IN FLAMES + SOILWORK: Live Report

Di Alberto Fittarelli - 30 Ottobre 2002 - 20:53
IN FLAMES + SOILWORK: Live Report

Un bill come quello previsto per mercoledì 23 Ottobre all’Alcatraz di Milano, con Pain e Soilwork a supportare gli ormai arcinoti In Flames, non poteva che risultare allettante, sia agli occhi di chi come me segue queste bands sin dagli inizi, sia per chi magari ne conosce solo le ultime produzioni: ed infatti la cosa mi è stata confermata, anche se purtroppo solo parzialmente, per cause di forza maggiore!

Ma andiamo con ordine: parto con due amici verso Milano, e subito ci becchiamo una coda di svariati chilometri all’ingresso della città; l’attraversamento del centro non è poi migliore, dato l’orario! Morale, arriviamo, con un’ora di ritardo, alle 20 davanti al locale, già abbastanza gremito di persone. Ritiro l’accredito ed entro, giusto per accorgermi di aver perso completamente l’esibizione dei Pain di Peter Tägtren, che paiono aver suonato solo per 20/30 minuti.

Sul palco sono già saliti da un pezzo, nonostante sia ancora presto, i Soilwork: i death/thrashers svedesi stanno bombardando i presenti (in quel momento non più di 300) con il loro suono veloce e potente, ma reso completamente confuso da un’acustica che definire pessima sarebbe un complimento. Su tutto prevalgono la batteria ed il basso, con le tastiere altissime nei loro interventi sui chorus: lo stesso Bjorn “Speed” Strid sembra volersi riparare dal rimbombo mentre canta, coprendosi un orecchio con la mano libera dal microfono! Nel marasma generale riconosco una Chainheart Machine, title-track del loro secondo album, splendida come sempre, ma totalmente incomprensibile per chi non la conoscesse precedentemente; e, paradossalmente, sono proprio le canzoni degli ultimi due albums della band, a mio parere nettamente inferiori ai precedenti lavori, a rendere meglio in questa situazione: i riff meno serrati ed una maggiore presenza delle tastiere stesse permettono una comprensione ed un coinvolgimento maggiori. Soilwork comunque rimandati ad un tour futuro, magari da headliner e con delle condizioni sonore, quindi, ottimali: le capacità musicali, si sa, sono ottime, mentre quanto a tenuta di palco la band può ancora migliorare, dato che sembra un po’ “rigida” (se escludiamo il bassista, un vero showman!).

Durante le ultime canzoni proposte dai Soilwork il locale si è andato riempiendo, senza comunque raggiungere mai un’affluenza enorme: l’attesa per gli headliners è comunque alta, ed il pubblico lo dimostra chiamandoli a gran voce mentre i roadies liberano la batteria dal telo nero che la ricopriva, mostrando ai suoi lati una semplice scenografia raffigurante la sagoma del “jester”, da sempre simbolo degli In Flames. Si spengono le luci, parte la classica intro e finalmente i cinque, vestiti con una specie di tuta da infermieri completamente bianca, salgono sul palco levando le braccia verso la folla, che risponde con un boato. L’attacco è con System, ovviamente tratta dall’ultimo Reroute to Remain: un pezzo veloce, con rallentamenti “tattici” sui chorus, ai quali il pubblico partecipa attivamente, quasi coprendo la voce di Anders Fridèn; il finale in screaming ci dà la prima prova di potenza del singer, come sempre molto attivo anche per quanto riguarda la presenza scenica.

Da lì in poi è un continuo alternarsi di pezzi che vanno a ricoprire tutta la carriera della band (o quasi: da Jester Race, forse l’album più famoso, non è stato tratto nulla, neanche la celeberrima Moonshield): Pinball Map, presa da Clayman, è la prima a scatenare veramente il pubblico, che sembra apprezzare generalmente il concerto ma senza mai lasciarsi andare troppo, quasi esaminasse l’operato dei cinque svedesi. E la cosa è particolarmente evidente sui pezzi nuovi, come la title-track Reroute To Remain, dove l’intrecciarsi di più tracce vocali sul disco costringe Anders a chiedere l’aiuto al pubblico, che risponde prontamente, ma forse non come sperato dal cantante, che pare abbastanza contrariato. Tutt’altra cosa per quanto riguarda in due chitarristi, Jesper e Björn: cantano per intero le canzoni, si sbattono, sorridono in continuazione: sono loro forse gli elementi che interagiscono maggiormente con gli spettatori, in questa fase.
Ma arriva finalmente una canzone come Bullet Ride, opener del precedente album, a sciogliere definitivamente il pubblico: il pezzo è obiettivamente trascinante, non per niente apriva anche i passati concerti della band, ed è con questo che si scatena il primo stage-diving della serata! 

A questo punto la strada sarà tutta in discesa, il ghiaccio è rotto, ed anche le canzoni dell’ultimo album, seppur meno “fisiche”, avranno il loro considerevole effetto: impressionante come tutti cantino all’unisono il ritornello di Cloud Connected, per esempio. E se pezzi come Embody the Invisible, Clayman e Food for the Gods incitano la folla al pogo incontrollato, altri più riflessivi, come ad esempio Ordinary Story o Square Nothing, con la sua bella intro acustica, forniscono allo show la giusta percentuale di atmosfera.

L’apice lo si raggiunge comunque con Behind Space: la canzone, tratta dal primo album ma riproposta poi su Colony, è la più violenta del lotto ed i risultati si vedono, eccome! Qui tutti, musicisti e pubblico, si scatenano totalmente, ed Anders dovrà addirittura invitare alla calma dei ragazzi delle prime file, alla fine del pezzo in questione; la stessa scena si ripeterà poi su un altro estratto del primordiale Lunar Strain, Clad in Shadows, altra song perfettamente eseguita.

L’apprezzatissima Colony chiude infine uno show che, a conti fatti, risulta davvero intenso e ben riuscito: il gruppo è in un momento di ottima forma, ed i presenti non possono che dirsi soddisfatti del loro show; al di là delle polemiche sulla qualità dell’ultimo album (che personalmente ritengo discreto, se giudicato senza paraocchi), va detto comunque che fa riflettere il fatto che il pubblico risponda molto di più ai riffs serrati dei vecchi pezzi, piuttosto che ai recenti chorus… e la band è sembrata accorgersene.

Una volta riaccese le luci ci accorgiamo che è prestissimo, appena le 22 e 30: tentiamo di approfittarne per uscire da Milano in poco tempo, ma con grande acume ci andiamo a cacciare in zona san Siro proprio mentre dallo stadio escono gli spettatori di Milan- Bayern Monaco! Vi lascio immaginare l’ora del nostro ritorno a casa…

Alberto “Hellbound” Fittarelli
Foto: Rev Aaron Michael /
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