TrueMetalStories: le covers nell’Heavy Metal
Ogni artista famoso, prima di arrivare ad esprimere quello che aveva dentro, si è affidato alla guida di un insegnante: Raffaello fu allievo del Perugino, Michelangelo di Domenico Ghirlandaio, Leonardo di Andrea del Verrocchio e Donatello di Lorenzo Ghiberti (… e così abbiamo citato tutte le ‘Tartarughe Ninja’).
Anche i musicisti hanno avuto maestri che hanno insegnato loro a suonare e pochissimi sono gli autodidatti che sono arrivati al successo (un esempio Joe Perry, che ha imparato a suonare la chitarra attraverso la lettura di un testo, tanto è vero che imbraccia il suo strumento da destro pur essendo mancino). Ma quello che conta davvero, in particolare nel mondo del rock, sono le ‘influenze’, ossia quello che piace ascoltare al novello musicista, facendogli capire cosa scorre nelle sue vene e indicandogli la strada da intraprendere.
Chi è diventato nostro idolo, a sua volta aveva i propri, che lo hanno fatto sognare e convinto a provare e chi ha avuto l’ardire, la stoffa, la perseveranza e, a volte, un poco di fortuna ce l’ha fatta.
Ed è così che nascono le cover, ossia canzoni già pubblicate riproposte da altri musicisti.
Questo articolo analizza alcune di esse, in particolare quelle la cui versione originale è di epoca antecedente alla nascita dell’Heavy Metal ma anche qualcuna venuta dopo, cercando le differenze ed i punti in comune tra gli arrangiamenti.
Buona lettura.
‘You Really Got Me’
Siamo all’inizio degli anni ’60, alle porte della beat generation. La musica coinvolge sempre di più i giovani, le band cominciano a moltiplicarsi e tra queste c’è chi vuole distaccarsi e diventare unica per far conoscere al mondo quello che pensa. Il gruppo inglese The Kinks lo fa nel 1964, quattro anni dopo la sua nascita, con l’album d’esordio omonimo. Il platter contiene ‘You Really Got Me’, canzone dal riff distorto, duro e grintoso, per l’epoca rivoluzionario ed in pieno contrasto con la normalità (‘Satisfation’ dei Rolling Stones uscirà l’anno dopo). Il cantato sfrontato (ancora il termine ‘punk’ non c’era), il refrain diretto e le tastiere presenti, ma in secondo piano rispetto alla chitarra, fecero breccia ed il brano divenne un successo.
Storicamente è riconosciuto da molti come il primo brano Hard Rock, la nascita del cambiamento.
Quattordici anni dopo, nel 1978, esce il primo album dei Van Halen, enorme successo discografico, con all’interno la cover di ‘You Really Got Me’.
Il quartetto californiano interpreta il pezzo rispettando il lavoro dei Kinks ma seguendo il proprio stile, rendendolo ancora più dirompente, indurendone ed accelerandone il riff ed utilizzando la sezione ritmica come un ariete. E’ Heavy Metal pieno, senza compromessi, con un assolo da brivido e la voce di David Lee Roth che deflagra ed, al tempo stesso, seduce. Rimane in comune con l’originale la sfrontatezza, ma i Van Halen ci tengono a far sentire che i tempi sono cambiati.
‘Purple Haze’
Nel 1967 i The Jimi Hendrix Experience pubblicavano il primo album ‘Are You Experienced’. Di Jimi Hendrix è inutile parlare: il talentuoso ma sfortunato chitarrista ha influenzato chiunque abbia imbracciato una ‘sei corde’ dopo di lui.
‘Purple Haze’ rappresenta il suo carattere: un riff greve ed elettrico, un brano sofferto ed angoscioso per quanto ritmato, con un assolo incredibile formato da chitarra e tastiere. E’, al tempo stesso, un brano dai forti connotati Hard Rock con venature psichedeliche, come andava in quegli anni.
Chi meglio di Ozzy Osbourne poteva interpretare un brano simile? Fu inserito nella raccolta ‘Starway to Heaven / Highway to Hell’ del 1989, alla quale parteciparono i musicisti che salirono, nello stesso anno, sul palco del Moscow Music Peace Festival (una delle prime manifestazioni musicali aperte nell’ex URSS). Successivamente fu inclusa nel cofanetto ‘Prince of Darkness’ del 2005.
Il brano si distacca molto dall’originale, con una ritmica dura e martellante ma, la voce particolare di Ozzy ne mantiene la cupezza e la disperazione. Alla chitarra c’è Zakk Wylde, successore di Jake E. Lee e, guarda caso, molto somigliante fisicamente al compianto Randy Rhoads. I suoi assoli sono articolati, violenti e lunghi ma nulla hanno a che vedere con l’impronta stilistica di Hendrix.
Per questo motivo la cover dura quasi il doppio dell’originale. E’ sicuramente un pezzo valido ma Zakk Wilde, per quanto talentuoso e capace, non riesce a trasmettere l’emozione intensa e struggente che provoca ancora oggi Jimi Hendrix quando lo si ascolta.
‘Helter Skelter’
Siamo nel 1968, i Beatles non sono più dei ragazzini che suonano Rock ‘N’ Roll, elegantemente vestiti con giacca e cravatta, infiammando il cuore delle ragazze. Hanno cominciato ad evolvere artisticamente, ricercando sonorità più complesse e creative, come dimostra ‘Revolver’, album del 1966. In qualche modo intraprendono una direzione Progressive. Le esperienze di vita aumentano, culminando nel fondamentale viaggio in India presso la scuola di pensiero di ‘rigenerazione spirituale’ del guru Maharishi Mahesh Yogi. Inoltre si ampliano le fratture: i Beatles non sono più un gruppo ma quattro singoli musicisti che suonano assieme. Il risultato di tutto questo è ‘The Beatles’, conosciuto anche come ‘White Album’, (vi ricorda qualcuno dell’ambiente metallico che fece una cosa simile nel 1991?) nono album uscito nel 1968. Composto da due dischi è un lavoro che unisce sonorità classiche dei Beatles ad altre più sperimentali: ci sono ballate, filastrocche, brani allucinogeni ma anche Rock vivo e, soprattutto, duro. ‘Helter Skelter’ rientra in quest’ultima categoria: profondamente violenta e dissonante, con un riff prepotente, un basso aggressivo che scandisce il tempo brutalmente, il cantato ‘urlato’ di Paul McCartney ed un finale che sembra non arrivare mai, è la genesi dell’Heavy Metal.
Gli americani Motley Crue nel 1983 pubblicano ‘Shout at the Devil’, album esplosivo portatore di rabbia e ribellione che li consacra al successo, con brani roboanti che vanno ben oltre il pesante look glam con il quale il combo si mette in evidenza all’epoca.
I Motley Crue omaggiano i Beatles pubblicando, oltre all’edizione di ‘Shout at the Devil’ con la ben nota cover nera con il pentacolo, anche una seconda, praticamente identica alla copertina di ‘Let it Be’, ultimo lavoro degli ‘Scarafaggi’.
Non solo, nell’album, introdotta dalla melodica ‘God bless the Children of the Beast’, si trova la loro versione di ‘Helter Skelter’.
Il pezzo è ulteriormente appesantito, con il riff suonato più greve e veloce e la batteria secondo stili più moderni. La voce di Vince Neil è graffiante e rabbiosa, anche se non riesce a dare la stessa ombra di violenza esposta da Paul McCartney, complice la troppa diversità, la prima dai toni più sfacciati, la seconda più seria ed accusatoria. E’ comunque un brano che ben completa il mitico ‘Shout at the Devil’.
‘Born To Be Wild’
Gli Steppenwolf sono un gruppo rock formato, nel 1967, da elementi canadesi e statunitensi, diventati tra i gruppi più rappresentativi della contestazione hippie.
La loro musica è un insieme di elementi blues, country e rock miscelati tutti assieme.
La loro canzone ‘Born to be wild’, facente parte dell’album di esordio ‘Steppenwolf’ del 1968 ed inclusa nella colonna sonora del film ‘Easy Rider’, contiene il famoso verso ‘Heavy Metal Thunder’, riferito allo scoppiettare delle marmitte delle moto. Per questo gli si attribuisce il valore di primo brano Heavy Metal.
Il riff è tagliente, il basso incisivo, la voce grintosa e suadente allo stesso tempo, il refrain è coinvolgente con una batteria che impazzisce. Si occupa dell’assolo il tastierista, con la ritmica di chitarra e basso che rendono i suoni un po’ psichedelici. Anche se non può dirsi un brano Hevy Metal ha comunque contribuito alla sua nascita, soprattutto per come riesce a rendere l’idea di voglia di libertà.
Il pezzo viene arrangiato nuovamente dagli americani Blue Öyster Cult, che lo inseriscono nell’album live ‘On Your Feet or on Your Knees’ del 1975.
La loro versione è più cupa, con la voce di Eric Bloom più dura e tenebrosa, ma è anche più elettrica, con maggiore evidenza delle chitarre e con un ottimo assolo. Il pezzo è diventato un loro un cavallo da battaglia da lanciare sfrenato sui palchi.
‘In a gadda da Vidda’
‘In a Gadda da Vidda’ (storpiatura del verso ‘In The Garden of Eden’ della quale non ci chiediamo come sia venuta fuori …) fa parte dell’album omonimo degli Iron Batterfly, pubblicato nel 1968. Occupa l’intero lato B del disco e dura oltre 17 minuti. Brano psichedelico e cupo, è composto da una prima sezione cantata, dominata da un riff ridondante ed allucinogeno ed una voce sofferente, una lunga sezione centrale strumentale ed una terza sezione che riprende la prima.
La parte centrale mette in luce tutti gli strumenti: tastiere allucinogene accompagnate dallo stesso riff, un assolo di chitarra con effetto waa waa seguito dal basso e poi uno lunghissimo di batteria nel quale s’insinua, lentamente ma con costanza, una sinfonia di tastiere. Poi la sezione riprende dissonante e psichedelica con un nuovo assolo di chitarra straziante prima delle strofe conclusive.
Gli Slayer sono, come loro solito, molto più concreti: registrano la propria versione di ‘In a Gadda da Vidda’ per la colonna sonora di ‘Less Than Zero’ del 1987 (titolo italiano ‘Al di là di tutti i limiti’), film drammatico che parla del problema della droga, trasformandolo in un ‘semplice’ Metal accelerando riff, strofe e refrain ed utilizzando la doppia cassa. Di psichedelico non rimane nulla e la lunga sezione musicale viene sostituita da un breve scambio di assoli tra Kerry King ed il compianto Jeff Hanneman, tanto che il pezzo passa dagli oltre diciassette minuti a poco meno di tre. Per quanto ridotto, il brano è incisivo e fa un po’ da apripista all’album che uscirà poco dopo: ‘South of Heaven’ del 1988.
‘Good Times Bad Times’
I Led Zeppelin si presentano al mondo discografico alla grande con l’album omonimo del 1969. Ad aprire le danze spetta proprio a lei: ‘Good Times Bad Times’ una traccia relativamente dura che manifesta, in pochi minuti, la forza del gruppo: la batteria incredibile del mai troppo compianto John Bonham, la voce senza limiti di Robert Plant, l’estrema orecchiabilità del refrain che entra subito in testa e l’assolo intenso e stupefacente di Jimmy Page mettono subito le cose in chiaro: ‘c’è una nuova band in città …’ ed intende rimanerci a lungo.
I Thrasher Nuclear Assault propongono la loro versione di ‘Good Times Bad Times’ nel fondamentale ‘Survive’, loro secondo album del 1988. Il pezzo picchia molto più duramente della versione originale, con la voce graffiante di John Connelly e la sezione ritmica che fanno deragliare il pezzo dai binari dell’Hard Rock a quello dell’Heavy Metal, dandogli anche una punta di Hardcore. L’assolo è forte ed incisivo anche se imparagonabile con quello di Jimmy Page, ma su questo non ci poteva fare niente nessuno …
‘Saturday Night’s Alright For fighting’
‘Saturday Night’s Alright For fighting’ è un brano composto da Sir Elton John ed inserito nell’album ‘Goodbye Yellow Brick Road’ del 1973.
E’ uno dei suoi brani più famosi, soprattutto per la forte carica animalesca con la quale ha dominato i palchi di tutto il mondo, tanto è vero che è stato riproposto da artisti famosissimi quali i Queen e gli Who.
‘Saturday Night’s Alright For fighting’ è vero Hard rock, uscito nel periodo più glam dell’artista, quando si vestiva in modo stravagante ed ambiguo portando strani occhialoni.
Veloce, elettrico, coinvolgente, dal refrain esaltante e la voce che prende e si prende in giro allo stesso tempo, l’ottimo pianoforte, che rende tutto melodico, e le selvagge schitarrate, che ispirano ribellione, sono gli ingredienti per questo brano di enorme successo, attuale ancora oggi come nel 1973.
Ai Flotsam and Jetsam questo brano piace tanto da inserirlo nel loro secondo album ‘No Place for Disgrace’ del 1988, facendone anche un video.
I suoni sono più grevi, il pianoforte è sostituito dalla seconda chitarra ed il tutto, suonato secondo il loro stile, diventa un Thrash Metal esaltante e coinvolgente, con una gran prova vocale di Eric A. “A.K.” Knutson per un brano che sembra facile da cantare. La volontà di Elton John di rendere il brano vivo è stata ampiamente rispettata.
‘Women in Uniform’
‘Women in Uniform’ è una canzone degli Skyhooks, gruppo australiano formato nel 1973 definito ‘glam rock band’ a causa dei costumi stravaganti e del pesante trucco usato in scena, anche se i temi trattati, riguardanti il disagio sociale, viravano più verso il punk.
Il brano è tratto dall’album ‘Guilty Until Proven Insane’ del 1978 ed è entrato nella top ten dei single in Australia.
E’ un rock sfacciato che prende in giro, con andature punk ma dalle linee comunque dure. Il tempo è scandito da un battito di mani che rende il tutto anche allegro mentre la parte solista è melodica, quasi ballabile, in netta contrapposizione con il resto. La voce graffiante, sull’acuto, è un elemento portante del pezzo e gli urletti che si sentono accentuano il carattere glamour della band.
Sono gli Iron Maiden che, nel 1980, propongono loro la versione di ‘Women in Uniform’ producendo un singolo che rimarrà tale.
Il pezzo è perfettamente adeguato alla loro dimensione: è bastato incupire i suoni, non tenere pause tra strofe e refrain, togliere la parte divertente e suonare l’assolo con le twin guitars con il metodo slide per far diventare il tutto fottutamente Heavy Metal, complice anche la voce blues di Paul Di’Anno.
Il brano è l’ultimo registrato con Dennis Stratton alla chitarra ed è stato il primo per il quale è stato girato un videoclip.
‘Set Me Free’
La versione originale di ‘Set Me Free’ è contenuta nell’album ‘Sweet Fanny Adams’ del 1974, pubblicato dagli inglesi Sweet, fra i più grandi rappresentanti del movimento glam inglese e sperimentatori di sonorità indirizzate al Metal.
Difatti il pezzo è un Hard Rock veloce ed elettrico con assoli doppi ed un finale scoppiettante. Un brano importante che non poteva essere assolutamente trascurato.
Sono i Thrasher statunitensi Heathen a rispolverarlo, inserendolo nel loro album d’esordio ‘Breaking The Silence’ del 1987.
C’è poco da dire: mantengono il pezzo grosso modo come l’originale, aggiungendo le sonorità del loro stile Thrash. E’ sicuramente un buon tributo, che spezza un po’ il ritmo Thrash tipico Bay Area dell’album.
‘Diamod and Rust’
‘Diamond and Rust’ è uno dei brani più famosi della cantautrice statunitense Joan Baez, famosa non solo per la propria arte ma anche per essere impegnata nella lotta per il rispetto dei diritti civili e per essere una pacifista attiva.
Inserita nell’album ‘Diamond and Rust’ del 1975, è una canzone acustica, lenta, molto melodica e dolce, con una voce sensuale ma un pò rassegnata.
I Judas Priest prendono il pezzo e lo trasformano facendolo diventare una cavalcata elettrica, potente ma comunque sensuale, soprattutto per la melodia che mantengono nel refrain. E’ indubbiamente una sfida riuscita: la trasformazione di una delle più grandi canzoni romantiche in uno dei più importanti pezzi Heavy Metal, accompagnando le strofe cantate nella seconda parte con incisivi assoli di chitarra ed esaltando la parte finale.
‘Diamond and Rust’ è contenuta nell’album ‘Sin After Sin’ del 1977.
’Because the Night’
‘Because the Night’ è un brano scritto da Bruce Springsteen per la poetessa e cantautrice Patti Smitt, che lo ha adattato al suo stile ed inserito in ‘Easter’, suo terzo album, pubblicato nel 1978.
E’ un brano veloce ma dinamico, disperato ma dolce ed ha uno tra i refrain più belli al mondo. Ancora oggi è uno dei suoi più grandi successi ed è ineguagliabile.
L’intensità del pezzo è difficile da riprodurre, ma i Keel ci provano inserendolo nell’album ‘The Final Frontier’ del 1986.
La riuscita è abbastanza buona, con una valida prova del cantante Ron Keel e un bell’assolo che rende il tutto intenso donandogli la carica del Metal. Pur se reso più duro i Keel ne rispettano la drammaticità originale.
‘Try Again’
‘Try Again’ è un pezzo degli Spermbirds, hardcore punk tedesca formata nel 1982, tratta dal primo album ‘Something to Prove’ del 1986.
Il brano è allegro e scanzonato, con un ritmo tirato che mette di buon umore.
Un brano spensierato non poteva essere che riproposto da una band, che, pur se suonando Thrash al fulmicotone, ha fatto dell’allegria (e della birra) la sua bandiera: i tedeschi Tankard, che hanno inciso ‘Try Again’ per inserirlo nel loro terzo album ‘The Morning After’ del 1988.
Il brano è suonato con maggiore velocità e potenza, secondo lo stile di chi, all’epoca faceva musica ‘per diventare ricco ed aprire una fabbrica di birra’. E’ un Thrash che mette in evidenza la sua parte Hardcore, lascia da parte la cattiveria e dice a tutti: ‘divertiamoci, sbattiamo la testa’.
‘Money for Nothing’
‘Money for Nothing’ è stata scritta da Mark Knopfler in collaborazione con Sting ed è inserita nell’album ‘Brothers in Arms’, pubblicato dai Dire Straits nel 1985. Il testo condanna gli eccessi delle rockstar ed il loro stile di vita svagato rispetto a quello dei veri lavoratori. Una delle migliori interpretazioni è stata eseguita dal vivo da Mark Knopfler, Sting, Eric Clapton e Phil Collins (che nomi eh?).
La partenza è in sordina, poi dei potenti colpi di batteria e le tastiere anticipano il riff aggressivo (tra i migliori 100 al mondo). Il pezzo è deciso, con una buona linea di basso e voci accusatorie. E’ un pezzo rock melodico per via delle tastiere e dei cori, corredato da un sacco di effetti elettronici che un po’ lo smorzano.
Nel 2018 esce ‘Operation Misdirections’ dei torinesi Ultra-Violence, tra le migliori realtà italiane in campo Thrash.
All’interno si trova la cover di ‘Money for Nothing’, trasformata in un Thrash devastante, velocissimo e deflagrante. Non ci sono pause ma solo brevi momenti che si riallacciano alla versione originale per non snaturarla del tutto.
Il lavoro fatto dagli Ultra-Violence è notevole per adattare il pezzo alle loro qualità ed al loro stile, ma ci riescono e ‘Money for Nothing’ è tra le più belle cover del 2018.
Per ora abbiamo finito. Naturalmente esistono molte altre cover altrettanto valide come quelle sopradescritte, che sono state trascurate solo per questione di spazio e non d’importanza. Le analizzeremo in un prossimo numero di TrueMetal Stories.
Per ora salutiamo i lettori nella speranza di aver scatenato il loro interesse.