Pain of Salvation (Daniel Gildenlöw)
Quando mi avevano detto che questa non sarebbe stata un’intervista come tutte le altre non credevo che il mio interlocutore avrebbe superato così tanto le aspettative, in tutti i sensi. Sì, perchè Daniel Gildenlöw, leader della prog metal band svedese Pain of Salvation, si è dimostrato un personaggio davvero particolare anche durante una tranquilla chiacchierata davanti ad un tavolino. Visionario e profondo ma estremamente alla mano nei modi, onesto, schietto e mai banale nel rispondere alle domande, semmai il problema era frenarne la favella incredibilmente abbondante che, a dispetto del pochissimo tempo a disposizione, a davvero pochissimi istanti dall’entrata in scena sul palco dell’Alcatraz di Milano, si è liberata con grande rilassatezza ed empatia nei miei confronti, riducendo peraltro drasticamente il numero delle domande da me previste. Le areose risposte fornite sono comunque, alla fine, lo specchio coerente dell’universo Gildenlöw di questi ultimi anni, trascorsi tra il continuo lavoro con la sua band e le varie collaborazioni parallele, come il caso della sera in cui ho svolto quest’intervista: nel backstage della data milanese del tour dei Transatlantic, la super band progressive capitanata da Neal Morse e Mike Portnoy che lo ha scelto, amichevolmente, come ospite fisso di lusso per una serie di lunghissimi show dove Daniel ha suonato praticamente di tutto: dalla sua stessa voce al tamburello.
Foto e intervista a cura di Francesco Sorricaro con la preziosa collaborazione di Nicola Furlan.
Buona sera Daniel. Sei in tour con i Transatlantic. Cosa ne pensi di The Whirlwind, il loro nuovo disco?
Beh, la prima cosa che mi viene in mente è che si tratta veramente di un sacco di musica! (ride, ndr) Sono 12 brani molto lunghi ma io ho i miei preferiti che sono di sicuro Rose Colored Glasses e Lay Down Your Life, che sono anche quelle che vado a riascoltare più spesso e volentieri.
Tu sei, in qualche modo, la special guest di questo tour, quindi sei anche uno sguardo dall’esterno su questa band. Sapresti definire ognuno dei ragazzi con una parola?
Noooo, sarebbe troppo dura. Forse se avessi molto tempo e molte parole a disposizione potrei ma così è impossibile.
Esperienze estemporanee come quella con i Transatlantic possono risultare utili, a livello artistico, per la tua esperienza con i Pain of Salvation?
Beh, io trascorro talmente così tanto tempo con i Pain of Salvation….In fondo sono io quello che scrive la maggior parte della musica e dei testi, quindi sono coinvolto in talmente tante questioni con questa band che è bello ogni tanto avere la possibilità di fare qualcos’altro, lasciare per una volta che le decisioni vengano prese da qualcun altro. Come una specie di vacanza, un periodo in cui hai meno cose a cui pensare, in cui lasciare un po’ più libera la mente.
Con i Transatlantic, in pratica, puoi dedicarti semplicemente al ruolo di performer?
In pratica sì. Suonare con loro per me è completamente diverso che suonare con la mia band. I brani dei Transatlantic sono probabilmente più semplici da un certo punto di vista ma sono molto più lunghi e, dunque, lì entra in gioco la memoria perchè ho tante parti da svolgere durante le esecuzioni e devo restare sempre concentrato per rimanere in sincronia con gli altri. E’ tutta una questione di memoria e di concentrazione sul palco.
Parliamo un po’ dei Pain of Salvation ora. Il nuovo disco è appena uscito. Sei soddisfatto del vostro lavoro svolto su Road Salt One?
Sì. Sono sempre felice e soddisfatto appena ho finito un disco. E’ ovvio che una parte di me non riuscirà mai a dire che tutto è perfetto, ma ogni volta io mi sforzo di dare il meglio di me stesso. Ho atteso questo album per molto, molto tempo, visto anche che io sono fatto in modo che la mia mente ora, per esempio, non è concentrata sul prossimo album ma già su quello successivo ad esso, dunque puoi comprendere come non veda l’ora di presentare Road Salt One al pubblico. Dunque sì, sono molto felice del nostro lavoro su questo disco e penso, anzi, che sia uno dei nostri migliori.
Puoi descrivere lo spirito di questo disco, il tuo istinto nel crearlo?
Ho voluto trovare un’intimità, un’intimità in come la musica veniva scritta ed in come veniva suonata e per ultimo nel suono complessivo dell’album. Volevo essere sicuro che venisse abbattuta anche la più piccola distanza con l’ascoltatore per permettere al disco di investirlo in maniera diretta.
Abbiamo lavorato molto sull’istintività, sulle emozioni del momento, ed è per questo che abbiamo cercato un approccio molto in stile anni ’70, perchè credo che i dischi di quel periodo siano stati unici nel fotografare l’impeto di quegli anni e credo che non ci siano mai più stati dischi con un sound del genere. Abbiamo cercato, così, di evitare ogni tipo di sovrastruttura. Ogni volta che mi trovavo di fronte ad una decisione da prendere, sceglievo sempre la soluzione più scarna. Ho lavorato solo in base a quello che avrei voluto sentire io.
Mi ha ricordato un po’ il periodo in cui stavamo componendo The perfect element I. Avevamo lo stesso tipo di orientamento mentale in quel periodo. Del tipo: “Se alla gente piacerà, bene, altrimenti vaffanculo!”. Fortunatamente, poi, alla gente piacque molto quell’album e ci andò bene (ride, ndr). Il fatto è che anche in quel frangente eravamo concentrati solo su quello che volevamo fare veramente, su quello che volevamo esprimere; perchè alla fine puoi provare a cambiare il tuo modo di fare per piacere ad altre persone, ma il rischio è di non sentirti onesto con te stesso. Meglio magari non ricevere consensi ma avere seguito la strada guidata dal tuo istinto; e comunque sono convinto che se ci metti passione in una cosa e a te piace molto, sicuramente ci sarà qualcun’altro là fuori a cui piacerà allo stesso modo.
Esiste un concept nascosto dietro Road Salt One come c’era in Be e Scarsick?
In qualche modo sì. L’intero spirito del disco viene dagli ultimi anni trascorsi durante i quali ci sono stati un sacco di episodi topici nella vita della band. Sono cambiati alcuni membri e si sono verificate situazioni davvero spiazzanti, come quando ci siamo separati dal nostro precedente batterista che aveva suonato con noi per così tanto tempo. Quando siamo arrivati a quel punto, io mi sono detto di dover andare avanti. Mi sono fermato a pensare a quanto tempo era passato e a tutti i sacrifici che avevo fatto e mi sono sentito come uno scalatore che sale su una ripida parete rocciosa tra mille difficoltà, con le altre persone a valle che ti considerano un folle e che ti urlano: “Fermati lì, va bene così!”, ma a te piace quello che stai facendo e vuoi continuare a salire per poter dire alla fine: “Ce l’ho fatta!”.
Certamente anch’io ho pensato per un momento di prendere una pausa, specie quando mi sono trovato a dover cercare nuovi membri. Con Johan (Langell, ndr) abbiamo sempre avuto prospettive differenti. Io ho vissuto 26 anni focalizzato al massimo sull’obiettivo e lavorando duro per produrre la musica migliore possibile, lui invece era più il tipo da: “Registro le mie parti di batteria e sono a posto!”. (ride, ndr) Riusciva a vedere sempre e solo l’aspetto ludico della faccenda. A ripensarci ora è divertente, ma siamo molto diversi e lavoriamo in maniera diversa; ho lottato molto per questo e ne ho sofferto anche parecchio. E’ questo il perchè di una certa pesantezza nello spirito di certe nostre composizioni.
La svolta c’è stata quando ho avuto il mio secondo bambino ed ho deciso di prendere 2 mesi di completa libertà dalla band: due mesi felici trascorsi nel mio giardino con la mia famiglia. Sono stati i due mesi migliori che abbia mai vissuto. Sono riuscito ad accantonare per un periodo tutto lo stress, le pressioni ed i pensieri su come realizzare il disco successivo e, grazie a questo, in seguito, ho scoperto una leggerezza tutta nuova con cui approcciarmi al lavoro.
Quale può essere il collegamento tra Scarsick e Road Salt One?
Io credo che quest’album sia una diretta conseguenza del lavoro svolto su Scarsick anche se, all’epoca, non potevamo immaginarlo. L’intero feeling di Road Salt One: a partire dal sound, l’artwork, il modo in cui sono costruiti i brani da un punto di vista intimo ed emozionale sono tutte dimostrazioni di come ho avuto la possibilità di scrivere senza tutte quelle cose che ci sono accadute nel recente passato. Io penso che solo due anni fa lo avremmo fatto in maniera molto diversa. Ci sarebbero stati anche molti più compromessi dettati dall’ansia di come lo avrebbero potuto accogliere i metal fans e cose del genere.
Ad un certo punto, ero stanco di dover tener conto di tutte queste cose durante la lavorazione di un disco e mi sono detto: “Questa volta faremo al 100% il disco che vogliamo o non lo faremo affatto!”, e sono molto felice di questa scelta. (ride, ndr) Di solito, dopo che ho lavorato duramente su un disco per tanto tempo, la prova che sia stato veramente un buon lavoro per me, è quando alla fine della giornata lo metto nello stereo e riesco ancora a godermelo tutto di un fiato. Allora posso dire che è stata una buona giornata. In questo caso posso dire che sia uno dei nostri dischi meglio riusciti degli ultimi anni.
Per quanto riguarda il concept si può dire che esso riguardi “i sacrifici e le possibilità”. Non era una cosa predefinita. Ho ascoltato il materiale che avevamo registrato e mi sono lasciato coinvolgere. Ogni brano è stato scritto in contesti diversi, in momenti diversi, ognuno si può definire come una diversa fotografia, una diversa prospettiva: diverse strade che incrociano, in particolari punti chiave, un’unica strada che rappresenta il nostro viaggio attraverso la vita. Alcuni giorni nel nostro percorso sembrano meno importanti di altri, ma ci sono sempre dei bivi, delle decisioni da prendere, delle scelte da fare e, nel disco, si parla proprio di come certe scelte, che comportano dei sacrifici, conducano a delle possibilità.
In Road Salt One, ogni singola canzone contiene un sacrificio ed una possibilità e chiunque si immedesimerà in esse sarà chiamato ad una decisione, a fare una metaforica scelta.
Ho trovato il vostro sound molto più acido ed ossessivo ultimamente. Qual è l’obiettivo, a livello musicale, per quest’album?
Sono un po’ stanco delle belle produzioni. Negli ultimi vent’anni le produzioni sono diventate sempre più pulite e curate e sempre più imponenti e, passo dopo passo, ho perso sempre di più l’immagine di quello che significava per me la produzione di un disco, perchè questo tipo di soluzioni hanno finito per emozionarmi sempre meno. Se ascolti materiale di 30-40 anni fa, tipo i Led Zeppelin, ti accorgi che, non importa che tipo di musica sia, ma riesce comunque ad entrarti dentro. Quella musica era davvero due passi avanti rispetto alla sua epoca. Potevi sentire davvero l’onda d’urto della batteria senza bisogno di tutti i trigger ed i super accorgimenti che sembrano sempre indispensabili al giorno d’oggi. Desidero solo tornare alle radici, al sangue, al sudore, alle lacrime e a tutto il resto. Ho voglia di concentrarmi esclusivamente sulla costruzione della canzone, sulla voce, sul vero lavoro di un musicista, la sua abilità principale. Cercavo un suono più asciutto e aggressivo in questo senso. Ho sempre ammirato i primi Beatles perchè riuscivano ad ottenere, senza tanti trucchi, quel sound così meravigliosamente equilibrato e simmetrico. E’ qualcosa che ha a che fare con l’arte ed è questo richiamo che ho sentito nel voler affidarmi a questo stile così old school. Ogni singola traccia di Road Salt One è stata così creata partendo dalle sue fondamenta, senza l’uso di template o progetti preconfezionati, solo con i nostri strumenti.
Un bellissimo documentario come quello contenuto nel vostro ultimo DVD Ending Themes (on the Two Deaths of Pain of Salvation) è da considerarsi come la ideale conclusione di un’epoca, parlando per esempio dei vostri cambi di formazione, o semplicemente come un altro mattone fondamentale nel vostro percorso?
Penso rispecchi entrambe le considerazioni. Certamente fa pensare alla conclusione di due epoche differenti, come fa intendere anche il titolo: la prima chiusa con l’abbandono di Kristoffer (Gildenlöw, ndr) e la seconda con quello di Johan; ma, oltre a questo, c’è dentro anche l’esperienza di un periodo fondamentale della nostra carriera che ho creduto interessante far emergere nel DVD: un prodotto che non ho mai visto come la semplice riproposizione di un concerto dal vivo.
Nel periodo in cui si era cominciato a pensare a questo progetto io mi trovavo in una situazione davvero problematica a livello emotivo e mentale. Specialmente dopo che Johan lasciò la band ho pensato davvero, per un momento, di chiudere lì la storia dei Pain of Salvation. Poi però, il primo a spronarmi fu proprio Johan che mi disse: “No! Non puoi lasciare tutto solo perchè me ne vado io. Anzi, prendi subito un altro batterista perchè voglio assolutamente venire ai prossimi concerti dei Pain of Salvation!” (ride, ndr). Fu un vero fulmine a ciel sereno, mi incoraggiò molto con il suo spirito e mi disse che, se volevo, potevo scalare quella montagna; dovevo solo prendermi una pausa e tornare a credere in me stesso. Ed è quello che alla fine ho fatto e di cui ti ho parlato anche prima. Sono uscito da quel piccolo limbo tornando poi molto più carico per focalizzarmi su quello che conta di più e cioè la musica.
Il sound dei Pain of Salvation è stato sempre un po’ oscuro. Questo tipo di approccio trae origine dal vostro stato d’animo al momento di scrivere i pezzi o è semplicemente il vostro modo di prendere la vita, come una continua introspezione?
Cerco sempre di affrontare argomenti significativi nei miei testi. Ho sempre avuto la convinzione che se c’è un qualche tema che mi tocca profondamente, al punto di spingermi a riconsiderare delle mie convinzioni, o semplicemente a crearmi un’opinione su di esso, allora questo tema ha bisogno di essere espresso nella mia musica, che è una delle mie principali forme di espressione. Se un argomento non suscita questo tipo di interesse in me, preferisco non parlarne affatto.
Non devono per forza essere grandissime tematiche ma diciamo che, in genere, preferisco parlare di situazioni problematiche, al limite, che ovviamente hanno tinte un po’ oscure e tetre ma io cerco sempre di trovarci la bellezza dentro, e di aprire come una piccola porta o una finestra sul mondo esterno perchè anche gli altri possano vedercela. E’ un mio modo di vedere le cose. Ad esempio, a me piacciono molto i film un po’ grotteschi o che presentino comunque molti chiaroscuri: film come Il grande Lebowski, Forrest Gump, American Beauty, Delicatessen, sono tutti grandi film che presentano un chè di sordido, o di malinconico o di eccentrico, ma la cosa più importante è che lanciano uno sguardo su determinati aspetti della vita facendo capire che appunto esite anche un’altra faccia della medaglia e che, senza queste gradazioni di colore più scure, tutto il complesso perderebbe di significato.
Questi sono film “totali” dal mio punto di vista, perchè per trattare di certi argomenti non c’è bisogno di usare per forza una drammaticità ostinata e, in queste opere, tu puoi trovare il dramma e la commedia miscelate a tal punto che non riesci a distinguerli. Per quanto mi riguarda trasmettono veramente tanta bellezza e mi diverto molto a riguardare quei film.
Questo modo di guardare le cose ha condizionato molto il mio approccio nei confronti della musica. Non mi considero un “gatto nero”, cerco solo di analizzare anche il dramma più grave con uno sguardo il più intimo ed introspettivo possibile per poi poter rendere anche la sua interpretazione più dinamica.
Irrompe nella stanza il tour manager pregando con garbo Daniel di affrettarsi perchè tra circa 6 minuti dovrà salire sul palcoscenico!!!
Solo un’altra domanda per concludere, allora. Proprio ieri una triste notizia che nessuno avrebbe voluto sentire. Ronnie James Dio alla fine non ce l’ha fatta. Qual è il tuo ricordo di lui e quali le tue considerazioni a caldo a questa notizia?
E’ molto, molto triste. Era una delle più grandi voci che abbia mai ascoltato e fin da quando ero un ragazzino è stato sempre tra i miei favoriti. Parlavo ieri con mia moglie e da un certo punto di vista uno se lo dovrebbe aspettare, insomma, aveva 67 anni ed aveva un cancro, eppure chiunque abbia conosciuto la sua grande vitalità maledice il destino crudele che ha avuto. Personalmente la notizia mi ha toccato profondamente perchè lui aveva una grande influenza per tutti i cantanti più giovani come me. Io ne ho visti tanti della sua generazione che ancora calcano le scene, e in pochissimi possono vantare la sua presenza e soprattutto la potenza che aveva la sua voce. Mi sono immaginato tante volte come starà la mia voce tra 20-25 anni, se riuscirò ancora a tenere concerti e vedere Ronnie James Dio mi confortava, ti faceva pensare: “E’ possibile! Non è solo una questione fisica, è la gioia di fare questo lavoro”.
Avete intenzione di commemorarlo in qualche modo nel concerto di questa sera?
Io non sono in grado di farlo! (sorride amaro, ndr) Ne abbiamo parlato un po’ tra di noi ma non c’è ancora niente di deciso.
Allora, grazie mille per l’intervista Daniel ed in bocca al lupo per il concerto.
Grazie a te e un saluto a tutti gli utenti di Truemetal.it.
Francesco ‘Darkshine’ Sorricaro