Bang Your Head!!! 2006: report
In undici edizioni il Bang Your Head!!! si è ormai ritagliato un posto al sole nel panorama dei festival hard & heavy di tutta Europa, segnalandosi come una kermesse in grado di soddisfare soprattutto i gusti dei più nostalgici, fedeli a certe sonorità old-fashioned ma sempre in grado di scaldare i cuori. Partito come evento indoor, dal 1999 il Bang Your Head!!! è un open-air apprezzato per l’organizzazione tipicamente tedesca (che, tradotto, significa: rapporto qualità / prezzo elevato, tempi di attesa minimi tra un gruppo e l’altro, local crew severa ma affidabile), la selezione annuale delle band e l’atmosfera di festa che si respira nell’aria di Balingen, tranquilla cittadina nel sud-ovest della Germania. Ecco il resoconto dell’ultima edizione, tenutasi tra il 23 e il 24 giugno.
Venerdì 23 giugno
Communic.
Persa, per ragioni unicamente logistiche, l’esibizione degli Hellfueled (penalizzati forse da un orario che non permette il pienone), è il turno dei Communic. Il trio norvegese, autore di due album che hanno letteralmente diviso la stampa europea, si presenta con suoni discreti e un’equa selezione di brani dal proprio repertorio, eseguiti nell’arco di una mezz’ora abbondante. La proposta della band non è l’ideale per un grande festival estivo, specie tenendo conto della durata media delle composizioni, ma brani come Fooled By The Serpent e Conspiracy In Mind (che tradisce un certo flavour nevermoriano) lasciano il segno su un pubblico in fin dei conti soddisfatto. Complesso in crescita, da rivedere in contesti più adatti.
Leatherwolf.
Tra i gruppi più attesi, se non altro per la lunga assenza dai palchi europei, i Leatherwolf si presentano con tre membri storici (Geoff Gayer, Dean Roberts e Paul Carman) e il nuovo acquisto Wade Black, vocalist già noto per i suoi trascorsi in Crimson Glory e Seven Witches. Niente Triple Axe Attack dunque – Black non è un granché con la chitarra, dicono – ma abbuffata di classici che rispondono al nome di The Calling, Season Of The Witch, Rise Or Fall, Street Ready (forse il brano più riuscito), capaci di riscuotere un certo entusiasmo tra il pubblico. Pollice verso per il nuovo materiale, tratto dal mediocre World Asylum, assolutamente non all’altezza del monicker che campeggia sulla (orribile) copertina. Nel complesso un concerto sicuramente godibile, ma non indimenticabile.
Flotsam & Jetsam.
La classica sorpresa del festival. Sono anni che i Flots intravedono soltanto i livelli dei primi due platter, gravati forse dall’ingeneroso appellativo di ‘ex-band di Jason Newsted’, eppure lo show di Balingen mostra una band compatta, coinvolgente, capace per prima di dare una scossa tangibile al popolo del Bang Your Head!!!. Il gradito ritorno di Mike Gilbert, al posto dell’assente (giustificato) Ed Carlson, rispolvera il rifferama muscolare dei tempi andati, districandosi tra le varie Hammerhead (opener di grande potenza), No Place For Disgrace, Hard On You e Escape From Within. Chiusura affidata a una divertente cover di Fairies Wear Boots, con Eric A.K. mattatore. Applausi meritati per il combo di Phoenix, che tornerà in Germania il 4 novembre per la settima edizione del Keep It True, per il quale è stato promesso uno ‘special old school show’.
Vengeance.
Ricomparsi sulle scene dopo alcuni anni di silenzio, gli olandesi Vengeance non hanno la benché minima intenzione di passare inosservati, nonostante la promessa di ospitare l’ex-compagno Arjen Lucassen (Ayreon) venga disattesa sul palco. Cambia il genere ma non viene meno l’adrenalina, come testimoniano Take It Or Leave It, Rock N Roll Shower, la nuova Back In The Ring e l’acclamata Arabia, con prova convincente del minuto frontman Leon Geowie, incapace di star fermo un secondo – e protagonista di alcune performance di dubbio gusto, tra cui vanno citate almeno uno striptease a metà set e la doccia finale con ettolitri di birra. Divertenti e goliardici, strappano più d’un applauso anche nel 2006, ed è un piacere vederli ancora in piedi dopo tante peripezie (non ultima la morte del batterista Paul Thissen, stroncato da un infarto a soli 32 anni).
Raven.
Leggende sopravvissute, pur con svariate ricadute, al declino della NWOBHM, i Raven si presentano a Balingen con un set dedicato alle glorie dei primi anni ’80, quando il combo di Newcastle incarnava uno dei pezzi pregiati dell’HM britannico. L’athletic rock dei fratelli Gallagher rivive ancora una volta in brani del calibro di Rock Until You Drop, Lambs To The Slaughter, Live At The Inferno, All For One, Break The Chains, fomentando le prime file con una resa non esente da pecche, ma tutto sommato energica e trascinante. Spazio anche a un brano inedito, intitolato Breaking You Down, prima che la band abbandoni la scena, non senza aver sforato abbondantemente con il minutaggio. Inesauribili.
Jon Oliva’s Pain.
Il Mountain King fa ritorno al Bang Your Head!!! cinque anni dopo l’ultima apparizione con i Savatage, allestendo uno show che suona come un tributo alla sua band madre. Non mancano spazi dedicati al suo (valido) materiale solista, da cui spicca l’ottima The Dark, ma gli animi dei più si scaldano all’esplodere delle note di Warriors (opener insolita e acclamata), Agony And Ecstasy, Gutter Ballet e la conclusiva Hall Of The Mountain King. Buona prestazione di Jon Oliva, pur sofferente per il caldo torrido, che ha dedicato la splendida Hounds al compianto fratello Criss – peraltro tributato con perizia dal bravo Matt LaPorte. Una gradita conferma.
Death Angel.
Special-guest della giornata di venerdì, il quintetto di origini filippine è chiamato a ripetere l’esibizione devastante datata 2004, valsa alla formazione di San Francisco una posizione onorevole nel bill di quest’anno. La promessa di suonare un set speciale a base di vecchi classici si traduce in una scaletta con massicci richiami ad Act III (ben cinque: Seemingly Endless Time, Stop, Discontinued, Stagnant ed Ex-T-C), alternati a pezzi dal più recente The Art Of Dying, tra cui eccelle Thicker Than Blood. Band al solito ipervitaminica e precisa dal punto di vista tecnico, ma due soli estratti da The Ultra-Violence (Voracious Souls e Evil Priest) e qualche problema tecnico alla chitarra di Rob Cavestany – presentatosi con un insolito look à la Cristiano Ronaldo – sono ragioni sufficienti per non gridare al miracolo, come generalmente accade a uno show dei Death Angel. Non è 10 ma 8, e per una volta siamo tutti contenti lo stesso.
Helloween.
Da molti attesi come autentici headliner della giornata, gli Helloween sono i primi a beneficiare di una propria coreografia, con giganti zucche gonfiabili, pupazzi bizzarri montati attorno al drum-kit di Daniel Loeble e petardi a profusione. L’aria di casa distende le corde vocali di Andi Deris, già in spolvero sull’opener The King For A 1000 Years, ma le note migliori arrivano con la valanga di classici: Halloween, A Tale That Wasn’t Right, Future World, I Want Out e Dr. Stein suscitano ovazioni calorose tra gli astanti, rapiti dalla simpatia delle Zucche (su tutti Markus Grosskopf) e da un’ora abbondante di power metal che non teme il passare degli anni. Il finale è riservato all’ingresso a sorpresa di Tony Martin (in azione la sera precedente al warm-up show), per una corale ma grossolana Headless Cross. Complice la vena di Michael Weikath, uno show da inserire nei piani alti della prima giornata.
Foreigner.
La banda di Mick Jones – unico superstite dei veterani Foreigner – si presenta alla platea di Balingen con una formazione di lusso, che include Jeff Pilson (già nei Dokken, Dio, McAuley Schenker Group, etc.) al basso, Thom Gimbel (chitarra + sax), Jeff Jacobs alle tastiere, il batterista Jason Bonham e l’ex-Hurricane Kelly Hansen. La massiccia affluenza di pubblico è ripagata da un set a base di vecchie glorie, da Double Vision a Dirty White Boy, da Jukebox Hero a Hot Blooded, con prestazione convincente da parte di tutti i protagonisti. Azzeccata la scelta di Hansen, nonostante nessun fan dei Foreigner riuscirà mai a sostituire Lou Gramm nel proprio cuore. Per molti cala il sipario sulla giornata del venerdì.
In Flames.
Equivoco o scommessa vincente? È quello che si sono chiesti in molti all’annuncio del primo headliner dell’XI edizione del festival, decisamente insolito rispetto agli standard cui tutti sono abituati. Nessun dubbio sulla qualità del gruppo, rinomato per le sue infiammate esibizioni dal vivo, ma qualche perplessità resta sulla posizione offerta al quintetto di Göteborg, tradizionalmente affidata a band di taglio più classico. Gli In Flames rispondono con uno show diviso tra vecchi e nuovi successi, dispensando gli ultimi in apertura (The Quiet Place) e conservando le hit per il finale (Behind Space, Colony e la ruffiana Only For The Weak), con la famosa cornice pirotecnica che tanto incantò il Wacken 2003. Buona prova nonostante le premesse poco felici, tra l’esultanza dei fan accorsi e l’indifferenza di chi ne ha approfittato per una cena anticipata.
Sabato 24 giugno
Victory.
Dopo Powerwolf e Anvil (incrociati per un pelo, con un set di vecchie glorie tra School Love e Metal On Metal) tocca a un’altra formazione casalinga, i Victory. Quaranta minuti a base di hard & heavy è quanto offerto dalla band di Hannover, uscita a gennaio con il nuovo Fuel To The Fire, antologia con classici del repertorio completamente risuonati per presentare il nuovo cantante Jioti Parcharidis. L’ultimo arrivato non è un fenomeno, ma ha gli attributi per reggere un grande palcoscenico e non sfigurare su brani come Power Strikes The Earth o Backseat Rider, con la chitarra graffiante di Hermann Frank quale degna cornice. Positivi, che abbiano finalmente la fortuna dalla loro parte?
Unleashed.
Dopo l’apparizione dei Count Raven (di valore, ma godibili in ambienti più intimi), scocca l’ora degli Unleashed. Unica death metal band inserita nel lotto di quest’anno, il quartetto svedese stupisce per compattezza e precisione, conquistando diversi fan anche tra i turisti di turno. La proposta della band è varia quanto basta per non stancare dopo un paio di brani, sfatando il luogo comune per cui è necessario andare sempre a mille. Don’t Want To Be Born, Death Metal Victory, The Longships Are Coming e The Defender sono nate per scatenare il pubblico a furia di headbanging, e Balingen non si lascia pregare. Contro la diffidenza di una platea più orientata verso altri lidi, trionfano con merito e guadagnano il personalissimo premio-simpatia del festival – suffragato anche da un’insolita apparizione sotto il palco durante l’esibizione degli Whitesnake, con tutti i pezzi cantati a squarciagola: evil has no boundaries!
Armored Saint.
Molti superstiti ricordano con piacere l’ultima apparizione del Santo in quel di Balingen, documentata nel nuovo DVD Best Of Bang Your Head!!!. Era il 2001, e come allora il combo californiano non fa prigionieri, dispensando un’ora abbondante di pregiato US power che copre tutta la carriera della band, dagli esordi (Lesson Well Learned) ai nostri giorni (Pay Dirt). La scelta di escludere il materiale di Raising Fear (unica eccezione: Book Of Blood) non intacca la qualità della scaletta, che può contare su pezzi da novanta quali Reign Of Fire, Aftermath, Nervous Man e Seducer (!). Chiusura in grande stile con le classiche Can U Deliver e March Of The Saint, osannate da un pubblico decisamente tiepido fino a quel momento. Grandissimi John Bush e Gonzo, per uno dei concerti più esaltanti dell’intera due-giorni: occhio all’Evolution!
Pretty Maids.
Delusione. L’alibi di suonare dopo i Saint non regge, troppo diversi i generi e le aspettative del pubblico. Un incipit con Rock The House e Love Games dovrebbe incantare qualsiasi fan dei danesi, invece i risultati sono sconfortanti: tastiere inesistenti (frutto di un sound-check frettoloso) e un Ronnie Atkins in evidente debito d’ossigeno trasformano i due pezzi in episodi da dimenticare, senza scusanti. Più avanti le cose migliorano, con il vocalist dalla (ex) voce dorata a intonare Yellow Rain e Future World, senza dimenticare i primi passi della band con le classiche Back To Back e Red, Hot & Heavy, ma resta l’impressione di un’incompiuta. Concerto mediocre, demolito dal confronto con i gruppi che hanno preceduto e che seguiranno.
Y&T.
Dave Meniketti e soci vivono l’unica ingiustizia della giornata: esibirsi mentre è in scena Germania-Svezia. Nonostante un backstage con migliaia di tedeschi incollati al maxi-schermo, gli Y&T regalano un’ora di regale hard rock, che spazia attraverso la lunga carriera della band. Quando sale in cattedra Meniketti non ce n’è per nessuno, e le varie Black Tiger, Don’t Be Afraid Of The Dark (gioiello da Ten), Midnight In Tokyo, Rescue Me e la poderosa Meanstreak lo dimostrano. Il calore del pubblico, già infiammato dalla doppietta di Podolski, non si fa attendere e premia uno dei momenti più intensi della giornata, dimostrazione lampante che la classe non è acqua. Applausi.
Rik Emmett (playing a night of Triumph music).
Da molti accolto come uno degli eroi dell’XI edizione del Bang Your Head!!!, Rik Emmett non ha probabilmente ben chiara la dimensione degli open air europei. La sua è un’esibizione inclassificabile, che pesca sì dal repertorio dei Triumph (ci sono Allied Forces, Rock N Roll Machine, la conclusiva Magic Power per citare alcune scelte), ma è infarcita di improvvisazioni e jam con i compagni d’avventura, che se da un lato confermano il talento cristallino del canadese, dall’altro mal si sposano con le esigenze del pubblico. Niente da obiettare sulla qualità (rinomata) della musica proposta, ma la sensazione è quella di un artista anche troppo professionale, che non mette in mostra grandi doti di intrattenitore. Show tecnicamente impeccabile, ma non proprio coinvolgente.
Stratovarius.
Sembra lontano il periodo nero del quintetto finnico, dato per disperso con le bizze di Timo Tolkki e frettolosamente ritornato in pista con la pronta ‘guarigione’ del suo leader maximo. La band ha ripristinato una certa coesione al suo interno, che emerge più che mai dallo show di Balingen: in 70 minuti ecco dispensati molti classici ormai decennali, da Speed Of Light a The Kiss Of Judas, passando per le relativamente più recenti Hunting High And Low e Phoenix. Su Timo Kotipelto piovono regolarmente le critiche più svariate, invero il più delle volte esagerate: potrà non piacere la relativa staticità del suo stile canoro, ma la sicurezza sul palco e la fedeltà a certe linee non mancano mai, a differenza di altri colleghi. La chiusura – da copione – di Black Diamond completa un concerto gradevole, anche per chi non si professa Strato-fan.
Whitesnake.
Il momento più atteso. David Coverdale è ancora una volta in pista per resuscitare il mito del Serpente Bianco, ormai prossimo ai trent’anni di leggenda. La truppa al servizio di Mr. Everstylish include i chitarristi Reb Beach (già Winger e Dokken) e Doug Aldrich (statuario axeman di fama internazionale, già al servizio di Lion, Hurricane e Dio), nonché il compagno di una vita, Tommy Aldridge, batterista che non ha bisogno di presentazioni. Fedele alla linea, Coverdale ama abusare della pazienza del pubblico presentandosi in netto ritardo, con l’unica battuta: ‘I ain’t no fuckin’ Axl Rose!‘. Quando finalmente scocca l’ora della musica, il medley porpora Burn/Stormbringer inaugura una sfilata di hit da capogiro, da Slide It In a Here I Go Again (forse la più riuscita), passando per Is This Love?, Love Ain’t No Stranger, Crying In The Rain e la conclusiva Still Of The Night. Il ritardo accumulato ai box taglia sul nascere la possibilità di un encore, ma va bene così: con ottimi suoni, grande partecipazione del pubblico e il ghigno soddisfatto del Gran Capo, non si poteva chiedere di più. Degna chiusura di un festival che forse non ha raggiunto l’eccellenza delle edizioni precedenti, pur offrendo un servizio di qualità e quantità impagabili. Arrivederci al 2007!