Priest Feast – Judas Priest, Megadeth, Testament (Dublino, 10/02/2009)

Di - 17 Febbraio 2009 - 23:10
Priest Feast – Judas Priest, Megadeth, Testament (Dublino, 10/02/2009)

Corre l’anno 2009 e i Judas Priest decidono di organizzare una festicciola per celebrare  una lunga e gloriosa attività nel nome dell’heavy metal. Sempre (o quasi) sugli scudi, sempre in prima linea da quei lontani anni ’70 che li hanno visti nascere e crescere per poi esplodere, grandi come nessun altro nella decade successiva. Di sicuro si meritano un posto d’onore tra coloro che hanno dato a questa musica il lustro e l’orgoglio che pochi altri possono vantare.

Primissima città a beneficiare dell’iniziativa è Dublino, con la sua O2 Arena discretamente popolata in un martedì sera da turno infrasettimanale che di certo non favorisce l’affluenza.

Testament

Era da più di dieci anni che i Testament e Chuck Billy (ovvero l’uomo che tutti vorrebbero al proprio fianco durante una rissa) non mettevano piede in Irlanda. Purtroppo gli orari stretti, il tipico traffico dublinese e gli uffici in cui la giornata lavorativa non è ancora agli sgoccioli tengono lontani dai Testament più di qualche elemento. L’O2 Arena si riempie pian piano quando già le note di Over the Wall, seconda in scaletta.

Si prosegue e Do Not Resuscitate, The New Order e la conclusiva The Formation of Damnation formano lo scheletro di una esibizione che purtroppo non decolla, complici forse dei suoni non esattamente perfetti (d’altronde è la prima anche per i tecnici) e una band che sorprendentemente sembra più intenta a eseguire che coinvolgere, con la sola eccezione del solito Chuck Billy, generoso come sempre.

Al momento di tirare le somme i Testament non vanno oltre a la sufficienza e si finisce con il piangere le assenze importanti di brani come Disciples of The Watch, Souls of Black, Practice What You Preach… tutte sacrificate per una setlist che forse poteva svilupparsi in maniera differente.

Megadeth

I Megadeth sono una band che ho visto dal vivo ormai in diverse occasioni, in esibizioni talvolta positive e talvolta meno, sotto al sole di un festival estivo o tra le luci artificiali di un palazzetto… resta però il fatto che ogni volta che la serata o il pomeriggio comprende Dave Mustaine e ciurma al seguito, scatta una certa ammirazione e una certa soggezione. Vero sì che ormai dei personaggi che hanno popolato i Megadeth nei tempi d’oro sia rimasto solo il padre e padrone Dave, vero anche che da anni non vediamo un’uscita in grado nemmeno di avvicinare i classici della band, eppure quella sensazione di essere lì ad aspettare qualcosa di grande c’è sempre.


I Megadeth sono stati forse la vera sorpresa della serata

Megadave sale sul palco senza troppi complimenti e comincia a trainare i suoi con il carisma di sempre, scegliendo come opener la abbastanza prevedibile Sleepwalker. Una sempre gradita Skin O’ My Teeth poi qualche brano dagli ultimi nati, come Washington is Next, scaldano il pubblico e non sfigurano affatto nella loro veste live, a dimostrare che quella dal vivo ci sono ancora i presupposti per uno show ch si rispetti. Rispetto all’ultima volta (credo fosse il 2007) si nota subito una maggiore compattezza tra i ranghi e le ritmiche (mancata per esempio in quel dell’Alcatraz) e soprattutto la confidenza di Chris Broderick sulle ritmiche e gli assoli di personaggi come Marty Friedman o Chris Poland.

Come da copione è però solo quando i Megadeth tirano fuori dal cilindro i vecchi pezzi da 90 che il clima diventa davvero rovente. In My Darkest Hour inaugura la sfilata dei classicissimi, seguita a ruota da una devastante Hangar 18. “La prossima canzone parla del meteo…” annuncia scherzosamente il buon Dave prima che il l’inconfondibile riff di Tornado of Souls prenda possesso dell’Arena. Fantastico il brano e convincente la prova degli americani. Immancabile Symphony of Destruction ad aprire la strada all’accoppiata conclusiva composta da Peace Sells e il capolavoro Holy Wars, a decretare l’assoluta devozione verso una meraviglia senza tempo come ‘Rust in Peace’.

Judas Priest

I Judas Priest sono da sempre tra le mie band preferite in assoluto, emblemi di quello che è stato, è e sempre sarà l’heavy metal… ma questa volta credo che abbiano mancato il bersaglio. Idea splendida quella di portare sui palchi di tutta Europa una triade di questa caratura, un tris servito di nomi che avrebbero tranquillamente potuto esibirsi come headliner dei propri rispettivi tour.

Il fatto è, almeno a parere di chi scrive, che se decidi di fare un’operazione del genere – ovvero qualcosa che rischia veramente di finire negli annali e nelle memorie più felici di non pochi fan – devi prepararti a regalare qualcosa di speciale. Non puoi aprire con Prophecy e risuonare esattamente, senza cambiare di una virgola, l’esatta scaletta che proponi ormai da un anno, la stessa dello scorso tour e dei festival estivi. Insomma, per un evento speciale occorre qualcosa di speciale, sempre secondo il modesto parere del sottoscritto.


I Judas Priest in un turbinio di luci anni ’80

Ora, al di là di queste scelte dall’amaro in bocca, c’è da dire che i nostri se la sono cavata più che bene e hanno riconquistato parte dei punti persi con l’assenza totale di sorprese e la scaletta fotocopia con una prestazione da Judas Priest. Specialmente se si considera che si tratta della primissima data del Priest Feast tour e su alcuni dei brani più ostici proposti in scaletta (Rock Hard Ride Free, Hell Patrol, Sinner…) tutti e tre le punte di diamante sotto osservazione speciale – ovvero Tipton, Downing e Halford – se la sono cavata egregiamente e in un paio di episodi sicuramente meglio di quanto sentito al Gods of Metal dello scorso anno. Tra gli highlight sicuramente il trittico Metal Gods/Eat Me Alive/Between the Hammer and the Anvil (queste ultime due decisamente inattese dal pubblico irlandese) e l’accoppiata Breaking the Law/Hell Patrol, per ritmi elevati e movimento assicurato, con diversi epicentri che costringono la sicurezza a intervenire (pacificamente) per ristabilire la calma nelle prime file.

Da Electric Eye in poi sono solo classicissimi, con Painkiller a chiudere il primo set e Halford in sella alla sua moto per un’encore tra i più canonici, con la trascinante Hell Bent for Leather, la cara vecchia The Green Manalishi e You’ve Got Another Thing Coming, solito rituale conlusivo.

Come accennato prima questa serata è stata un’occasione sprecata in cui si sarebbero potute fare le cose veramente in grande, resta che concerti di questa qualità, con brani del genere e tanta storia a calpestare le assi di un palco ce ne sono davvero pochissimi. Lunga vita ai Judas Priest, anche se non si comportano sempre come vorremmo e non sempre fanno le stesse scelte che avremmo fatto noi…

Setlist:
Prophecy
Metal Gods
Eat Me Alive
Between the Hammer and the Anvil
Devil’s Child
Breaking the Law
Hell Patrol
Death
Dissident Aggressor
Angel
The Hellion / Electric Eye
Rock Hard, Ride Free
Sinner
Painkiller
– – –
Hell Bent for Leather
The Green Manalishi
You’ve Got Another Thing Coming

Alessandro ‘Zac’ Zaccarini