Room With A View: studio report
Il report è stato scritto da Emilio “ARMiF3R” Sonno, a cui va il ringraziamento di Truemetal.it.
Il destino non poteva certo essere più ironico e propizio, nel pomeriggio di
sabato scorso, 26 febbraio, quando poco fuori le porte di Roma, presso il locale
“Dissesto Musicale”, i Room With A View hanno ufficialmente
presentato agli addetti ai lavori delle maggiori fan&webzine italiane, il loro
secondo nuovissimo lavoro.
Niente di meglio, infatti, che una giornata uggiosa, dal cielo decisamente
plumbeo (anche se nella capitale si tratta di una triste costante, per ben altri
motivi), per acclimatare spiritualmente tutti coloro che di lì a poco si
sarebbero apprestati all’ascolto dell’atteso “Collecting Shells At
Lighthouse Hill”.
Per chi non li conoscesse, o non ne avesse un’idea ben precisa, posso ricordare
loro che i nostri sono nati diversi anni fa col monicker di Black Thorns
Lodge, lasciandosi ispirare da artisti del calibro di Katatonia e
Novembre, in primis. Giusto il tempo di guadagnarsi i consensi della critica
con il loro primo demo-cd, targato 2000, e i BTL sono ripiombati
nell’anonimato dell’underground per tornare a fare capolino due anni più tardi,
con il nuovo nome di Room With a View, per l’appunto, e tanto di
etichetta discografica alle spalle: la, allora, neonata My Kingdom Music,
la quale aveva visto decisamente lungo sul potenziale della giovane band romana.
Al loro primo appuntamento ufficiale i RWAV si sono dimostrati subito una
delle carte veramente vincenti della nostrana label, confermando in larga
misura, e addirittura superando, le generose aspettative con un ottimo debut (First
Year Departure), uscito nell’autunno del 2002.
Da allora oltre due anni di attesa, dunque, prima di tornare a sentirne parlare
di nuovo, mentre diversi cambi nella formazione e nel loro orientamento musicale
si erano nel frattempo registrati, suscitando svariati interrogativi sulle sorti
del combo e della loro musica.
Era quindi comprensibile il fervente stato d’animo che accompagnava i presenti,
riuniti in quel locale, per la precisione un capannone abusivo, sito nella zona
industriale dei Bagni di Tivoli, dall’aspetto apparentemente inospitale, ma
all’interno perfettamente attrezzato per serate di svago musicale: un piccolo
salottino all’entrata con tanto di stufa a legna, una grande sala di fronte
all’ingresso allestita per gli appuntamenti live e una spaziosa sala prove sulla
destra, dove presto avremmo trovato il modo di quietare la nostra curiosità.
Mentre fuori la pioggia cadeva copiosa nascondendo gli ultimi flebili sprazzi di
un pallido sole, il quartetto al completo, assieme a Francesco Palombo
della My Kingdom Music, ci invitava ad accomodarci nella stanza
predisposta per l’ascolto. La nostra impazienza veniva prolungata da una breve
introduzione fatta da Francesco Grasso (voce e chitarra) mentre il resto
del gruppo si sedeva in disparte, con altrettanta impazienza, nel voler
constatare la nostra reazione.
Caduto quindi il silenzio, il tasto play veniva infine premuto. Nei 35 minuti
seguenti, le nove tracce, si dimostravano una vera rivelazione: sin dalle
primissime note dell’album si rimane difatti totalmente spiazzati. Lo stile dei
brani ci fa capire che due anni sono tanti e in tutto quel tempo tante cose
devono essere cambiate, prime fra tutte le primordiali influenze dei nostri
quattro, lasciandoci pian piano familiarizzare con l’inaspettata evoluzione
musicale fatta dai Room With A View, che sembrerebbe dapprima avvicinarli
a lidi pericolosamente commerciali e abusati.
Una sensazione che comunque d’impatto lascia, almeno a livello personale,
piuttosto allibiti, spaesati, quasi a volersi chiedere se trattasi dello stesso
combo fino ad allora conosciuto o di un altro omonimo.
Colpisce, al di là di ogni cosa, la produzione incredibilmente cristallina,
opera di una buona registrazione certo, ma, con tutta sicurezza, soprattutto del
magistrale lavoro fatto da un (purtroppo) assente (giustificato) di tutto
rispetto, lo svedese Jens Bogren: un venticinquenne tutto casa e studio
di registrazione che ha già messo mano ai lavori di Katatonia, Opeth,
Soilwork, Millencolin, … e chi più ne ha più ne metta!
Il magico tocco di Jens traspare in ciascun frangente dell’album, aiutato
dal sapiente lavoro fatto dal four-piece, che al contrario del loro primo album,
hanno qui lasciato che fossero le dinamiche, gli arrangiamenti e le strutture
delle canzoni nel loro complesso a ricevere le cure e le attenzioni maggiori, e
armonizzando tutto il resto in maniera subordinata.
Un risultato che alle nostre orecchie arriva davvero gradevole, nonostante la
mente e il cuore rimangano, lì per lì, ancora piuttosto restii dall’accettare la
nuova veste sonora, aggrappandosi con forza ad un First Year Departure
che ora inizia a suonare veramente “antico”, in tutti i sensi, e non soltanto
per la sua impostazione stilistica.
Le influenze provenienti da oltreoceano, che portano con loro tanto “core”,
sono ciò che più fa (lo ammetto) storcere il naso di primo acchito, lasciando
credere che sia impossibile trovare linee di continuità con un passato quasi
rimpianto, dal quale continuano ad essere riprese soltanto le contaminazioni
pop e wave di scuola inglese (specie quelle a cavallo tra gli ’80s e
i ‘90s), prima tenute leggermente più in ombra, ma che qui hanno modo di
esprimersi, dando forma ad una musica fortemente emozionale.
Invece, sarà l’accessibilità della proposta musicale, sarà che a ben vedere
qualche reminescenza ancora traspare, sarà che l’impatto iniziale viene pian
paino digerito, sarà che la line up risulta enormemente maturata, eppure quando
mi sono alzato da quella sedia non ero affatto deluso, semmai curioso di
conoscere come avrebbe potuto suonare un album che avesse avuto la possibilità
di uscire nel 2003: di sicuro sarebbe stato un tassello fondamentale per
comprendere il percorso musicale dei nostri, che avrebbe certamente ammortizzato
il mio stupore e quello degli altri ascoltatori.
Il contributo fornito dai due nuovi elementi, già Exiled on Earth,
Gino Palombi (basso) e Piero Arioni (batteria), si sente più che
bene: una sezione ritmica oramai ben rodata, che non si lascia spaventare da
atmosfere più ariose e meno possenti di quelle da loro comunemente “masticate”.
Il tasso tecnico che si riscontra nel complesso è piuttosto elevato, con tempi
che raramente ricadono nel quattro quarti e con bacchette che sembrano non
conoscere il significato della parola “battere”, ma assai bene quello di
“levare”.
Per quanto riguarda i due membri storici della formazione gli elogi non sono
certo minori: l’attitudine meno chitarristica di “Collecting Shells At
Lighthouse Hill” potrebbe ritagliare uno spazio apparentemente di
secondo piano per un Alessandro Mita (chitarra) invero fondamentale, che
sa ben dosare potenza, ritmo e melodia, alternandosi nel compito con l’amico
Francesco che il meglio di sé lo mostra più di tutto dal punto di vista
vocale. Un progresso senza dubbio lodevole quello fatto dal singer, che in
FYD era apparso non ancora superbo padrone delle sue corde vocali,
mentre qui ostenta sicurezza di sé e della sua ugola, divenuta energica e
camaleontica nelle sue continue sfumature.
In fin dei conti, formulare un giudizio a caldo della listening session avrebbe
quindi portato ad un responso niente affatto negativo, ma decisamente troppo
frettoloso: ci vuole un po’ di tempo per accettare e metabolizzare al 100% la
crescita artistica fatta dai RWAV.
Così, adesso che sono passati alcuni giorni, pur non avendo avuto più modo di
poter ascoltare l’album (fatta eccezione per il promo di tre pezzi distribuito
ai presenti), mi sento più sicuro del mio parere, riscontrando nella band, tanti
cambiamenti, ma la stessa voglia e lo stesso piacere di fare musica, una musica
mai banale e, nonostante l’apparenza, sempre fortemente personale.
Cos’altro aggiungere? Niente… fate assolutamente tabula rasa delle aspettative
che avevate su di loro, come essi hanno fatto con il loro oramai anacronistico
passato, intanto che io attendo, assieme a voi, che arrivi il 21 maggio per
poter tornare a sentire l’intero cd e rituffarmi nel vortice di emozioni che i
Room, alla fin fine, riescono ogni volta a regalare.