Slayer, In Flames, COB, Lamb Of God, Thine Eyes Bleed – 22 ottobre 2006 – report

Di Alberto Fittarelli - 23 Ottobre 2006 - 22:41
Slayer, In Flames, COB, Lamb Of God, Thine Eyes Bleed – 22 ottobre 2006 – report

Premessa doverosa: ci si aspettava il pienone, e pienone è stato. Un Mazda
Palace al gran completo ha infatti accolto l’ennesima calata italica degli Slayer,
supportati da un corollario di band di primo piano (perlomeno un paio di loro) a
raccogliere ulteriori fan nel saturo mercato odierno: del resto chi altri meglio
di In Flames (soprattutto) e Children Of Bodom può oggi
catalizzare l’attenzione di discretamente grosse masse di persone? La struttura
si prestava al meglio, se sorvoliamo sulle inevitabili code all’uscita del
parcheggio, e a parte un paio di cali di tensione di cui si parlerà va detto
che tutto ha funzionato a meraviglia.

Iniziamo quindi col report della serata, che nel mio caso coincide con
l’entrata in scena degli americani Lamb Of God: i connazionali Thine Eyes
Bleed
infatti sono costretto a perdermeli a causa dell’intervista con Daniel
Svensson
degli In Flames, che vedrete sul portale a breve. Stando
alle opinioni raccolte tra il pubblico si è trattata di un’esibizione
abbastanza anonima, segnata da suoni più che scadenti e che ha fatto ben
comprendere come essere “la band del fratello di Tom Araya” pesi
sull’inserimento di un simile bill… metalcore senza spunti particolari,
quindi, che ha lasciato indifferente l’audience: ma è un po’ il destino degli
opener.

Altro discorso per i Lamb Of God, che riescono a muovere con forza la
platea creando il primo vero pogo della serata con il loro metal/hardcore in
verità tutt’altro che originale, unendo gli ultimi Pantera all’hardcore di
stampo newyorkese: volonterosi e ben presenti sul palco, specie nella persona
del cantante D. Randall Blythe, vedono però i loro pezzi fondersi tra
loro in un pastone ben presto abbastanza monotono, e aldilà della fascia di fan
che innegabilmente raccolgono non riescono a catturare l’interesse della gente.
I suoni sono migliorati nel frattempo, ma i Lamb sono i primi a subire
un’improvvisa interruzione dei suoni sul palco: tutto si spegne e il gruppo è
costretto a lasciare momentaneamente lo stage, per poi tornare (scusandosi, ed
è questo che li distinguerà da chi li segue) e riprendere il concerto con
l’energia di prima. In sostanza la musica non lascia molto, ma l’attitudine e
l’impegno contano parecchio.

È quindi l’ora degli attesissimi Children Of Bodom, altra band
decisamente abituata a calcare il suolo italico: dopo una non brevissima intro
da avanspettacolo, con uno speaker che li presenta come fossero attori comici, i
cinque finlandesi si lanciano in una forzatamente breve setlist che però li
vede partire con suoni abbastanza spenti, ma soprattutto con una carica
dimezzata rispetto a quella cui i fan sono abituati. Una scaletta abbastanza ben
bilanciata li vede arrivare finalmente carichi alla terza canzone in programma,
quella Living Dead Beat che sembra lanciarli al massimo dell’energia… e
l’impianto salta di nuovo. Da segnalare che, a differenza di quanto mostrato dai
Lamb Of God, qui Alexi Lahio, in piena coerenza con la sua figura da
mini-rockstar, si mette a insultare non si sa bene chi mimandone il taglio della
gola, ma tant’è… dopo qualche minuto la band torna sul palco, ma è evidente
che la carica si è di nuovo persa, almeno in parte. Ovviamente un loro show non
è certo un concerto jazz, ma è lampante che stasera manchi qualcosa ai Bodom,
e chi li ha visti diverse volte se ne sarà reso conto. Una chiusura con la
bella Downfall lascia comunque i fan soddisfatti, senza contare chi era
in platea e ha avuto modo di scatenare il proprio pogo in attesa degli headliner.

Ed eccoci quindi arrivati a quella che forse era la band che accentrava su di
sé la maggior quantità di aspettative, se non altro per la curiosità che
attornia ogni loro show: gli svedesi In Flames lasciano a bocca aperta
ogni volta che li si vede dal vivo, c’è poco da fare. Un’intro ben più
d’impatto di quella dei COB, cioè il tema portante della sigla del celeberrimo
telefilm Supercar, con tanto di led luminosi ad imitare l’equivalente
della supermacchina Kit, appunto, li lancia sul palco con la solita grande
spettacolarità. E, al contrario di quello che mi ha fatto capire Daniel in sede
d’intervista, la band ha deciso stasera di pescare da un po’ tutto il proprio
repertorio, stupendo la gente con pezzi come Graveland (che Anders
Fridén
introduce spiegando che in caso di accoglienza negativa non sarà
mai più riproposta dalla band: ovviamente è un boato ad accoglierla, anche se
a dire il vero sembra sia stata quella meno riconosciuta dl lotto…); non
mancano poi i grandi cavalli di battaglia degli infiammati, ma vengono scelti
tra quelli moderni, lasciando quindi da parte in toto Whoracle e
consentendo alla sola, devastante Behind Space di rappresentare gli
“early years” del combo. Sono pezzi come The Quiet Place, Cloud
Connected
o Take This Life, senza diomenticare l’inno Only For The
Weak
, a far saltare letteralmente la gente, grazie anche al carisma di Fridén,
ormai rodatissimo frontman. La band ha dimostrato di essere perfettamente in
grado di calcare grossi palchi e, al di là di ogni stupido pregiudizio, di
essere una delle poche a potersi candidare come “mostro sacro” per il
futuro. Show da 9 secco.

Prima di parlare degli Slayer accenniamo per un attimo alle attese che
gravavano sull aband dopo la reunion con il drummer originario, quel Dave
Lombardo
che sembra quasi irriconoscibile mentre gironzola nel backstage con
il compagno di squadra Kerry King: smagrito all’eccesso, il batterista dava
comunque l’impressione di essere perfettamente a suo agio, dopo anni e anni,
nella formazione americana. E così anche sul palco, dato che la scaletta
incentrata sulle vecchie glorie della band ne ha enfatizzato le capacità al
massimo grado: con una partenza al fulmicotone marcata dalla moderna e
bellissima Disciple il quartetto USA vede i primi corpi volare davanti al palco,
ma è con i brani successivi che la bolgia si fa irrefrenabile. War Ensemble,
Die By The Sword, Mandatory Suicide, una Season In The Abyss
da brividi sono solo alcune delle tracce che gli Slayer decidono di dare
in pasto agli aficionados che tributano loro tanto affetto, lasciando alla sola Eyes Of The Insane
il compito di rappresentare il nuovo (e tutt’altro che eccezionale) album. Una
scenografia pacchiana al punto giusto (con due enormi colonne di Marshall
disposti a croce rovesciata e un telone sullo sfondo su cui vengono proiettate
immagini di guerra o dei vari artwork della band) fa da cornice ad una
prestazione maiuscola da parte di tutti, e dico tutti i membri della band: sì,
anche Tom Araya sembra graziato dalla serata come non accadeva da
tempo, e carica ogni brano con la sua tipica voce abrasiva. Una Angel Of
Death
come non veniva eseguita da tempo e tempo corona il tutto, lasciando
la gente felice di aver speso non pochissimi soldi per uno spettacolo di tutto
rispetto (e magari per aver perso qualche arto o organo interno nel classico
pogo “da Slayer”).

Una serata assolutamente in grado di ripagare le attese, quindi, con
divertimento assicurato per i fan dei gruppi e una sola, grande questione: al di
là di In Flames e pochi altri, una volta che i “mostri sacri” saranno
spariti che succederà al metal?

Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli