Vita da palco: parola agli allestitori
È successo ancora. La scia di sangue che imbratta i luoghi che per antonomasia sono sinonimo di spensieratezza, divertimento e voglia di vivere sembra non aver fine. Ultimo, in ordine cronologico, il crollo del palco che a Toronto (Canada) avrebbe dovuto ospitare l’esibizione dei Radiohead. Vittima dell’incidente: il tecnico della batteria.
In Italia è ancora aperta la ferita nel mondo della musica per gli incidenti mortali di Trieste e Reggio Calabria, che hanno strappato alla vita due giovani tecnici addetti all’allestimento.
Sono morti che non sono diversi dalle centinaia di operai che, giornalmente, perdono la vita sul proprio posto di lavoro. Sono però incidenti che fanno particolare impressione e colpiscono nell’intimo tutte quelle persone che, nel bene o nel male, vivono o gravitano attorno al meraviglioso mondo della musica. Il problema della sicurezza esiste e noi non vogliamo ignorarlo.
Sono incidenti che purtroppo fanno parte del mondo della musica, del nostro mondo. Per questo TrueMetal.it ha deciso di dedicare uno spazio, di indagare e portare la testimonianza di chi è spesso relegato nelle retrovie: la parola di chi lavora per mettere tutti noi in condizione di poter assistere a uno spettacolo.
Con l’arrivo dell’estate migliaia di giovani si muoveranno verso una miriade di piccoi e grandi festival estivi in tutta Europa. Questo articolo vuole raccontare, tramite le parole di due addetti all’allestimento dei palchi (Gianluca e Filippo che ringraziamo ancora N.d.A.), del lavoro e del mondo che circonda questi professionisti.
Vita, gioie e dolori di un lavoro spesso sottovalutato dai più ma indispensabile per dar voce e corpo al mondo che tutti amiamo, indipendentemente dal nostro genere musicale preferito.
Innanzi tutto, senza addentrarci troppo nella tua sfera privata, puoi presentarti ai lettori ti tm.it e dirci un po’ di te? Come sei entrato nel – permettimi il termine – mondo dello spettacolo e perché?
G: il perché. Beh, curiosità e sopratutto necessità di trovare un lavoro. Ho avuto la fortuna di presentare un curriculum ad una cooperativa sociale di Trieste che, dopo avermi messo alla prova sincerandosi sulle mie capacità, mi ha assunto in pianta stabile. È stata quindi una scelta casuale, anche se ho amato da sempre il mondo della musica e dei concerti. Sono stato quindi catapultato da subito in un ambienta familiare dove non ho avuto difficoltà d’inserimento; ho legato subito con i miei coetanei con cui si è sviluppato un rapporto d’amicizia. Con il passare del tempo, man mano che la mia professionalità aumentava di pari passo con le nuove specializzazioni, il lavoro non era più solo divertimento e piacere di stare assieme, ma iniziava ad essere duro lavoro, grosso pericolo, grandi ingiustizie e molti rischi. Dopo cinque anni ho accumulato un grosso bagaglio d’esperienza. Già il fatto di lavorare con grossi gruppi come LiveNation, Milano Concerti, Italstage in location come San Siro, Roma, Udine, Bologna è stato motivo di crescita professionale: il lavoro mi ha portato lontano da casa, dalla Germania all’Ucraina in giro per mezza Europa e non solo per la musica. Ho personalmente allestito per tutte le visite papali, oltre che con i big della musica.
F: innanzitutto grazie per questa opportunità. Sono entrato in questo mondo quand’ero appena maggiorenne, cercando lavoretti estivi per tirare su qualche soldo, e visto che, nonostante la fatica, ci scappava sempre un bell’ambiente e soprattutto dei bei concerti, non mi sono mai tirato indietro. Ho lavorato molte volte in regione, dallo stadio Friuli di Udine, al Rocco di Trieste, con ritmi spesso infuocati, per non parlare delle temperature.
Ma da ragazzini, più si è sporchi e sudati, più ci si sente degli eroi e più ci si gode il successivo riposo, quindi era anche una sorta di “operazione autostima”, che unita al fatto che si era sempre in tre o quattro amici, diventava ogni volta una vera e propria avventura.
Come lo descriveresti il tuo lavoro a chi sta davanti al palco in attesa del gruppo preferito?
G: tengo a precisare che i lavori son divise in categorie ben distinte così come distinte sono le professionalità. Si va dal puro e semplice facchinaggio alla movimentazione di grossi carichi, i tecnici specializzati nel montaggio del palco, nell’allestimento delle coreografie, gruisti, addetti luci, fonici: un’infinità di lavoratori che gravitano attorno al singolo evento. Un incontro tra mondi diversi che devono però essere coordinati perché il problema per una singola categoria nell’avanzare dei lavori diventa da subito problema di tutti. Questo è uno dei motivi che poi rende difficile risalire al a chi si è, eventualmente, fatto carico di manchevolezze.
Quindi Gianluca, come descriveresti una tua giornata tipo?
La giornata tipo inizia di solito verso le tre di mattina, a patto che tu non sia già in giro perché in tour: si viaggia in gruppo con macchine e furgoni e si raggiunge il luogo del cantiere. Appena arrivati ci si suddivide in squadre e si inizia: si prendono i disegni, i progetti e si seguono pari passo. Tutto d’un fiato fino ora di pranzo, venti minuti a disposizione per un panino e una sigaretta e poi via a lavorare fino a sera. Sei impegnato, sempre, fino pochi istanti prima del concerto; hai un posto in prima fila questo è vero, una volta finito lo spettacolo può capitare di finire il turno e puoi andare a riposare, ma spesso accade che finito il concerto inizi a smontare e lavori tutte la notte. Quindi, su un totale di 24 ore giornaliere, quattro le passi in hotel, anche cinque stelle sia ben inteso, e le restanti le passi a smontare e rimontare. Una volta mi è capitato di fare ventitre ore di fila senza mai fermarmi per i Rage Aganist The Machine, quasi sempre imbragato a montar ponteggi fino a trenta metri d’altezza con tutta una miriade di cose che ti circondano: gru, ponteggi, luci. È un lavoro in cui ti spremono e in cui è facilissimo stancarsi…
F: Mi è sempre piaciuta la figura di quello che fa “il lavoro sporco” senza prendersi la gloria, perché penso che la gloria per una nostra azione dobbiamo trovarla dentro di noi, non dev’esserci consegnata dagli altri, né riconosciuta, quindi lo descriverei per quello che è: “Qualcuno tutto ‘sto ambaradan dovrà pur tirarlo su…Io sono (stato) uno di quelli”.
Passiamo alle note davvero dolenti: la sicurezza. Quali sono, secondo la tua esperienza, quei fattori scatenanti che trasformano una giornata di gioia in una potenziale tragedia? Quale è l’inconfessabile male di questo mondo?
G: ci sono diversi piccoli mali, e pochi grandi mali. Certo è che una tale mole di lavoro, prolungato per così tante ore al giorno in condizioni così estreme incide parecchio, anche sulla lucidità. Poi non è solo una questione di orari, ma anche della gestione ed educazione alla sicurezza. È capitato nel 2011 di fare qualche piccolo corso sulla movimentazione dei materiali e l’uso dei dpi (dispositivi di protezione individuale), ma quando sono arrivato io, anni fa, mi diedero caschetto, scarpe e imbrago e mi buttarono subito nella mischia. Capirai che un persona inesperta messa in mezzo ad una massa di gente coordinata è pericoloso, perché queste persone buttate allo sbaraglio, senza formazione perché ha un costo, si trova a lavorare a contatto con professionisti di livello con miriadi di patentini ed abilitazioni conseguite negli anni, potendone compromettere la sicurezza. Il problema è sempre e solo di tipo economico: la sicurezza costa, costa forse di più di tutto il lavoro di montaggio e smontaggio, quindi la produzione, anche ad insaputa degli artisti stessi, tendono a risparmiare su queste persone intascando il più possibile. Questa dal mio punto di vista la cosa più scandalosa. Poi c’è lavoro nero, e se non è nero è lavoro a cinque euro l’ora con ritmi proibitivi. Per essere assunto dovresti già aver conseguito qualche patentino, a mio modo di vedere (ne esistono parecchi: anti incendio, primo soccorso, mulettista, arrampicata etc. N.d.A.) ma questo, sovente, non succede.
F: I fattori purtroppo sono molti, ma per la mia esperienza personale credo che il problema sia quello di non poter disporre di squadre di professionisti, ma di persone che questo mestiere lo fanno quasi per hobby, che vengono coordinate da quelli che sono i veri professionisti, spesso al seguito direttamente della band di turno, che si ritrovano a dover gestire gruppi di sconosciuti, senza avere minimamente idea delle loro capacità, e utilizzandoli perlopiù come facchini, e non come professionisti. Questo sistema fa si che il professionista, onde evitare problemi, si carichi eccessivamente di lavoro, aumentando a dismisura il margine d’errore, lasciando i “non professionisti” se così possiamo chiamarli, un po’ in balia degli eventi. Su tutti però il problema è il tempo, e conseguentemente il denaro. I tempi di lavoro sono strettissimi, e chiunque abbia lavorato anche solo 10 minuti nella sua vita, sa che è un fattore che riduce praticamente a zero la possibilità di sbagliare. Si cerca di risparmiare dovunque, dalle paghe di chi lavora, all’impiego stesso di professionisti, che devono essere pagati di più ovviamente, creando un buco di controllo incommensurabile, oltre ad una disorganizzazione devastante.
Tutto ciò fa si che spesso, certi punti che dall’esterno passano per ovvi, vengano saltati a piè pari, non verificati, vuoi per mancanza di tempo, vuoi per mancanza di un professionista che sia in grado di dare un giudizio professionale appunto, sullo stato delle cose, e qualche volta, questi punti di cui sopra, non sono nelle giuste condizioni, dando vita all’incidente.
Trieste, Reggio Calabria (giusto per citare gli ultimi avvenimenti in ordine cronologico), ed ora anche in Canada: tutto il mondo è paese?
G: penso di si, tutto il mondo è paese. In molti paesi europei il sistema è lo stesso, cambia qualcosa forse nel nord Europa. Ho lavorato ad esempio a Berlino: noi che avevamo i contratti italiani con produzioni italiane lavoravamo venti ore, i facchini tedeschi lavoravano sei ore, un’ora di pranzo e poi cambiavano turno. Tutto il mondo è paese, o quasi. Il problema è che, ad esempio in occasione dei tour, c’è bisogno di fare tutto alla svelta, il famoso “Back to Back”, schiena contro schiena, monta e smonta in un frenetico rincorrersi: un palco è in servizio, il suo gemello in viaggio, li davvero devi dare l’anima. Poi, ovviamente, dipende anche dalla grandezza della produzione. Per i piccoli concerti, spesso 20 persone erano sufficienti, per il Live di Madonna ce ne erano trecentoventi solo sul palco, più ovviamente tutti gli altri. Per gli AC/DC si sono contati quasi 120 Tir di materiale, immagina la mole di lavoro: la logica è la stessa del costruire un palazzo in un giorno per poi ributtarlo giù la sera. Parola d’ordine: frenesia.
F: Siamo tutti esseri umani, con impostazioni diverse e diverse culture, ma il nostro cervello resta sempre quello, ed un’epoca come questa, si tende sempre ad imitare il metodo più diffuso perché pare quello meno fallace. Quindi come sbagliamo qui, sbagliano anche li…E chissà quanti altri incidenti capitano di cui non siamo a conoscenza.
In Canada l’abbiamo saputo perché si parlava dei RadioHead, ma il mondo è grande…
Responsabilità civili, penali e morali. Quale il ruolo degli artisti? Vittime anch’essi o anche carnefici?
G: l’artista? Vittima, sicuramente. L’artista arriva pochi istanti prima dello spettacolo, quindi non segue, come è logico che sia, queste vicende. Vedi, all’inizio della mia “carriera” ho partecipato all’allestimento le palco per la data zero del tour della Pausini a Grado (località balneare della provincia di Gorizia N.d.A.), un palco immenso i una location tutto sommato modesta. Li la Pausini, che doveva provare luci e scenografie, più volte s’è fatta viva con noi, si è interessata, ci ha fatto salire sul palco a fine concerto per ringraziarci pubblicamente. Jovanotti prima del fattaccio non si era mai visto, poi è stato più presente. Ma a dire il vero parecchi artisti si sono avvicinati a noi poi ovviamente dipende dalla loro personalità: ci sono le superstar, ma ci sono quelle persone che si mettono volentieri a parlare con noi, più alla “nostra altezza”. Solitamente gli artisti vengono tenuti all’oscuro dalla produzione, tutte le decisioni vengono prese dallo staff artistico.
F: Da musicista che come tutti i musicisti sogna un giorno di potersi occupare di questi problemi, credo che sia nell’interesse di tutti gli artisti che tutto il mondo che si muove intorno a loro sia esule da incidenti, quindi penso non siano da stigmatizzare. Anche se sinceramente, se loro stessi (o chi amministra i loro soldi) si interessassero attivamente di quanto accade in quel Back-Backstage, avrebbero un valore aggiunto dal punto di vista umano, e potrebbero addirittura trarne profitto d’immagine. Faccio un esempio: se invece di pagare 30 Head Crew, pagassero 20 Head Crew, e 100 ragazzi da portarsi in giro per il mondo, spenderebbero si un sacco di soldi in più (cosa che non impedirebbe loro una vita più che dignitosa in ogni caso), ma si trasformerebbero in una sorta di Circo itinerante, com’è ad esempio il mondo delle corse, che è paragonabile ad una tribù nomade. L’organizzazione che ho toccato io con mano, assomiglia più ad una sorta di “colonizzazione periodica”.
Ed ora, visti i numerosi punti sensibili, quali sarebbero secondo te gli accorgimenti che potrebbero risolvere i problemi di sicurezza per i lavoratori. Hai tutto lo spazio che ritieni necessario.
G: la medicina è sicuramente l’azione preventiva. Dal mio punto di vista chi viene a fare questo lavoro deve avere già tutti gli strumenti per lavorare in sicurezza, anche perché prima dei controlli in cantiere molte cose possono già essere state fatte in maniera sbagliata. E poi ci devono essere controlli più specifici. So che è dura perché di cose da tenere sott’occhio ce ne sono davvero tante. Più interesse anche da parte delle autorità: ho visto davvero pochi controlli da parte di chi è chiamato a verificare i lavori, soprattutto in fase di montaggio e smontaggio; arrivano durante il concerto, tengono d’occhio che tutto fili liscio, ma son pochissime le volte che sono venuti prima o restati dopo la fine dello spettacolo. E poi controlli sulle ditte:appaltatoti, sub-appaltatarori e via dicendo. Controlli sopratutto sui dpi e sulla loro efficienza.
Controllo anche sul rispetto dei disegni in fase di costruzione, gli ingegneri dovrebbero firmare i progetti non alla cieca ma dopo aver preso visione di ogni modifica effettuata o da effettuare. Ad esempio a Trieste cos’è successo: un ingegnere ha approvato un progetto (è tutto documentabile dai giornali) che però durante la fase di allestimento è stato modificato per fare prima, per fare “più bello”. È stato fatto ri-firmare il progetto all’ingegnere con le modifiche effettuate, ma senza che la persona interessata si curasse di andare a verificare, ed è successo quel cedimento strutturale che tutti conosciamo. Io è da un anno che non lavoro nel settore, ma quattro miei amici Elisa Paiano, Claudio Alvarez, Michelino e Jesus erano la e sono caduti subendo delle lesioni: non gravi perché eravamo abituati a lavorare in sicurezza. Ma una sicurezza venuta dalla nostra esperienza e dal fatto che i dpi noi li utilizzavamo sempre. Perché in alcuni casi gli incidenti capitano perché alcuni operatori, magari quelli più ‘anziani’ non usano i dispositivi. I nuovi lavoratori devono essere tutti educati alla sicurezza; ma per assurdo chi ha insegnato a me – ed ha insegnato bene – non si legava mai, e alla fine ero io che dicevo a lui di legarsi. Una sorta di enorme roulette russa.
È altresì giusto sottolineare che non tutte le ditte ti mettono a disposizione i dpi necessari. Io sono stato costretto, per la mia sicurezza, a comperare a mie spese parecchie attrezzature sia per la sicurezza che per la mia comodità. Ho comperato anche per avere il mio materiale personale, come dovrebbe essere in realtà, invece di passarlo da un operaio all’altro. Ho personalmente collaudato imbraghi che mi si sono sfaldati in mano, e io non sono certo una persona che si può definire forte.
F: Personalmente, dopo tutto ciò che ho esposto nei punti precedenti, credo che la chiave di tutto sia sempre quella, e cioè il ridimensionamento dell’ingordigia che gira intorno ad ogni “macchina da soldi”. Se chi ci guadagna, si decidesse a guadagnare un po’ meno, a fronte di una più alta professionalizzazione del personale (da chi progetta il palco, a chi lo monta, a chi lo sorveglia), oltre a creare un maggiore indotto in termini di lavoro, avremmo anche un ambiente più sicuro e più vivibile. Se chi progettò il sito dell’Heineken Jammin Festival a San Giuliano (VE) la prima volta, avesse avuto la competenza necessaria, o se l’avesse avuta una delle persone che a quel progetto hanno partecipato, non si sarebbe verificato né quell’incidente, né tanto meno i successivi, perché avrebbero saputo che quella zona, in quel periodo dell’anno è soggetta da sempre a fenomeni meteo estremamente violenti, al punto che quand’ero li, a lavorare ovviamente, la mia mamma, alle 11.30 di mattina (e non c’erano ancora iPad, internet iperveloce e accessi ai satelliti meteo), mi scrisse di fare attenzione perché secondo un forum di meteorologi, intorno alle 18.00 davano “allerta tornado”. E se mia madre, che non è un professionista del settore, è stata in grado di mettermi in guardia, al punto che quando ho visto le nuvole arrivare a una velocità incredibile, ho capito che aveva ragione e mi sono messo al sicuro qualche istante prima del disastro, significa che chi era addetto al ruolo di “madre” del festival, non era in grado di fare il suo mestiere. Se poi aggiungiamo che la prima cosa che vidi la sera prima dell’apertura del festival era che non c’erano tiranti di sicurezza sulle torri delay, allora la carenza è ancora più evidente.
E se in un evento del genere, si sono potuti raggiungere picchi negativi di questo calibro, che solo la fortuna non ha trasformato in tragedia (mentre correvo e vedevo le torri cadere sulla gente, ero certo che i morti sarebbero stati centinaia, era veramente l’inferno), possiamo solo immaginare cosa accada in eventi più piccoli. Nonostante spesso i professionisti bravi si trovino anche in questo tipo di eventi.
I lavoratori vanno istruiti, non si può dare per scontato che chi è li, sa tutto, e sa come fare tutto. Bisogna investire sulla sicurezza, non appiopparne le responsabilità a chi ha il diritto di essere sicuro, si parli di lavoratori o di pubblico pagante.
E’ stato agghiacciante sentire, sempre dopo l’Heineken, un funzionario (in loco, e parlo di 20 minuti dopo) dire: “beh, anche loro scemi che si son protetti sotto le torri delay col vento a 300 km/h”. E dove dovevano andare?
Era lui che avrebbe dovuto sapere come costruire una torre che in caso di condizioni eccezionali anche se prevedibili come abbiamo visto, non sarebbe caduta! Altrimenti avrebbe dovuto rinunciare a costruirla. Quel giorno ne caddero 8. Ho detto tutto.
Istruzione, serietà e voglia di investire nella professionalizzazione, questo è quanto manca a questo piccolo fantastico mondo. Il tecnico del suono deve saper gestire il palco, il tecnico del palco, deve sapere come montarlo e smontarlo garantendo la sicurezza di se stesso e dei suoi colleghi. Ma mentre per tecnico del suono esistono corsi costosissimi ed addirittura corsi universitari in collaborazione con i Conservatori, per il Tecnico di Palco, l’unica scuola è l’esperienza diretta sul posto di lavoro, e questo comporta rischi. Perché mentre all’università l’esame di Mixaggio lo puoi rifare, l’esame di tenuta di una torre delay, difficilmente lo rifai.
In conclusione il nostro augurio, che estendiamo simbolicamente ad ogni lavoratore del settore di buon lavoro. Possibilmente in piena sicurezza.
G: spero di non aver dato un’immagine troppo negativa di questo mondo. In realtà è un ambiente dove si possono fare un sacco di esperienze, dove si stringono legami fraterni e ci si diverte anche. Spero sia un ruolo, quello che avevo anch’io fino pochi mesi fa, che sarà maggiormente apprezzato da parte di tutti.
Daniele Peluso