Report: Enslaved a Dovregubbens Hall, Bergen – 1 giugno 2007

Di Daniele Balestrieri - 7 Giugno 2007 - 0:33
Report: Enslaved a Dovregubbens Hall, Bergen – 1 giugno 2007

Sono le nove di sera, ma il sole è ancora alto sul tetto della Grieghallen, enorme sala da concerti a forma di pianoforte a coda che domina il centro della città di Bergen, Norvegia. Sotto il manto stradale, devastato dai lavori in corso, si stendono i sinuosi cunicoli di Dovregubbens Hall, antico parcheggio dove fervono i preparativi la più atipica manifestazione a cui gli Enslaved hanno mai preso parte: il cuore metallico dei Nordiske Impulser, quell’OIOI Festival che impegna l’intera municipalità di Bergen per tre settimane ogni anno, uno spazio dove la cultura norvegese esplode in tutti i suoi colori e le sue sfaccettature.

Le sale si riempiono, si abbassano le luci, creando il buio più totale nel sottosuolo dove siamo stipati, e dal buio emerge il suono elettrico e martellante di un’arpa a bocca pizzicata da uno dei più grandi virtuosi del munnharpe, Terje Isungset. La sala, stracolma di gente dai 3 agli 80 anni, assiste attonita al ritmo devastante e serrato dell’arpa che si alterna a voci gutturali e maestose, trascinando il pubblico in una Norvegia primitiva, dove i progenitori dell’umanità tremano impauriti all’eco dei tuoni e del vento, riprodotti con maestria da un semplice piccolo pezzo di ferro ricurvo. Il ticchettìo della pioggia, l’ululato dei lupi, i muri di cemento sembrano piegarsi e mutarsi in una caverna nella quale si nascondono troll e creature fantastiche. Improvvisamente, nell’incalzare sempre crescente del munnharpe appare come una creatura dei boschi un piccolo sàmi originario della lapponia orientale, che vestito nei colori tipici del suo popolo inizia a gridare l’immarcescibile canto modulato delle terre a nord del circolo polare artico, lo joik, che incanta e ispira l’intera Dovregubbens Hall.

Gli urli disarticolati dello joik si fondono il ritmo dell’arpa a bocca e del corno flessibile creando un amalgama struggente e malinconico, e tra le maestose grida lapponi si introduce sgomitando il batterista degli Enslaved, che lancia l’ultimo incantesimo alla ballata senza tempo: e la musica si trasforma in un’esperienza devastante, martellante, dolorosa, le pareti tremano e la suspence cresce mentre le luci si fanno sempre più scure. Il piccolo sami inizia a danzare nel caos disarticolato e le luci si spengono di colpo. Non abbiamo più la sensazione di trovarci nella Dovregubbens Hall, ma in un altro posto dove gli spiriti del passato sussurrano tra le pareti di un ghiacciaio.
Nel silenzio assordante, tra il fruscio degli amplificatori, venti piedi battono e scricchiolano sul palco di legno: in una lenta fila oscura prende posizione un gruppo di dieci voci miste che raccolgono l’attenzione del pubblico intero.

I “Metalienerne”, coro di italiani norvegiofoni ospiti dell’intero festival, esplodono improvvisamente in un poderoso “Mellom Bakkar og Berg” che stordisce per un attimo gli astanti, i quali si lasciano rapire dall’antica melodia popolare finché, terminato il breve canto di riscaldamento, non viene intonata la struggente “Udsigten fra Ulriken”, l’inno di Bergen. È un attimo, il pubblico è come se venisse attraversato da una scossa elettrica: alcuni sgranano gli occhi, altri si portano le mani alla bocca: è come se tutti avessero ricordato di colpo una canzone dimenticata da secoli. Nell’emozione quasi palpabile, gli astanti iniziano a ondeggiare e a cantare gli antichi versi all’unisono, finché uno scrosciante applauso determina la fine della sessione corale. Un momento di sbando, il coro che si guarda alle spalle, un piccolo cenno con la testa: a scapito del programma viene intonata come straordinario una solenne “Sønner av Norge” che si conclude con il buio improvviso. Sono le dieci in punto, e ha inizio la “Nera Notte di Blåmann”.

Emergono silenziosi gli Enslaved, accompagnati da una eccezionale Marianne Juvik Sæebø che toglierà per quest’unica sera la voce a Grutle, per intonare a mò di una moderna Kari Rueslåtten degli antichi canti sopiti da secoli nella memoria dei norvegesi. Gli Enslaved si cimenteranno in tre canzoni inedite, arrangiate esclusivamente per questo concerto, e inizieranno proprio da “Blåmann, Blåmann, bukken min”, triste ballata che vede un inizio corale sul quale si sovrappone la soprano Marianne e sulla quale, in seguito, gli strumenti dei co-fondatori del Viking Metal creeranno un tappeto strumentale molto articolato che ricorda molto da vicino le sonorità di Isa e di Ruun, con una chitarra secca e ruvida in primo piano e dei giri di tastiera alienanti che riprendono il tono infantile della canzone e lo torcono, lo mietono barbaramente e lo distruggono mentre il coro cerca di recuperare quei tratti fanciulleschi sbranati dall’incalzare del black metal. Il crepuscolo infinito di Bergen si tinge quindi di rosso e di nero, mentre a Blåmann segue l’altrettanto malinconica Fola Fola Blakken, altra triste ballata che vede un cavallo solitario come perno sul quale ruota e si distende ancora una volta l’incredibile voce di Marianne e i lamenti impercettibili di Grutle, il quale si concede una breve intermissione tra il mormorio corale e gli strumenti, sempre più acidi e distorti, marchio di fabbrica degli Enslaved di nuova generazione.

Passata Fola Fola Blakken, dunque, e trascorsa una breve intromissione di Ruun, potente come un terremoto, il pubblico si prepara all’incredibile e inaspettato finale: sulle note di un’atavica ninna-nanna, “Den Første Song”, il palco ritorna a popolarsi di artisti e creature. Una canzone dalla purezza quasi medievale, nella quale si racconta di un bambino che si addormenta sul seno della madre, viene aggredita ancora una volta da un arrangiamento dannatamente progressivo, un’esasperazione delle tracce più ariose di Ruun, mentre sul palco ritorna trionfale Terje Isungset con la sua munnharpe elettrica a regalare un ritmo tribale e serrato alla performance che inizia a prendere velocità, soffocando pian piano il canto della soprano. E nel caos che inizia a irrompere nell’intera Dovregubbens Hall, giunge saltando il Sàmi con il suo profondo joik. È praticamente il delirio, una jam session unica e irripetibile formata da tre voci dissonanti che cavalcano una furiosa arpa a bocca mentre gli Enslaved faticano a trascinare gli strumenti alla folle velocità di un treno senza freni. Diciotto persone si sono alternate sul palco, ognuna donando la propria arte a quattro canzoni dimenticate da déi e uomini. Dovregubben è sul punto di franare quando di colpo la musica si ferma, 8 minuti dopo l’inizio di Den Første Song. Rimane nella memoria il ricordo di Ruun che incontra il Folk, degli Enslaved guidati a gran velocità da una soprano e da un muro corale.
Un concerto dalla bellezza sconcertante, a tratti quasi mistica; un “impulso nordico” lucido e caotico che ha strappato un caloroso applauso persino a Ole Hamre, capo supremo del festival, che si è detto trascinato da un’esperienza più unica che rara. Degli Enslaved come non sono mai stati visti, e probabilmente come non saranno mai più visti. Una lezione di stile per chi pensa che il black metal sia solo una bomba che esplode in un silos di zanzare.

Daniele “Fenrir” Balestrieri