Live Report: Agalloch, Dornenreich e guest a Lonato del Garda (BS)

Di Redazione - 5 Aprile 2009 - 11:00
Live Report: Agalloch, Dornenreich e guest a Lonato del Garda (BS)

Report a cura di Pier Tomasinsig
Foto di Viviana ‘Lilith From Hell’ Aresu

Il March Of The Fallen festival che si è tenuto lo scorso 22 marzo all’Olden Live Club di Lonato del Garda (BS) è stato, per varie ragioni, uno di quei concerti destinati a rimanere a lungo nella memoria dei presenti, non fosse altro perchè ha rappresentato la prima, storica occasione di assistere in Italia ad un’esibizione dal vivo degli Agalloch. Nonostante più di dieci anni di attività sulla scena, tre eccellenti full-length all’attivo (oltre a un cospicuo numero di EP) e un seguito fedelissimo che continua ad incrementarsi -lentamente ma costantemente- di release in release, il combo statunitense non aveva ancora mai calcato i palchi della nostra penisola. La curiosità per un simile evento non poteva dunque che essere alle stelle. Non è facile perciò immaginare migliore inaugurazione per l’Olden Live Club, che rappresenta, per così dire, la nuova “incarnazione” di quel Covo Antico che tanti concerti aveva già ospitato nella vicina Desenzano.

Il nuovo locale, situato in piena zona industriale, alla data del festival era infatti ancora in corso di allestimento, con un palco assai scarno illuminato unicamente da quattro finti bracieri collocati agli angoli, a scapito forse della coreografia ma certamente a beneficio dell’atmosfera. Ad ogni modo, per essere il primo concerto ad aver luogo nel nuovo sito, deve riconoscersi che gli organizzatori non si sono risparmiati, affiancando agli Agalloch gli austriaci Dornenreich, lo storico combo piemontese Opera IX, preceduti, nell’ordine, da Mely, Nidhogg, EchO, Misanthropic Desire e Deadly Carnage. Una bill di tutto rispetto, a maggior ragione ove si consideri (come è giusto) il costo estremamente accessibile dei biglietti, pur se l’accostamento tra generi tanto diversi onestamente mi ha lasciato qualche perplessità.

Quando entro nel locale i Deadly Carnage stanno ormai terminando la loro esibizione, ragione per la quale il report dovrà purtroppo iniziare dai secondi in scaletta, i Misanthropic Desire. Il combo, originario di Desenzano del Garda, è autore di un black metal di marcata ispirazione norvegese, che alterna i consueti passaggi violenti e tirati a parti maggiormente atmosferiche, lente, grevi e molto oscure, dove a tratti emerge una pregevole vena epica.

I nostri si presentano sul palco con fare arcigno, con tanto di facepainting, sangue finto e bracciali con chiodi di venti centimetri: look se vogliamo ormai trito, ma pur sempre efficace e pittoresco. I Misanthropic Desire, nei venti minuti a loro disposizione, danno vita ad uno show onesto e improntato a un’attitudine genuinamente old-school, pur se la proposta musicale non brilla per originalità e i nostri risultano a volte un po’ imprecisi nell’esecuzione, penalizzati anche da suoni piuttosto impastati.

I brani proposti mostrano una buona atmosfera e sono tutti discretamente vari e strutturati, anche se a tratti si avverte una certa mancanza di fluidità, oltre al fatto che il bagaglio tecnico/esecutivo dimostrato dai nostri on stage non sempre risulta all’altezza del songwriting. In conclusione, non hanno entusiasmato, anche se lo scarso tempo a disposizione, e il poco pubblico presente (che, a parte qualche caso isolato, tendeva a restare nelle retrovie) ovviamente non hanno giocato a loro favore.

Il tempo di un rapido cambio palco e si passa ad un’altra band originaria del luogo, i bresciani EchO. Lo stacco rispetto al genere proposto dalla band che li ha preceduti è netto. Anzi, nel caso degli EchO anche solo tentare una classificazione risulta quanto mai difficoltoso: un particolarissimo connubio di doom, death, ambient, psichedelia, dark e, in certi frangenti, persino thrash moderno à la Meshuggah (dai quali i nostri riprendono certi tipici riff secchi, claustrofobici e stoppati), oltre al nu-metal, cui si rifanno soprattutto nelle movenze sul palco.

Tante idee insomma, e tanta, forse troppa carne al fuoco. L’impressione in effetti è che la proposta musicale del combo lombardo, per quanto originale e interessante, denoti un’identità ancora incerta. Alle aspirazioni però in questo caso corrisponde un tasso tecnico più che adeguato, in quanto gli EchO dal vivo si dimostrano musicisti molto professionali e preparati, precisi nell’esecuzione in tutti i reparti. Ottima in particolare la prova del cantante Antonio Cantarin, che si divide tra un growl profondo e catacombale, davvero molto convincente, e un clean (spesso filtrato) ipnotico e delicato.

Uno show in cui a farla da padrone sono state le atmosfere oniriche, dilatate e a tratti “spaziali” disegnate da tastiera e chitarre, senza però rinunciare a momenti di notevole impatto. Sul piano della presenza scenica, eccezion fatta per il frontman, c’è da dire che i nostri devono ancora migliorare, risultando nel complesso un po’ troppo fermi sul palco. Ad ogni modo è stata una buona prova, corroborata peraltro da suoni puliti e potenti: l’impressione è che gli EchO, seppure ancora un po’ dispersivi e prolissi, siano una realtà da tenere d’occhio.

Nidhogg

Dopo gli EchO, è il turno dei teutonici Nidhogg (da non confondere con l’omonima band norvegese), autori di una proposta musicale che si colloca, giusto per dare qualche riferimento ben noto, a metà strada tra Amon Amarth e Dissection: death melodico dalla marcata componente epica con influenze riconducibili al black di scuola svedese. Questi gli ingredienti, dunque: cantato ripartito tra un growl gutturale e bellicoso e uno scream lacerante, tempi sempre molto sostenuti, sezione ritmica potentissima e incalzante, componente melodica abbastanza marcata, soprattutto nelle parti di lead-guitar, drumming martellante e preciso, anche se poco fantasioso.

L’esibizione dei nostri è dunque all’insegna della velocità e dell’impatto, anche se sin dall’inizio si coglie una pronunciata mancanza di originalità. I suoni inizialmente sono molto mal bilanciati, con la voce che copre tutto il resto. Al punto che dopo la prima traccia si rende necessaria una breve pausa, prima di ripartire con un migliore equilibrio tra voce e strumenti.

Convincenti e compatti nell’esecuzione, anche se non troppo coinvolgenti, i Nidhogg ci offrono trenta minuti di feroce e bellicoso death/black melodico. Uno show quadrato e di notevole impatto, ma purtroppo spesso monocorde, che sulla distanza finisce per mostrare la corda, complice una tenuta del palco un po’ impostata (eccezion fatta per il simpatico e tarchiato frontman) da parte dalla band, che non concede granchè allo spettacolo.

Siamo ormai in discreto ritardo sulla tabella di marcia quando salgono sul palco i Mely, per il sottoscritto una delle più gradite sorprese della serata. La band austriaca, reduce dalla recente pubblicazione del quarto full-length “Portrait Of A Porcelain Doll”, è dedita ad un gothic metal che si mostra debitore degli ultimi Green Carnation, caratterizzato da influenze rock e linee melodiche tutto sommato piuttosto catchy, sostenute da riff di chitarra in cui è ben marcata la componente metal, con onnipresente sottofondo di tastiera a ricreare malinconiche atmosfere dark.

Se anche il materiale proposto di per sè non brilla per originalità, bisogna rendere atto ai Mely di aver saputo gestire la dimensione live con convinzione e grande mestiere. I primi brani proposti inizialmente stentano a coinvolgere, ma è solo questione di tempo perchè si raggiunga la giusta alchimia, riscontrando il meritato apprezzamento del pubblico, che inizia finalmente a riempire un po’ la sala. I Mely dimostrano di essere estremamente affiatati sul palco, oltre che in possesso di un bagaglio tecnico più che all’altezza della situazione: l’esecuzione è precisa e priva di significative sbavature, valorizzata peraltro da volumi adeguati e mai eccessivi e da suoni corposi e ben bilanciati.

Prestazione più che soddisfacente sotto tutti gli aspetti dunque, con una particolare menzione al frontman Andreas Mataln, convincente sia nelle parti vocali più ruvide che in quelle profonde e interpretative. Non conoscevo ancora i Mely, ma posso dire che, quantomeno in sede live, mi hanno colpito favorevolmente.

Terminata l’esibizione dei Mely, si torna a sonorità più estreme con il black metal sinfonico e darkeggiante dei veterani Opera IX. La band si presenta sul palco fin da subito molto motivata, davanti ad un pubblico ormai discretamente numeroso, anche se siamo ancora ben lontani dal riempire la sala.

I suoni inizalmente lasciano un po’ a desiderare, troppo alti e distorti sotto al palco, leggermente migliori in zona mixer, con le tastiere che spesso tendono a prevaricare il resto e le chitarre un po’ in sordina, anche se dopo qualche accorgimento in corsa la situazione migliora. Del resto gli Opera IX sono un gruppo che vanta una lunga esperienza e lo dimostrano dando vita ad uno show convincente e di grande impatto, oltre che complessivamente ben eseguito.

Buona la prova della sezione ritmica, trascinata dall’efficiente batterista Dalamar e dal bassista Vlad, che non abbandona mai la sua espressione seria e concentrata; va detto che, a parte l’affabile e sorridente Ossian, l’atteggiamento complessivo è molto serioso, a partire dall’instancabile frontman, che conserva per tutto il concerto un piglio burbero, fulminando gli astanti con sguardo indemoniato.

Il pubblico nel complesso risponde bene, soprattutto lo zoccolo duro di fedelissimi che si sono ammassati nelle prime file dando luogo ai primi (ed unici) episodi di pogo che questo festival abbia avuto, anche se nelle retrovie la reazione sembra essere più tiepida. Personalmente non nego di aver seguito l’esibizione con una certa freddezza, non essendo un grande estimatore della loro musica, ma è doveroso riconoscere che stasera gli Opera IX hanno saputo raccogliere il consenso della maggioranza dei presenti, dimostrando un ottimo stato di forma e offrendo una prestazione di tutto rispetto.

L’esibizione dei co-headliner Dornenreich era, eccezion fatta per gli Agalloch, quella che avevo atteso con maggiore interesse. Chi ha seguito il corso recente del combo austriaco, da “Hexenwind” in poi, poteva legittimamente aspettarsi un concerto semiacustico, totalmente improntato ad atmosfere dilatate e malinconiche, voce pulita e raffinati arpeggi dark/folk, sulla falsariga di quanto proposto negli ultimi album.

Fin dal brano di apertura, Trauerbrandung (tratto dal terzo full-length “Her von Welken Nächten”), appare invece palese che le coordinate dello show saranno ben diverse. I Dornenreich si presentano nella consueta formazione a tre, con Eviga nel duplice ruolo di chitarrista/cantante, Inve al violino e la batteria affidata a un session-man; il repertorio proposto è quasi completamente incentrato sui primi album e in particolare sul già citato “Her von Welken Nächten”, dal quale andranno ad eseguire anche Eigenwach, Wer Hat Angst Vor Einsamkeit? e Schwarz, con giusto una breve incursione sul recente “In luft Geritzt” (Jagd) e sullo storico “Bitter Ist’s Dem Tod Zu Dienen” (Leben lechzend Herzgeflüster).

L’esibizione dei nostri è dunque all’insegna di un black/avantgarde veloce, aggressivo e frenetico, ben lontano dalla delicata malinconia delle recenti produzioni. L’esecuzione è buona, anche se la resa sonora risulta tutt’altro che ottimale, con la batteria troppo alta e la chitarra di Eviga un po’ sottotono. Ma il vero protagonista di questo concerto è il violino, sempre in evidenza, al punto di risultare a tratti quasi invadente; l’impressione complessiva però è che i vari strumenti non si amalgamino perfettamente.

Il pubblico è diviso tra il discreto entusiasmo delle prime file e l’atteggiamento distratto di chi, ai margini del locale, chiacchiera e si fa i fatti suoi senza prestare più di tanta attenzione al concerto. Al di là di quelle che potevano essere le aspettative, mi riesce difficile esprimere un giudizio univoco sulla prestazione dei Dornenreich. Bravi e indubbiamente particolari, ma non mi hanno pienamente convinto: continuo a nutrire qualche dubbio sull’effettiva resa live delle loro composizioni, riservandomi di rivederli ancora, magari in versione acustica.

Quando finalmente gli Agalloch salgono sul palco il ritardo sulla tabella di marcia ammonta quasi ad un’ora, e l’impazienza e l’aspettativa da parte degli intervenuti (ad occhio e croce circa duecento persone) sono quasi palpabili. Il concerto si apre sulle note di Dead Winter Days e, al di là del visibilio generale, duole notare che suoni e volumi non sono assolutamente adeguati: mal bilanciati i primi, con la batteria a coprire tutto, inutilmente troppo alti i secondi, con l’effetto di distorcere eccessivamente soprattutto le parti di chitarra; la voce, dal canto suo, si sente poco e niente.

L’aver dovuto fare il soundcheck in fretta e furia purtroppo ha pesato. La situazione si protrae invariata anche durante il medley mozzafiato As Embers Dress The Sky/I Am The Wooden Doors, con grande dispiacere di chi, come il sottoscritto, auspicherebbe suoni ben più puliti e cristallini per questo tipo di proposta musicale, anche se nella zona immediatamente adiacente al palco ad onor del vero la resa sonora è un po’ migliore.

Gli Agalloch però sono un gruppo di rara qualità e talento e la magia intrinseca nei loro pezzi inevitabilmente riesce a farsi strada nonostante i vari problemi tecnici, che comunque dopo qualche accorgimento fortunatamente vengono ridimensionati (ad eccezione dei volumi, sempre eccessivi). Resta il fatto che, quando le prime note della splendida In The Shadow Of Our Pale Companion si diffondono nella sala, è impossibile non rimanere rapiti e commossi da tanta bellezza. Il lunghissimo applauso al termine della canzone è pienamente meritato: gli Agalloch, seppur non sempre impeccabili nell’esecuzione, si confermano validissimi musicisti anche dal vivo, offrendo una prestazione estremamente intensa e convincente. La risposta del pubblico, che dimostra di conoscere tutti i versi a memoria, è calorosa ed entusiastica, al punto che il piccolo e riservato frontman John Haughm appare a volte quasi in imbarazzo di fronte a tanta dimostrazione di affetto.

Si passa poi ad “Ashes against The Grain” con Limbs e con le conclusive Not Unlike The Waves/Bloodbirds, che ci proiettano in un lungo trip psichedelico al termine del quale la mente quasi si rifiuta di tornare alla realtà, ancora stordita da tante emozioni. Peccato per il bis, saltato a causa dei ritardi, ma resta il fatto che la scaletta proposta non ha assolutamente deluso le aspettative: del resto la qualità media del loro repertorio è impressionante e non poteva che giocare a loro favore.

Non resta, a questo punto, che provare a rispondere all’interrogativo che credo ogni fan degli Agalloch si fosse posto alla vigilia della loro esibizione, interrogativo riguardante essenzialmente la capacità del combo statunitense di riproporre dal vivo quelle atmosfere sognanti, malinconiche e rarefatte, quasi spirituali, che contraddistinguono la loro proposta musicale. La risposta, per quanto mi riguarda, è affermativa solo in parte. I pezzi proposti, parzialmente riarrangiati per sopperire all’ovvia assenza di tutta la strumentazione di contorno di cui i loro album sono ricchissimi, tendono a perdere qualcosa sul piano dell’atmosfera (complici anche i sopracitati problemi con suoni e volumi), guadagnandone per contro in impatto. L’impressione, in altre parole, è che gli Agalloch dal vivo suonino molto più “metal” che su disco, a parziale scapito della componente più introspettiva. Resta inteso, al di là di simili considerazioni, che si è trattato di uno splendido concerto.