Un ricordo di Andre Matos
A un mese esatto dalla prematura scomparsa di Andre Matos molti sono ancora increduli e continuano ad ascoltare la sua musica, come omaggio dovuto a una delle voci più significative in ambito metal. Un infarto ha stroncato a 48 anni il cantante brasiliano, pochi giorni dopo la sua presenza on stage – il due giugno all’Espaço das Américas di São Paolo – per riproporre il classico “Reach Out For The Light” con gli Avantasia di Tobias Sammet. L’ultimo album solista di Matos risale ormai a sette anni fa e la sua carriera ha iniziato una graduale parabola discendente a partire dal 2003 in poi. Detto ciò, restano i conseguimenti inanellati negli anni Novanta e nei primi Duemila che l’hanno consacrato nel gotha dei vocalist più iconici di sempre. E questo basta per poterlo definire uno dei frontman imprescindibili nella storia della musica di cui ci occupiamo fedelmente.
Le copertine dei primi album dei Viper, band in cui militò Andre Matos dal 1985 al 1990.
La sua biografia artistica ha un che di miracoloso. Sostenitore degli Iron Maiden (tanto da tingersi i capelli a 13 anni per imitare il look di Bruce Dickinson, come ha rivelato Kiko Loureiro) e dotato di un talento naturale al microfono, Matos ha creduto nella propria passione musicale frequentando il conservatorio e, parallelamente, iniziando giovanissimo una carriera che ha visto i Viper come sua prima band significativa. Divenuta per certi versi una band di culto, nel 2015 la storica band brasiliana risorgerà dalle ceneri per un concerto nostalgia. Ripensare al fatto che ai tempi di Soldiers of Sunrise Matos non avesse ancora 18 anni fa venire in mente l’altro fenomeno degli acuti, Michael Kiske, alle prese appena ventenne con il primo Keeper Of The Seven Keys. I dischi con i Viper sono ancora acerbi, ma con qualche buono spunto e il timbro di Andre inizia a graffiare. Ascoltare, per credere, brani come “To Live Again” e “Moonlight”, quest’ultimo triubuto al geniale Beethoven.
La musica d’arte, del resto, è uno degli elementi che accompagnerà il cantante di São Paolo lungo tutto la sua carriera. Portato a termine il conservatorio (specializzandosi in direzione orchestrale e composizione, canto lirico e pianoforte) decide che per lui il 1991 dev’essere l’anno della svolta. A vent’anni, infatti, crea la band che ancora oggi, tra alti e bassi, prosegue la sua storia gloriosa cercando di arrivare al decimo studio album (con Fabio Lione alla voce). Stiamo parlando degli Angra, un gruppo che nasce benedetto e predestinato a un successo planetario. Il moniker è evocativo, la line-up, oltre a Matos, vede un trio di altri giovani talenti – Kiko Loureiro, Luís Mariutti, Rafael Bittencourt – pronti a stupire come fatto pochi anni prima dalle zucche d’Amburgo, ideatori del power metal.
Gli artwork dei tre album degli Angra. Quello di Angels Cry nasce da un’idea di Matos.
L’album di debutto viene realizzato in maniera certosina, con una lunga trasferta in Germania, dove ad accoglierli c’è lo studio di registrazione di Mr. Kai Hansen ricavato in un bunker riadattato della seconda guerra mondiale (come riporta G. Loffredo commentando il platter, inserito di diritto ne I 100 migliori dischi power metal). Alla fine il CD esce ad inizio novembre 1993 ed è curato nei minimi dettagli: dall’artwork (colto), agli arrangiamenti, che rendono inutile la ricerca di eventuali filler in una scaletta composta da dieci brani stellari. A rendere la musica subito riconoscibile è il valore aggiunto di Matos, che può mostrare la propria voce nella sua unicità, come già nel demo Reaching Horizons. Angels Cry è il capolavoro che ogni band vorrebbe comporre come prima uscita discografica e il merito è in gran parte del frontman dall’ugola dorata. Chi di noi non ha provato a imitare gli acuti inarrivabili di “Carry On” o “Time”? La title-track, poi, è uno dei manifesti del suo stile vocale, riconoscibile per il falsetto sostenuto, i glissati tipici e una pulizia cristallina. La voce di Matos è dotata di eclettismo e teatralità, riesce a interpretare atmosfere disparate, dai pezzi power più tirati all’avvio acustico di “Stand Away”, composizione che presenta anche parti vocali cadenzate davvero evocative. E che dire di “Lasting Child”? Una traccia sontuosa e mesta nelle liriche (ricercate e a tratti ermetiche), come vuole la poetica di Matos, songwriter barocco.
La line-up degli Angra nel 1992 con Marco Antunes alla batteria
Years gone by – Awake again
In a glowing star – That shines so far
Lasting child – Remains inside
Playing around – A future denied
High overhead, dusk is insight.
(da “Lasting Child”, Angels Cry, 1993)
L’ugola di cui si sono fregiati i primi Angra rappresenta in qualche modo la perfezione, l’operatic voice che da Bruce Dickinson in avanti è venuta incarnandosi in figure come Geoff Tate, David Defeis, Midnight e pochi altri. Di lì in avanti l’ascesa degli Angra sarà inarrestabile e porterà la band a una definitiva affermazione internazionale. Il gruppo affascina perché composto da virtuosi ventenni, per la sua provenienza esotica dal nuovo continente, nonché per il suo modo originale di intendere il power metal. Tre anni più tardi il concept Holy Land li ripropone su livelli di grazia anche se meno ligi a un dettato metal tout court, bensì focalizzati sull’ibridazione tra rock e musica etnica. Ne risultano capolavori come “Nothing To Say”, “Carolina IV” (la Suite per antonomasia), “Make Believe” (la migliore ballad di Matos?), “Z.I.T.O.” (che contiene uno degli assoli più coinvolgenti di Loureiro) e l’elegiaca “Deep Blue”, il cui testo fa venire i brividi a ogni ascolto:
Waiting for someday when the ocean and sky
Will cover up the land in deep blue
Renaissance is over and I wonder:
– Should I close my eyes and pray?
Gli Angra nel 1996, all’epoca di Holy Land
Musica così cesellata e dalle suggestioni a tratti “mistiche” è un regalo per tutti gli appassionati delle dodici note. Vederla sapientemente interpretata in sede live al Gods of Metal del 1997 (prima gloriosa edizione del festival italiano che vide come headliner i Manowar) per i presenti è stato un avvenimento da tramandare ai posteri. L’EP Freedom Call e il disco Holy Live non sfigurano nella discografia degli Angra, ancora in fieri, ma che poteva vantare già due capolavori. Il trittico delle meraviglie si chiude con Fireworks, platter del 1998, il più sperimentale, il più difficile da definire, con un uso importante di sintetizzatori. Un’altra copertina bellissima, una title-track da cantare a squarciagola con il suo refrain memorabile e poi figurano pezzi come “Metal Icarus”, la ritmata “Gentle Change”, la complessa “Paradise” e la fulminea “Speed”. Proprio la traccia conclusiva si rivelerà il commiato di Matos dagli Angra: rivivere il suo acuto negli ultimi secondi del pezzo è un piacere da concedersi senza indugi.
Along the shore timeless faces reflect
The innocence of childhood never left
And I miss you
And I cry for you now.
(da “Fireworks”, titletrack dell’album uscito nel 1998)
La formazione nel booklet di Fireworks, ultimo full-length con Matos alla voce
Dopo l’uscita dalla band madre, la fama del cantante resta legata indissolubilmente ai tre dischi targati Angra e non c’è verso di scrollarsi di dosso quella pesante eredità. La sua presenza nel progetto Avantasia nei panni del saggio elfo Elderane e la collaborazione per il brano “Demonheart” di Luca Turilli ne mantengono alta la visibilità mondiale. Di più, la sua personalità marcata e il carisma facilmente intelligibile è l’ideale per interpretare ruoli di questo tipo, cosa che proseguirà negli anni. Nei primi anni del nuovo millennio, la sua voce non sembra scalfita dal tempo, tanto che arriva perfino a collaborare con Sascha Paeth per l’album Virgo che lo vede interprete di pezzi che esulano dall’universo metal (ad esempio “River” si colloca su lidi gospel). Per tentare il rilancio, in patria fonda nel 2002 un nuovo gruppo, gli Shaman, composto da ben tre quinti degli ex-Angra. Con questa band realizza un bell’album d’esordio, forse l’apice della sua carriera. Un anno dopo nel live dvd RituAlive la sua versione al pianoforte di “Fairy Tale” consacra la sua voce, ancora potente e cristallina dopo un ventennio d’attività (ricordo che questo brano anni fa venne perfino utilizzato da alcuni funamboli durante la diretta tv italiana del Festival del Circo Montecarlo). In quel concerto troviamo anche una versione di “Eagle Fly Free” con Matos affiancato da Andi Deris e Michael Weikath come ospiti d’eccezione.
Gli artwork dei primi Shaman: al centro quello del singolo “Fairy Tale”
La versione di “Fairy Tale” tratta dal concerto al Credicard Hall di São Paolo
Quello che seguì fu un decennio in calando: le corde vocali del cantante brasiliano iniziano fisiologicamente a perdere smalto, così anche le trovate compositive. Se da una parte Matos non riesce più a stupire, dall’altra anche Loureiro e Bittencourt, dopo l’exploit di Temple Of Shadows, propongono musica prevedibile con gli Angra dell’era Falaschi. Abbandonati pure gli Shaman, durante la sua carriera solista realizza tre dischi. Da segnalare come brani migliori “Letting Go” e “Rio”, entrambi da Time To Be Free uscito nel 2007. Ritroviamo le caratteristiche di Andre: rimandi alla musica d’arte, spiccato approccio melodico e cura del dettaglio. Curioso imbattersi in un pezzo dedicato a una città, così come fu con “Lisbon” in Fireworks (e come accadrà con “Santiago” all’interno del progetto Symfonia).
La discografia solista di Andre Matos, con il suo nuovo monogramma
Infine vanno spese due parole sulle cover proposte dal cantante paulista. Matos è arrivato a un passo dal prendere il posto di Bruce Dickinson dopo la sua uscita dai Maiden nel 1992. È naturale, dunque, che abbia voluto coverizzare un classico della Vergine di Ferro come “Halloweed be thy name” (proposto anche dai Dream Theater nella data milanese del 5 febbraio 2004), complice la proposta targata The Clairvoyants. Anche la rivisitazione di “Painkiller” dei Judas Priest ha ragion d’essere; stupisce, semmai, all’interno della sua carriera la scelta della hit “Wuthering Heights” a firma Kate Bush (in due versioni, una speed e l’altra più commerciale in Angels Cry), e, più recentemente, brani dei Journey (“Separate Ways”) e dei Radiohead (“Fake Plastic Trees”). La versione di “Wuthering Heights” resta un cammeo crossover invidiabile per avvicinare ascoltatori provenienti da generi musicali opposti.
Tobias Sammet, scherzando nel libretto della gold edition che racchiude i primi due capitoli Avantasia, definì Matos con queste parole: «One of the few female voices in Metal that I love. Haha!… […] he’s a unique singer and a great friend. He’s a killer vocalist […]. I Love Andre’s voice and personality.»
L’elfo Elderane e altre copertine di progetti cui ha partecipato Matos dal 2001 al 2017
Con il suo falsetto e il suo range di tre ottave Matos era un alieno con un che di angelico e irripetibile. In pochi hanno potuto competere con lui, penso a Michael Kiske, Timo Kotipelto, Ralf Scheepers e pochi altri. I suoi glissati restano un hapax nel panorama metal e gli abbellimenti vocali un suo marchio di fabbrica (provate ad ascoltare il refrain della versione demo di “Carry On” e poi quella rifinita contenuta in Angels Cry). Se a questo aggiungiamo un tributo alla musica d’arte e una capacità compositiva notevole, ecco che abbiamo il ritratto di un artista la cui scomparsa prematura ha fatto giustamente parlare di sé anche in Italia sui principali quotidiani online. In Rete sono spuntati pure alcuni video di emittenti brasiliane che mostrano interviste e performance live dei primi Angra, ma è poca cosa. Stiamo parlando, infatti, di Andre Matos, una persona riservata per quanto riguarda la propria vita fuori dalla sfera pubblica e non c’è molto altro che lo riguarda nel web.
Per lui, dunque, nessun biopic hollywoodiano in vista, come nessun lungometraggio parlerà di altri cantanti metal scomparsi come Mike Baker (Shadow Gallery), Andrew McDermott (Threshold) o Mário Linhares (Dark Avenger), quest’ultimo connazionale di Matos. Cosa si poteva chiedere a Matos dopo l’uscita dagli Angra nel 2000 e l’inizio della sua carriera solistica? Tornare nella band d’origine sarebbe stato bello, magari per il trentesimo di Angels Cry, un po’ come le zucche d’Amburgo hanno fatto di recente. Non potremo vedere questa reunion e non potremo brindare a un progetto che include il trio delle meraviglie Kiske–Kotipelto–Matos. Sui dischi targati Sammet la voce degli Stratovarius è sempre mancata, sull’ultimo full-length dei Soulspell Matos si ritrova con la voce finnica per eccellenza nella stessa canzone (“The Second Big Bang”). Per un soffio le loro strade non si sono mai incrociate, non resta che comporre noi, da bravi fan, l’antologia ideale che ne racchiuda differenze e somiglianze. Un sincero grazie a questo cantante, ad Andre Matos, sit ei terra levis…
Matos con Bruce Dickinson, Andi Deris e Tobias Sammet (nell’ultima performance live)
O que me dói não é O que me dói não é São as formas sem forma São como se a tristeza (Fernando Pessoa, 5-9-1933) |
Quel che mi duole non è Quel che mi duole non è Sono le forme senza forma Come se la tristezza
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Proposta di playlist
• Con i Viper: To live again, Moonlight
• Con gli Angra: Carry On, Stand Away, Lasting Child, Reaching Horizons, Queen of the night, Don’t Despair, Nothing To Say, Make Believe, Deep Blue, Lisbon, Metal Icarus, Speed, Rainy Nights
• Con gli Shaman: Fairy Tale, Pride
• Nella carriera solista: Letting Go, Rio, A New Moonlight
• Come special guest: Inside, The Seven Angels, Chalice of Agony, Blizzard on a Broken Mirror (Avantasia), The Second Big Bang, White Lion of Goldah (Soulspell), Demonheart (Luca Turilli), Talon’s Last Hope (Aina), Follow The Way (Thalion)
• cover e altri progetti: Wuthering Heights (cover), Painkiller (cover), Hallowed Be Thy Name (cover), Who Wants To Live Forever (cover), River (Virgo), Santiago (Symfonia)