brano amatissimo dal pubblico, che conclude un concerto davvero esplosivo.

 

Flogging Molly

I Flogging Molly sono vivacemente attesi per la prima delle loro due date francesi dell’estate 2023 e il pubblico dell’Hellfest straborda dalla Warzone ben prima che il concerto cominci – a dieci minuti dall’inizio già volano birre, i cori sono incessanti e la tensione nell’aria è palpabile. 

I sette di Los Angeles non sprecano l’energia dei fan nemmeno per un secondo: prima di cominciare, dedicano il concerto ad Alice Cooper, che ha suonato il giorno prima sul main stage con i suoi Hollywood Vampires, perché lo zio del metal ha dichiarato che “il rock non si fa con i banjo e altri strumenti strani” e i Flogging vogliono provargli il contrario. Cominciano quindi subito con Drunken Lullabies, pezzo che non necessita presentazioni, che apre lo show scatenando tutti i fan da un capo all’altro della Warzone: tre diversi mosh pit si fondono in un singolo tumulto, circondato da due piccoli circle pit che poi a loro volta si fonderanno col caos centrale. A nemmeno un minuto dall’inizio del concerto, il crowd surfing impazza e il numero delle persone che cadono a terra è maggiore di quelle che riescono a raggiungere la transenna.

Il concerto è rallentato da alcuni problemi tecnici ma nessuno di portata tale da rovinare il mood e il gruppo mantiene comunque un ritmo serrato, arrivando a suonare 14 pezzi nell’ora a disposizione.

Si alternano momenti tranquilli (con Whistles in the wind), momenti più solenni (con Float), momenti scatenati (con Devil’s dance floor) ma durante tutto lo show non mancano da parte del frontman battute, saluti a personaggi particolari in mezzo alla folla e ringraziamenti agli altri membri, alle band che li hanno preceduti, alle band che li avrebbero seguiti e allo staff.

La fine del concerto ci trova sudati e col fiato corto, esattamente come ci si sarebbe aspettato.

 

Mötley Crüe

Headliner della seconda giornata, i Mötley Crüe tornano in Francia per la prima volta con la nuova formazione che vede John 5 prendere il posto di Mick Mars. Sostituzione che ha portato a non poche polemiche e accuse che non possono che lasciare l’amaro in bocca, anche cercando di guardare lo show senza pensarci. Il concerto inizia con un finto telegiornale proiettato sui maxi schermi che precede l’arrivo della band e delle due ballerine che li accompagnano. Al partire della prima canzone, “Wild Side”, il pubblico si scatena e l’energia percepita sotto al palco è enorme, tra chi poga, salta, canta e fa crowdsurfing. Le canzoni sono quasi esclusivamente classici, e questo non fa che fomentare ulteriormente i fan, tra una “Live Wire”, “Dr. Feelgood” e “Girls, Girls, Girls, proprio quest’ultima che vede l’ospitata di JP “Rook” Cappelletty, batterista di Machine Gun Kelly. MGK, che ha iniziato la carriera come rapper, si è avvicinato al mondo del Rock indirettamente recitando proprio nel film biografico sui Mötley Crüe, The Dirt, in cui ha interpretato Tommy Lee. Non poteva quindi mancare anche Machine Gun Kelly, che nella stessa giornata ha suonato su un altro palco, che compare sul palco come ospite su “The Dirt (Est. 1981)”. Il personaggio, decisamente poco amato nell’ambiente Rock/Metal, viene però accolto da sonori fischi e dita medie al cielo. Ricordando le polemiche citate prima, in alcuni momenti ci sembra di cogliere Nikki Sixx “in fallo” in momenti in cui toglie le mani dallo strumento che però continua a suonare. Suggestione? Può essere, ma quanto successo intorno alla band non ha giovato all’impressione che fa lo show. Sicuramente invece è Vince Neil a cantare dato che la sua voce fa una figura ben magra. Nel complesso lo show diverte, soprattutto grazie a canzoni che hanno fatto la storia del loro genere e a una scenografia coinvolgente, ma la performance non brilla né risulta particolarmente memorabile.

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