Steve Hackett
Quando venni a conoscenza della possibilità di intervista Steve Hackett, preparai seduta stante una copiosa lista di domande su presente, passato e futuro di cotanta leggenda del rock progressivo. Ricordavo che il personaggio di Steve veniva spesso descritto come riservato e un po’ schivo, e per questo pensavo che le sue risposte sarebbero potute essere piuttosto dirette e concise. Mi sbagliavo. Durante l’intervista, man mano che il tempo passava, il numero di domande che depennavo dalla lista cresceva sempre più, vuoi perché indirettamente ricevevano risposta mentre Steve replicava a qualche altro interrogativo, vuoi perché mi rendevo conto che, di fronte a spiegazioni tanto esaurienti, il poco tempo a disposizione imponeva dei tagli. Ecco dunque le risposte fiume che Steve Hackett ha dato alle domande che sono riuscito a porgli, risposte che hanno consumato uno a uno i trenta minuti a disposizione per l’intervista fino all’ultimo secondo, e anche qualcosa in più. Buona lettura.
Allora Steve, parlami un po’ del tuo nuovo album. Come mai hai scelto questo titolo, “Wild Orchids”?
É collegato con i personaggi dell’album. Vedi, anche la cover dell’album raffiigura un soggetto che per me è molto comunicativo. E’ una donna, un fiore, ma c’è un conflitto dentro di lei, come tra una personalità maschile e una femminile. Una la spinge in una direzione, l’altra in quella opposta. L’idea in origine mi è venuta in mente per il titolo del quadro, poi riflettendoci ho pensato che sarebbe stato un buon titolo per l’album in generale.
Nel corso della tua carriera, e negli ultimi anni in particolare, hai realizzato degli album di musica classica, come “A Midsummer Night’s Dream” e “Metamorpheus”, e album in stile rock, come Guitar Noir o Darktown o To Watch the Storms. In qualche modo, “Wild Orchids” amalgama queste due correnti, e non solo queste, così da creare un sound del tutto nuovo, impossibile da definire con le solite etichette. Se dovessi scegliere un nome da dargli, come lo chiameresti?
C’è un’espressione che sono solito utilizzare per riferirmi a quello che faccio: “collision”. È un nome che mi è venuto in mente qualche anno fa, e mi piace pensare che si riferisca a una via alternativa tra progressive e fusion. Vuole indicare la collisione tra differenti culture, una collisione che dà vita a qualcosa di diverso da quello che un certo tipo di suono esprimeva alle sue origini etniche. Per esempio se prendi “Waters of the Wild”: è influenzata dalla musica indiana, ma ci sono anche tracce di musica occidentale, e anche di musica turca. Queste altre culture sono in genere basate sui ritmi, non sulle armonie, come accade con la musica dell’ovest. Partono da premesse diverse. E questo è ciò che trovo di interessante nella musica orientale, il fatto che tu possa essere in grado di muoverti in direzioni diverse, avere il piacere di esprimerti liberamente, per vie diverse ma in definitiva nello stesso modo in cui l’occidente si esprime attraverso il blues, il jazz, e naturalmente attraverso la musica classica. Poi uno può pensare che la musica classica non sia necessariamente una forma libera, tuttavia è possibile che si trovino forme libere di musica classica. Ciò che io cerco di fare è appunto riscrivere le pagine e inventare forme d’espressione differenti; in altre parole, fare in modo che le altre persone possano sentire il moderno accanto al tradizionale.
In un certo senso, questo ha ancora a che fare con la musica prog. Tuttavia la gente crede che suonare prog significhi creare canzoni lunghe, piene di parti strumentali… una cosa del genere potrebbe esserci anche nella musica che io chiamo “collision”, ma ciò che è importante perché la musica rimanga libera, anche quando scrivi canzoni brevi, è utilizzare influenze diverse per portare avanti lo stesso suono, lo stesso concetto… non so se mi spiego (più o meno… ndr). In ogni caso, questa è la mia concezione di musica, e non è certo detto che debba essere condivisa dagli altri. È semplicemente il modo in cui spiego quello che faccio.
Ora una domanda veloce veloce. Quando hai cominciato a scrivere queste canzoni?
Dunque, per fare la versione lunga dell’album, quella con diciassette brani, ho impiegato più o meno diciotto mesi, un anno e mezzo circa.
Bene… passiamo ad altro. Dopo una carriera quasi quarantennale, ci si potrebbe aspettare che un musicista decida di assestare il proprio stile su coordinate musicali abbastanza stabili, come hanno fatto molte band che realizzano album ora buoni ora meno buoni, ma pur sempre fedeli a un certo discorso musicale. Tuttavia, guardando anche solo le tue produzione dell’ultimo decennio, questo non sembra essere il tuo caso. Da dove prendi ispirazione quando componi? Non pensi che tanti cambiamenti di stile da un album all’altro possano confondere il tuo pubblico?
In realtà non ci posso fare nulla: sono influenzato da qualsiasi cosa con cui vengo in contatto. Senza dubbio il mondo dell’arte e della pittura è molto importante per me. Mi piace vedere come vengo influenzato dal visitare una galleria d’arte. Se vedo arte cubista, mi fa pensare a qualcosa di angolare e spigoloso, che provo a tradurre in musica. Se vedo arte espressionista, probabilmente sarò colpito dalle tinte forti, appariscenti. Sono interessato a ogni forma di arte, anche a quella simbolista per esempio, o al surrealismo. In qualche modo, tutto mi influenza. Come la pittura, così mi influenza anche la scultura, per esempio le opere di Rodin. E non solo, anche la letteratura, ogni libro che leggo mi aiuta a trovare l’ispirazione. Insomma, tutto ciò che incontro mi colpisce in qualche modo, resta dentro di me, e più vado avanti nella vita, più trovo interessante ciò che non esiste più. Per esempio, gli anni cinquanta, in cui sono cresciuto, con i loro ricordi mi hanno spinto a scrivere il brano “To a Close”. È un brano che richiama da vicino la musica di quegli anni, anche se in chiave orchestrale. Ha anche una componente, come dire, un po’ kitsch, un sentimentalismo esasperato. Non penso che tutti lo apprezzeranno, per molti sarà troppo zuccherino, ma è così perché quella è la natura della musica che ascoltavo a quei tempi, il pop romantico…
…soprattutto quello americano…
Esatto! Era un sound prettamente americano. Certamente, non tutte le canzoni erano così, ma questa è una canzone su una donna passionale, quindi trovo che questo eccesso di sentimentalismo sia in qualche modo appropriato, rispecchia la sua natura.
Bene… parlando di progressive rock in generale, c’è chi dice che la musica prog sia nata e morta con le grandi band emerse agli albori degli anni settanta, come i King Crimson, gli Yes, Emerson Lake & Palmer e naturalmente i Genesis. Altri ritengono che suonare progressive significhi sperimentare e cercare nuove soluzioni attraverso la sintesi di stili diversi.
Ora, si dà il caso che tu del prog rock abbia contribuito a scrivere la storia. Qual è la tua opinione a riguardo dunque?
Beh, la parola “progressive” in orgine era riferita al lavoro di Edward Elgar nei primi anni del novecento. Ora, forse non molte persone nel mondo del rock ne sono al corrente, ma è una questione che a me interessa molto, perché il termine inizialmente era connesso alla musica classica, in particolare musica che raccontava delle storie, In seguito venna applicato al jazz, e la gente cominciò a riferirlo alla musica di Ornette Coleman, di Miles Davis… poi il termine andò fuori moda per una ventina d’anni e tornò in auge per descrivere un certo tipo di rock. Penso che in questo campo, in poche parole, si riferisca a un genere di rock basato sul suono dell’organo Hammond e del Mellotron. Se non hai un Hammond o un Mellotron, non puoi veramente farti chiamare progressive. In qualche altra accezione, penso che sia utilizzato per descrivere musica influenzata dalla musica classica, nella quale viene usata una tastiera per sostituire l’orchestra. La sola differenza con quello che faccio io adesso è che noi non utilizziamo molto la tastiera, perché di fatto il suo ruolo viene svolto dall’orchestra. Ma altre persone potrebbero dire che la differenza è un’altra, e tirar fuori dei problemi di semantica. Insomma, non posso dirti in modo assoluto e definitivo che cosa è il prog… per esempio uno potrebbe dire che la musica progressive è stata definita da quello che i Beatles hanno fatto in Abbey Road. In altre parole, musica sequenziale, canzoni brevi collegate insieme per formare lunghe forme di pop music. Quindi per qualcuno significa canzoni lunghe, per altri significa musica che racconta storie, per altri musica con tempi dispari, per altri ancora un insieme di rock e jazz e classica e pop e via dicendo. Alla fine dei conti tutte queste definizioni si addicono al prog, ma a mio avviso la questione centrale sta nell’uso di Hammond e Mellotron. Con questi, un gruppo, un piccolo gruppo, può suonare come un’orchetra. Poi, nel tempo questi strumenti sono stati sviluppati oltre i loro limiti iniziali…
Parliamo ora di tecnica: oggi sei anche famoso per le innovazioni che hai portato nel mondo della chitarra. Quindi mi piacerebbe sapere: quanto è importante per te l’abilità tecnica nel fare musica?
Vedi, forse la tecnica più famosa che ho trovato, per quanto riguarda la chitarra, è il tapping…
…che molti invece son soliti attribuire a Van Halen…
…sì è vero, ma io l’ho usata nel 1971 su “Nursery Crime”, nel 1972 su “Foxtrot” e nel 1973 su “Selling England By The Pound”. All’inizio cercavo di suonare su chitarra un pezzo di musica classica, e per riuscirci l’unico modo era usare il tapping. In seguito ho sviluppato altre tecniche, per la chitarra elettrica e per la chitarra classica, ma penso che la musica non sia tanto una questione di tecnica, quanto di passione e di idee. Un musicista inizia con la passione e finisce con la tecnica. Ciò che è importante è riuscire a concentrare la tua passione nell’esplorazione di nuove idee, senza fare troppo affidamento sulle tecniche. E se smetti di preoccuparti di suonare veloce, magari potresti anche escogitare delle nuove tecniche. È una cosa naturale. Poi, certamente altre persone ti diranno che suonare veloce è semplicemente una conseguenza del suonare in modo corretto, e se vuoi imparare davvero devi allenarti a lungo e prendere lezioni per diventare il chitarrista più veloce del mondo. Tutto corretto, ma in futuro potrà sempre esserci qualcuno più veloce, e se vuoi davvero essere ricordato per la tua musica, non devi concentrarti sulla tecnica e sulla velocità, ma su quello che vuoi esprimere. Attualmente, sono molto interessato allo studio delle tonalità. Penso che ognuno, ogni strumento abbia un suo suono specifico. Per esempio, dal suono di un piano posso riconoscere quel particolare pianoforte suonato dall’Orcestra Filarmonica di Berlino diretta da Herbert Vor Karajan che suonava Rachmaninov e Tchaikovsky, perché aveva un suono unico e meraviglioso. In definitiva, ritengo che la tonalità e la qualità del suono siano più importanti della velocità.
Ora se non è un problema vorrei porti un paio di domande sui tuoi trascorsi nelle fila dei Genesis.
Dimmi pure.
La tua storia con i Genesis è iniziata nel 1970 con un annuncio pubblicitario che recitava pressapoco così: “chitarrista cerca musicista determinati a superare le stagnanti forme musicali odierne”. Hai mai pensato a quel che sarebbe potuto essere cambiata la tua vita se non avessi pubblicato quell’annuncio?
È vero, è buffo vedere come gli eventi hanno combaciato, perché proprio in quel periodo i Genesis avevano scritto una canzone intitolata “Stagnation”, così penso che fossimo entrambi ispirati nel cercare di superare le vecchie forme di musica, volevamo cambiare le cose. Quindi hai ragione, se non avessi scritto quell’annuncio, se non avessi scritto quelle precise parole, probabilmente la mia vita avrebbe preso una direzione completamente diversa. Ma penso che avrei continuato fino a che qualcosa non fosse successo. Lo sai, la fortuna gioca sempre la sua parte quando si tratta di imboccare la direzione giusta. Ma in ogni caso avrei continuato a provare, perché non sono capace di fermarmi. Non mi interessano le critiche, non mi interessa quanto avverse siano le circostanze, non sono queste le cose che mi fermano. È importante andare avanti, in un certo senso anche spiritualmente. Non perdere mai la determinazione, le tue motivazioni, i tuoi sogni. Non dimenticare chi sei, e agire quando sei nella posizione di fare qualcosa, perché la vita è una sola, non sappiamo se e che cosa ci sia dopo, quindi in questa vita dobbiamo fare tutto quel che possiamo. Bisogna guardare avanti.
Come darti torto…
Parlando ancora dei Genesis, tra gli album che hai realizzato con loro, ce n’è qualcuno a cui ti senti particolarmente legato?
Ho sempre avuto una predilezione per “Selling England By The Pound” (a chi lo dici, ndr). È stato un bel periodo per me, e ritengo che ci siano delle gran belle idee su quell’album. Ma in ogni disco c’è per me qualcosa di speciale. Amo molto “The Fountain of Salmacis” e “Musical Box” da “Nursery Crime”, “Watcher of the Skies” e “Willow Farm” da “Foxtrot”, su “Selling England by the Pound” come ti ho detto ci sono molte intuizioni che mi piacciono parecchio… anche su “The Lamb Lies Down on Broadway” ci sono pezzi come “Flying on the Windshield”… adoro le tastiere di quell’album… e naturalmente anche da “Trick of the Tail”, pezzi come “Dance on a Volcano”, “Los Endos”… insomma, per ogni album ci sono delle cose a cui sono affezionato, ognuna ha le sue peculiarità.
Facciamo un piccolo balzo in avanti: a metà degli anni ottanta hai messo su una band insieme a Steve Howe, i GTR. Cosa puoi dirmi di quei giorni, e della fine precoce di quel progetto?
In origine dovevamo solo fare un album insieme, ma presto sembrò che ci sarebbe stata molta attenzione su quel progetto se avessimo creato una vera e propria band, cosa che finimmo per fare. Il gruppo andò molto bene in termini commerciali, ma a mio parere non realizzò il suo potenziale in termini creativi. Penso che la band sia rimasta compromessa sul piano del successo… sì insomma, per me il suo potenziale era davvero interessante, ma non fu capace di esprimerlo, e per questo preferii abbandonarla per dedicarmi ad altro.
Nel mondo della musica in generale, e del rock in particolare, ci sono musicisti che si concentrano esclusivamente sulla dimensione musicale, mentre ce ne sono altri per i quali ha grande rilevanza anche il look, la scenografia, lo stile visivo con cui si presentano al pubblico. Che cosa pensi di questi diversi approcci?
Sono cresciuto in un’era in cui la radio era più potente della televisione, e in cui l’underground era più potente della radio. Personaggi come John Peel avevano molta influenza sulla scena musicale. A quei tempi, era possibile per una band salire alla ribalta dal nulla, come successe per esempio ai Pink Floyd. Per rispondere alla tua domanda, nel mio caso la musica che faccio è molto visiva già di per sé, mira non solo all’orecchio ma anche all’occhio. In generale preferisco musicisti con l’immagine di uno che fa la musica, piuttosto che gente che si preoccupa di seguire le mode con capelli lunghi, capelli corti o niente capelli del tutto…
(a questo punto Steve si scusa e mi fa notare che la mezz’ora di tempo a nostra disposizione è agli sgoccioli, e che subito dopo ha un’altra intervista che lo attende)
Bene, un’ultima domanda: a quando un concerto in Italia?
Lo spero, sicuramente in futuro verrò, solo che non so quanto ci vorrà, perché al momento sto seguendo un sacco di progetti, sto facendo dei concerti acustici… quindi non so quando avrò la possibilità di venire in Italia, almeno con la rock band, visto che per ora devo concentrarmi sui lavori in studio, magari girare qualche video… non che faccia dei video particolarmente elaborati o costosi, per me non sono così importanti, non so se mi spiego… sono un animale di un’altra razza, se capisci quel che voglio dire, vengo da un’epoca diversa.
Perfetto, Steve. Avrei avuto molte altre domande da farti, ma il tempo è tiranno. Ti ringrazio, è stato un piacere parlare con te.
Grazie a te Riccardo, il piacere è tutto mio. Un saluto anche ai tuoi lettori!