Dokken: report Reggio Emilia (09 aprile)
Intramontabili Dokken. Potrebbe riassumersi così il giudizio di un concerto lungamente atteso dai fan italiani, da anni orfani di un gruppo che ha scritto pagine fondamentali dell’heavy metal più raffinato. Assenza in parte ripagata da un concerto più che soddisfacente, che ha mostrato un collettivo affiatato (nonostante una formazione puntualmente rimaneggiata) alle prese con una scaletta che più classica non si può, con evidente gioia dei presenti.
L’apertura dei cancelli del Transilvania Live è prevista per le 21.30, poco prima che i Listeria inizino a scaldare il pubblico. Chiamato all’ultimo momento, il combo emiliano ha offerto la solita dose di hard & heavy con forti richiami rock ‘n roll, pur senza brillare per originalità. Peccato per una prova incolore del vocalist Vittorio Scotti, a tratti quasi imbarazzante, che ha pesantemente condizionato la resa generale dei brani, nonostante una prestazione infuocata di Luciano Toscani alla chitarra solista. Rock Is My DJ e le due cover (Strong Arm Of The Law e Ace Of Spades, classici che di certo non hanno bisogno di presentazioni) gli episodi più felici di un concerto che, anche per colpa di un impianto ballerino, non ha offerto un’immagine fedele di una band come i Listeria, che, almeno dal vivo, possono e sanno dare di più. Da rivedere!
Terminata la prova del five-piece tricolore trascorre più di mezz’ora, durante la quale il locale continua a riempirsi (a fine serata i paganti saranno approssimativamente mezzo migliaio) e l’attesa nelle prime file si fa spasmodica. Che sia un evento destinato a rimanere impresso nel cuore degli appassionati lo si evince dalle prime note della pirotecnica Kiss Of Death, opener di lusso per gli headliner della serata. Jon Levin alla 6-corde, Barry Sparks al basso, Mick Brown dietro le pelli (unico superstite dalla formazione d.o.c. della band losangelina) e un Don Dokken con tanto di occhiali da sole (c’è chi si aspettava anche il mitico cappello da cowboy!): bentornati Dokken!
Il gruppo è in grande giornata e sfodera una hit dietro l’altra. Si torna indietro di vent’anni con The Hunter, primo di una ricca serie di estratti da quel capolavoro che risponde al nome di Under Lock And Key. Gli anni passano per tutti, senza sconti per un Don con meno voce ma la stessa grinta di un tempo: il carismatico frontman – che nel corso della serata delizierà la platea con divertenti quanto autentici aneddoti sulla vita da rockstar – punta sull’interpretazione piuttosto che sul virtuosismo, dimezzando i passaggi più impegnativi e dosando sapientemente la propria voce; poco importa allora sentire un paio di strofe riproposte un’ottava sotto, la qualità è garantita dal cuore e dall’esperienza.
Un boato accoglie l’incipit di Dream Warriors, da tempo immemore assente nelle set-list dei nostri. Spicca fra tutte la prestazione di Jon Levin, capace di riproporre con grande fedeltà gli assoli originariamente composti da George Lynch: preciso e perfettamente integrato, il (relativamente) nuovo axeman del four-piece di Los Angeles si è dimostrato assolutamente all’altezza della situazione, uscendo vincente da ciclici quanto inevitabili paragoni con il suo illustre predecessore.
Into The Fire inaugura la corposa selezione marchiata Tooth And Nail, che comprenderà anche Just Got Lucky, Alone Again (durante la quale il pubblico di fatto si sostituisce alla band), una massiccia When Heaven Comes Down e la mitica title-track, riproposta con grande potenza. Travolti da tante delizie, i presenti non sanno quasi come reagire quando un Don Dokken sempre più smaliziato annuncia al fido Mick Brown (protagonista di alcune gag esilaranti degne del suo personaggio) che il prossimo pezzo sarà nientemeno che Unchain The Night, manifesto del class metal che chiude una prima parte da brivido.
Haunted è l’unica canzone scelta dal recente Hell To Pay, un brano che di moderno/recente ha solo la data d’incisione: forte soprattutto di un ritornello in pieno Dokken trademark, Haunted non sfigura minimamente in mezzo a tanti classici del passato, dimostrando – se mai ce ne fosse bisogno – che la pensione è ancora lontana per i quattro rocker americani.
Ad eccezione di Too High To Fly (che ospita un lungo assolo di chitarra), da questo momento la set-list torna a tingersi di anni ’80: Heavensent, una straordinaria Breaking The Chains, It’s Not Love e una celebratissima In My Dreams (prevedibilmente il pezzo più richiesto dal pubblico del Transilvania Live) suggellano un concerto eccellente a base di buona musica e tanta passione, come suggeriscono gli occhi lucidi di un Don Dokken commosso di fronte a tanto tripudio dei fan.
I tempi in cui i Dokken riempivano gli stadi sono irrimediabilmente andati (almeno qui in Europa), ma i nostri hanno dimostrato di aver ancora molto da dire e insegnare alle nuove leve nate sotto il segno dell’hard & heavy: il successo delle tre date in Italia, Paese da cui gli alfieri del class metal sono stati colpevolmente lontani per troppo tempo, lo conferma. Da parte sua, la band ha già promesso di tornare il prima possibile a supporto del nuovo album. La prossima volta non fateveli scappare.