Live Report: Iron Maiden@O2 Arena, Praga – 31/05/2023
Iron Maiden@02 Arena, Praga
31/05/2023
Questo non è il report di un concerto. Non lo è perché manca di essere accompagnato da fotografie; non lo è perché non ha l’obiettivo di dirvi come abbia cantato Dickinson, o se Nicko si sia dimenticato qualche passaggio; non lo è perché non vi racconterà la cronistoria della serata del 31 maggio 2023 all’O2 Arena di Praga, dove gli Iron Maiden portavano in scena la terza data del loro attesissimo The Future Past Tour.
E allora queste parole cosa sono qui a dirvi? Vogliono raccontarvi l’esperienza del vedere, e per la maggior parte di noi, rivedere dal vivo quella che è indubbiamnete una delle più grandi band heavy metal della storia. Sono parole certo personali, ma hanno altresì l’ardire d’immaginare di saper dar voce al cuore di tanti che, pur non conoscendosi, si sentono un sol popolo ogni volta che si scambiano sorrisi all’ennesima uscita di Eddie sul palco, o si lanciano un gesto d’intesa all’incrociarsi su una scala mobile indossando una maglietta nera che dice tutto un credo.
Attesissimo questo nuovo tour lo era, perché da mesi (se non da anni) giravano voci sulla presenza in scaletta di quella Alexander The Great che la band non aveva mai suonato dal vivo. E poi gli indizi portavano i fan a ipotizzare che avrebbero ascoltato la storica Caught Somewhere In Time (assente dal 1987) e la nuova Hell On Earth, straordinariamente entrata nei cuori di tutti come un classico sbocciato in tempi non più favorevoli alla creazione dei miti.
Ed eccomi alla O2 Arena, circondato da metallari delle più diverse età, ora con figli a seguito, ora al traino di figli che si sono innamorati degli Iron Maiden per una sorta di osmosi della passione. E li vedi gli sguardi di questi padri, che parlano una lingua slava ma sono tanto simili a noi: osservano per un attimo la maglietta di Killers indossata dal figlio e paiono capire d’aver fatto qualcosa di buono nella vita.
È il tempo dei sorrisi, delle pacche sulle spalle tra amici che si incontrano solo ai concerti, di quella percezione adrenalinica del momento che è una delle poche sensazioni a non essere cambiata da quando, a quindici anni, molti di noi si trovarono per la prima volta sotto il palco di Steve Harris e subito capirono che quello non sarebbero stato un fuoco fatuo dell’adolescenza, ma la solida radice di una fede che ci avrebbe accompagnato nei momenti belli e brutti della vita tutta.
Sarà per questo che c’è un senso di casa nell’aria e tanti qua dentro percepiscono quanto la musica di questi inglesi sia parte del loro stesso essere divenuti uomini: perché con quella musica ci sono cresciuti, con quella musica sono cresciuti, ed è grazie a quella musica che certi battiti del cuore non sono mai cambiati.
Doctor Doctor: ed è l’urlo della folla, una magia che precede l’attimo della simbiosi tra la band e il suo pubblico. Tutti saltano, le corna vanno al cielo, mentre il tema musicale di Blade Runner ci immerge nell’atmosfera futuristica che fu di Somewhere In Time. Eccola la title track di quell’album. Eccola la band sul palco. Ecco quell’attacco che si trasforma in una cavalcata epica. Dickinson non canta: recita un parte, mentre il pubblico urla al cielo un ritornello che ci era rimasto strozzato in gola per più di trent’anni. È uno spettacolo che travolge allo stesso modo chi ha visto decine di concerti degli Iron Maiden e chi è all’esordio.
Stranger In A Strange Land regala eleganza e tutti si ritrovano nel 1987, annichiliti dalla bellezza di questo brano che Bruce interpreta come se fosse un pezzo di teatro. E Praga è lì, con il suo popolo variegato, fatto di tante bandiere diverse, brandite con orgoglio da chi si ritrova da decenni a pianificare i propri viaggi in base alle date dei tour di questi inglesi. Deve valerne davvero la pena, se anche i pezzi che ci portano al giorno d’oggi non sembrano patire il confronto con gli irraggiungibili loro predecessori, su cui si è stampigliata da così tanto un’aura di leggenda.
Ecco dunque The Writing on the Wall e Days of Future Past, che ci ricordano quanto gli Iron Maiden siano ancora ben vivi nel 2023 e sappiano parlare a più generazioni, se è vero che intorno a me ragazzi imberbi e panciuti metallari pelati si ritrovano a urlare ritornelli nuovi per entrambi.
The Time Machine è un altro pezzo notevole ma, va detto, traballa davanti a The Prisoner: l’O2 Arena è una bolgia indistinta che salta e si diverte, mentre un riff mostruoso costringe tanti all’headbanging, ormai tanto vecchia scuola da risultare quasi innovativo.
La cadenzata epicità di Death Of The Celts è un godimento mostruoso, grazie alla straordinaria melodia della strofa e delle parti strumentali. L’accoppiata Can I Play With Madness e Heaven Can Wait taglia le corde vocali a molti dei presenti, ma è l’attesissima Alexander The Great a provocare le reazioni più intense nel pubblico. Intorno a me sono abbracci, giugulari gonfie, occhi umidi, braccia al cielo, sguardi increduli e, infine, sorrisi, tanti sorrisi. Lo stupore della bellezza di amare questa band e il genere di cui è tra i più grandi esponenti è tutta condensata in quel ritornello maestoso che i presenti faticano a credere di essere lì davvero a cantare.
La catarsi di Alexander The Great quasi fa passare in sordina due pezzi da novanta come Fear of The Dark e Iron Maiden, come sempre accompagnata da pupazzoni ed enormi Eddie semoventi. Ma nulla toglie a una canzone che è inaspettatamente riuscita nell’impresa di trasformarsi subito in un nuovo classico: Hell On Earth colpisce nel segno e io mi ritrovo a pensare quanto ancora fresca sia la scrittura di questa band di ultra sessantenni, capaci di donare oggi al proprio pubblico un brano del genere, forte di una melodia semplice e unica, pomposa e luminosa al tempo stesso.
Quando le note di The Trooper irrompono nella O2 Arena il pubblico reagisce con tutta la propria forza, che si trasforma in serena distensione all’altezza del ritornello della conclusiva Wasted Years. Sì, tutti questi anni, che sappiamo non essere andati perduti anche grazie agli Iron Maiden, anche grazie al nostro fratello heavy metal. Perché loro c’erano quando i nostri occhi si sono inumiditi sotto quel palco, ora per una gioia della vita, ora per un dolore. Loro c’erano e vien voglia di salirci su quel palco ad abbracciarli, mentre Nicko lancia bacchette e la musica in sottofondo ci ricorda di guardare sempre al lato luminoso della vita. Ecco, forse è tutto qui: avere il dono di una passione illumina la vita, arricchendo i nostri occhi di quella sensibilità che ci fa godere appieno nelle felicità e soffrire appieno nelle tristezze. Alexander The Great era sempre lì al nostro fianco, quando l’headbanging accompagnava le adolescenze dubbiose, quando un ritornello epico rinforzava le decisioni fondamentali della vita, quando la musica salutava con noi chi che quella vita ce l’ha data.
La colonna sonora del nostro essere stesso: lo penso risalendo le scale della O2 Arena e, poi, aspettando la metropolitana. Al mio fianco, parole familiari nell’aria viziata del sottosuolo: due italiani si chiedono se quella sia la linea giusta per tornare in centro. Parliamo e siamo subito fratelli: “c’ero anch’io nel 1990 al Palatrussardi”, “ma tu quante volte li hai visti?”. Ci sono i sorrisi dell’empatia tra chi comprende che l’altro comprende, perché lo ha vissuto, perché lo vive. Mentre esco a riveder le stelle del cielo di Praga, il ritornello di Blood Brothers mi risuona in testa e un sorriso un po’ ebete mi si stampa in volto.