Live report: Agglutination Metal Festival 2015, 9 agosto 2015, Chiaromonte (PZ)
Agglutination Metal Festival 2015
9 agosto 2015, Chiaromonte (PZ)
Questo report giunge sia a sorpresa che in ritardo da parte del sottoscritto per via di circostanze multiple di sfiga cronica, dato che, essendomi caricato già alcuni giorni prima dell’idea di un mio eventuale report ‘a sorpresa’ verso la redazione di Truemetal.it, il destino avverso ha fatto si che la mia squallida fotocamera, caricata appieno della sua batteria al litio la notte precedente al Festival, avesse deciso di tirare le cuoia (o meglio la sua batteria) proprio una volta messo piede nel fangoso terreno che quest’anno ospitava il Festival stesso… ‘fangoso’ perché questa edizione per quanto mi riguarda me la ricorderò per sempre per via di due caratteristiche peculiari: la prima è rappresentata dal terreno con una consistenza decisamente simile a quella delle sabbie mobili per via delle condizioni climatiche che nella prima parte del Festival si erano fatte assolutamente avverse, la seconda è data da una meravigliosa testata per chitarra di marca non precisata (non visibile, ma per dirla tutta non sembrava alcun marchio a me noto, nonostante anch’io sia musicista a tempo perso) che sembrava come diciamo dalle mie parti ‘spanata’ vale a dire prossima al decesso, dato che ogni cosa che ci facevi entrare suonava come un peto in fase loffia, rendendo l’operato del chitarrista di turno assai simile al suono di un macinacaffè rotto, ma andiamo oltre e passiamo al report vero e proprio. Appena arrivati sulla via principale che porta in quel di Chiaromonte (PZ), un diluvio universale di grandine e vento si abbatte sul bus incaricato di portarci alla manifestazione, rallentando il viaggio di parecchio. Poco male, dato che arriviamo comunque in perfetta puntualità all’apertura delle danze; apertura affibbiata ai nostrani Feline Melinda anziché ai tunisini Carthagods, bloccati alla dogana per problemi di visto e pertanto non presentabili, come annunciato dallo stesso Gerardo Cafaro, indomito organizzatore del festival sin dalla sua prima storica edizione, avvenuta ormai ben 21 anni fa.
L’ensemble, attivo dal 1988, propone un sound a metà tra il power di matrice tedesca/Helloweeniana e la classe dell’hard rock di stampo AOR: melodia a frotte quindi, per un sound forse troppo morbido, ma di sicuro ottimo come antipasto per le band che verranno. La performance dei Melinda però, non è esattamente di primo piano, ora per via del suo leader/cantante/chitarrista che non era sicuramente in uno dei suoi giorni migliori, ora per una sorprendente (in senso negativo) cover di “It’s My Life” di Bon Jovi. Introdotta per di più da versi abbastanza poveri di pathos («la vita è fatta anche di cose belle, la vita è bella…», che non mi pare esattamente un fior fior di presentazione per una cover del genere, per di più per una band destinata ad aprire un Festival, sarò incontentabile io forse…). Nonostante tutto, la performance fila, la band dimostra discreta partecipazione nonostante una certa staticità di fondo e l’esiguità del pubblico fino a quel momento presente sotto le fila del palco, pubblico che comunque risponde con una buona dose di entusiasmo al suono estremamente melodico della band. Chiudono il proprio set con l’inno ufficiale dell’Agglutination, segno che questi ragazzi ci tenevano davvero ad onorare questo Festival con la loro presenza, fattore apprezzabilissimo che mi spinge finalmente ad assistere un po’ più da vicino alla loro esibizione, essendo stato fino a pochi momenti prima impegnato a frugare tra gli stand di CD e merchandise presenti alla manifestazione alla ricerca di qualche buona occasione, relegando l’esibizione dei Feline Melinda ad un mero sottofondo (non certo per colpa loro, ero stanco del viaggio ed avevo bisogno di ronzare un po’ in giro dopo ore ed ore seduto su una poltrona plasticosa) nonostante le mie orecchie ascoltassero eccome quello che la band produceva dal palco. Come nota estremamente positiva, faccio un plauso di lode al chitarrista solista, davvero funambolico, che tra sweep-picking e scale eseguite alla velocità della luce ci ha regalato buoni momenti di pura estasi metallica. E nel frattempo il povero chitarrista/leader si è beccato la famosa testata per chitarra di cui sopra, regalandoci a suo malgrado le prime scoregge musicali della giornata (no, sul serio, mi spiace). Ironia a parte, il loro breve set si conclude, la band ringrazia ed il pubblico applaude, giusto il tempo di ricaricare le batterie e…
… e viene giù un diluvio biblico! Quel che serve agli Arthemis per dimostrare quanto valgono ad un pubblico che finalmente si accalca in misura maggiore sotto al palco nonostante la forte pioggia ed il vento che ha contraddistinto tutta l’esibizione degli eroi del power/thrash nostrano. La formazione attacca con “Scars On Scars” come da loro tradizione e sin dai primissimi momenti si capisce che la band è un fiume in piena, il chitarrista Andrea Martongelli dà prova di essere un leader con gli attributi, un autentico messia del metallo che dà prova di esserci su serio anche dinanzi ad un pubblico sicuramente ridotto all’osso come quello che gli si presenta dinanzi per via di queste condizioni climatiche così particolari. Dall’altra parte, si fa per dire, il vocalist Fabio guida alla grande tutta la baracca del metallo e dà dimostrazione, assieme a tutta la formazione, di come gli Arthemis non debbano dimostrare nulla da nessuno perché ogni loro esibizione è all’insegna del metallo più autentico, anche quella più disastrata climaticamente parlando: per la band quella pioggia è come se non esistesse, dà sfoggio di tutto il proprio carisma ed orgoglio per tutta la durata del suo breve set mentre il pubblico sotto gli spalti si fa finalmente più numeroso, iniziando a scattare le prime foto (beh, sono i bei tempi moderni…) ma soprattutto incitando alla grande la formazione tricolore che risponde divinamente incitando a sua volta il pubblico, per un botta-risposta che in sede live assicura la follia più totale, follia che raggiunge il suo picco massimo con la conclusiva “Vortex”.
Ed a proposito di foto, personalmente mi ha fatto veramente piacere vedere la band scattarsi una foto sullo sfondo dello sparuto ma affamato pubblico presente, come se fosse un Rock in Rio qualsiasi: ennesima dimostrazione di grande modestia e stima dei propri fan, una cosa che più di tutte rende la nostra musica così grande. Formazione di serie A, magari la stessa A del loro logo, come se ci fosse bisogno di ulteriori conferme d’altronde; tra i migliori della giornata. Tempo di ricaricarsi, la pioggia accenna ad una lieve tregua come se tutto ciò fosse servito come prova del nove verso l’entusiasmo di una formazione che pare intenzionata a fermarsi di fronte a nulla, figuriamoci quattro gocce…
La pioggia avrebbe dovuto esserci per loro, non per gli Arthemis! Nulla di malvagio nei loro confronti ovviamente, solamente la constatazione che un diluvio ‘biblico’ (blasfemia!) come quello che ha funestato le nostre teste fino a poco tempo prima si sarebbe rivelato decisamente azzeccato al cospetto del sound della Tomba Dimenticata, rendendo la giusta atmosfera per un suono grigio e penetrante come il loro. Poco male, ci pensa il grigiore nuvoloso del tardo pomeriggio a fare loro da contorno: la formazione oggi è particolarmente in palla, snocciola brani da tutto il loro repertorio compreso un medley finale di vecchi pezzi contenente quello che per me è il pezzo migliore del loro repertorio, vale a dire quella meravigliosa “Alone” che anche oggi ha affascinato i presenti con tutta la sua plumbea negatività. Herr Morbid vomita odio con veemente spontaneità, ed anche il bassista Algol ci mette del suo con le sue pose sceniche di grande effetto, mentre tutta la band ‘si limita’ a regalarci una performance maiuscola fino alla fine del set, dove gli ultimi sporadici scrosci di pioggia vengono sostituiti da scrosci di applausi a non finire, giustificatissimi.
Poco giustificabile invece il lavoro dei fonici, non so se in ciò abbiano giocato le condizioni climatiche negative, ma il suono delle chitarre che usciva fuori dall’impianto era pesantemente saturato e per nulla definito, cosa che peggiorerà ulteriormente nello show successivo…
…. quello dei Necrodeath! Arrivano le prime tarde luci della sera quando il culto italiano del black/thrash prende possesso dello stage picchiando l’etere come fabbri, con fare ossessionato. Flegias è il solito animale da palco, furia animalesca ma anche grandi dimostrazioni di stima verso chi porta avanti questo Festival, facendo notare come fossero dieci anni che la band mancava su quel palco, sembra come se volessero farsi perdonare di quest’assenza ma qualunque sia la verità poco importa, dato che per chi scrive i Necrodeath di oggi sono stati la formazione migliore della giornata, hanno devastato l’udito e la mente di ha assistito alla loro performance, radunando verso il palco moltissimi seguaci della vecchia guardia che, nonostante l’età, hanno urlato e pogato come ossessi. L’età non conta, è solo un numero. Il chitarrista Pier Gonella, nonostante il pessimo sound a lui concesso dai fonici, ha lacerato il cuore di ogni buon metaller lì presente, il lavoro di GL al basso è stato impeccabile e la performance dietro le pelli di Peso, leader storico dell’ensemble nostrano, devastante come sempre.
Tra brani vecchi e nuovi (presentano anche brani dal seminale “Into The Macabre”), chiudono il set con una cover di “Black Magic” degli Slayer, ottimo modo per spezzettare definitivamente ciò che rimane dei timpani a chiunque abbia assistito alla loro terremotante performance. Un’esibizione a tutto metallo la loro, ma anche a tutto cuore lasciatemelo dire, dato l’affiatamento che la band ha dimostrato verso il pubblico, Flegias su tutti, per certi versi un vero gentleman quando si tratta di concedersi al suo pubblico nonostante le sue diaboliche doti mentre si esibisce on-stage. Doppia personalità forse? No, solo determinazione e passione. Io ero lì soprattutto per loro e non per nulla il Mondo questi qua ce li invidia, cari miei… ed io dico, un motivo ci sarà pure, peccato per chi ha deciso di rimanere e a casa a fare la maglia, spaventato da un po’ di pioggia!
E finalmente arrivò il nero più puro a tingere copiosamente le atmosfere finora assai più ‘gioiose’ del Festival. Gli statunitensi salgono sul palco causando qualche sgomento, infatti non sono in molti a sapere che i Nostri sono un duo, il che rende sicuramente atipica la loro performance per molti dei presenti. Non che Dagon e Incubus siano sofferenti della cosa, si sbattono come ossessi su un palco che per un duo ora pare ampissimo quasi fosse quello di San Siro: il primo serve alla grande voce e chitarra con il suo scream raggelante che fa il verso (voluto, per ammissione dello stesso Dagon) ad Abbath degli Immortal, il secondo ci dà dentro alla grande con parti di batteria impeccabilmente mostruose. E così, dopo un intro raggelante, si parte con ‘Force Of The Floating Tomb’, anch’essa opener del loro ultimo album in studio ‘Obscure Verses For The Multiverse’, che trascina con se ogni mente accalcata sotto al palco. Il pubblico d’ora in poi comincerà ad affollare seriamente gli spalti più vicini al palco, incuriosito dalla strana formula del duo, e ripaga alla grande le furia iconoclasta sprigionata da questi stregoni con boati clamorosi tra un pezzo e l’altro. Lo stesso Dagon, nonostante una certa freddezza tipica dei blackster, non ha resistito a ringraziare spesso il pubblico tra un pezzo e l’altro data la risposta del pubblico.
Si sa, anche i blackster più integerrimi hanno un cuore… tra campionamenti introduttivi, invocazioni ritualistiche ed urla iraconde il set fila liscio come una tempesta perfetta e si conclude con il pezzo anch’esso conclusivo dell’ultimo capolavoro inciso in studio, vale a dire “Infinite Interstellar Genocide”; lasciatemi dire che non ci potrebbe essere pezzo migliore per concludere il loro raggelante magma sonoro. La band ha dato prova di una prestazione maiuscola, maledettamente avvolta da un alone di oscura misticità e carisma infinito, Incubus lancia le sue bacchette contro il pubblico e con un gelido e minimale saluta il pubblico. Unica nota negativa: il suono regalatoci dai fonici. Saturata come non mai, la chitarra di Dagon appariva come un pastone confuso in grado di far venire il mal di testa anche ad un sordo, ma ormai la band è tornata nel backstage, quindi l’emicrania è solo un problema del sottoscritto (in prima fila per buona metà del concerto) e di pochi altri…
Dopo la tempesta degli Inquisition ora tocca a questi simpatici tedesconi riportare un po’ di luce ed allegria nei cuori dei presenti, la band parte carica con “Love Tyger”, pezzo tratto dall’ultimo buon lavoro in studio, per poi virare di colpo verso il proprio passato, tuffandosi acque dell’ormai arcaico “Mandrake” (2001) proponendo “Tears Of A Mandrake”, opener di quel lontano album in studio. Ma i tuffi nel passato si fanno anche più arcaici, andando a ripescare persino quella “Babylon” tratta da “Theater Of Salvation” (1999, introdotta da dei versi il cui succo era «I know you’re here for a traditional German speed metal song, and you’ll get a traditional German speed metal song!») e la title-track di “Vain Glory Opera” (1998), oltre a numerosi pezzi tratti dall’ultimo lavoro in studio intervallati dalle ormai classiche “Superheroes” e la conclusiva “King Of Fools”. C’è anche tempo per una ballad, “Save Me” (da “Rocket Ride”), che nel contesto ha rappresentato un furor di melassa per tutti i presenti. Cito tutti questi loro pezzi rispetto a quanto fatto precedentemente per le band in scaletta in quanto il five-piece teutonico è sicuramente carico, sulle prime il pubblico pare disorientato dell’eccessiva allegria sprigionata dal suono del combo, i ragazzi sul palco si dimenano come ossessi riuscendo a rianimare quasi del tutto l’audience, forse ancora stonata dall’iraconda performance degli Inquisition o semplicemente da quella chitarra saturatissima che ti stonava il cervello al primo riff in versione peto. Comunque, come dicevamo, in linea generale la band si sbatte come può dilagando nell’aria del Festival un senso di allegria che si fa pezzo dopo pezzo sempre più contagioso grazie anche a svariati (e spesso troppo lunghi…) siparietti di botta e risposta con il pubblico, tra accenni a celebri canzoni popolari italiane (no comment, ma perché all’estero noi italiani veniamo sempre visti in toto come dei provincialotti tradizionalisti?) ed un intermezzo maideniano («Let me say something… you rock! And now… we rock!» per poi partire d’assalto con un minuto di “The Trooper”) che hanno scaldato abbastanza tutti i presenti. Verso la fine dell’esibizione, una parte del pubblico ha incitato alla grande il nome ‘Edguy’ a ripetizione e la band risponde con un deciso «Lasciatemi dire una cosa, non è vero che l’heavy metal in Italia è morto e voi ne siete la prova!», frase che incrementa applausi ed ovazioni. Tutto sommato una performance molto positiva, la band dà il meglio di se anche in situazioni così piccole rispetto ai loro standard (ricordiamo che stiamo parlando di gente che ha suonato su palchi ove vi erano presenti decine di migliaia di persone, non certo le poche centinaia di presenze dell’Agglutination) e la cosa dà loro onore e rispettabilità, nonostante un Tobias Sammet non sempre al top, ma comunque autore di una prova comunque apprezzabile. A proposito del sound generale, durante l’esibizione degli Edguy stranamente il suono che si propaga dallo stage ai presenti comincia a divenire preciso e presente, senza distorsioni involute e chitarre peto foniche, ed era anche ora. Finita la loro esibizione, approfitto della calma improvvisa per poter finalmente acquistare qualcosa da qualche stand… devo riprendere fiato, arriva il momento degli headliner assoluti e l’aria attorno a me comincia a farsi elettrica, la tensione è palpabile.
Signore e signori, gli Obituary! Nonostante una folla che ora è divenuta realmente faraonica, riesco comunque ad arrivare fino alle seconde file grazie a qualche trucchetto regalatomi dalla mia natura smilza assieme ai miei due compagni di viaggio. La band sale sul palco poco in palla, durante il soundcheck Trevor Peres osserva il pubblico con sguardo incerto (forse non è abituato a festival dalla portata di pubblico così ridotta, chissà) mentre il buon Terry Butler accorda il suo quattro corde rosso fiammante e testa l’ampli alla ricerca di un suono degno della sua buona fama. L’attacco strumentale di “Redneck Stomp” (sempre un simpatico biglietto da visita da parte dei Nostri, segno che l’ironia di certo non manca) fa partire un boato finora mai così assordante, Trevor Peres comincia ad headbangare con la sua chioma infinita che con il suo scuotersi avvolge le plettrate roventi inferte contro la sua Stratocaster pesantemente distrutta (altri direbbero ‘reliccata’ ma avendo vista l’evoluzione di questa sua ascia negli anni possiamo tranquillamente dire che ogni graffio su di essa è autentica prova dei maltrattamenti on stage), Donald Tardy alle pelli dà sfoggio del suo stile battente semplice ma tuonante, Terry Butler comincia anch’esso a dimenarsi mentre il nuovo arrivato Kerry Andrews cerca di non sfigurare al cospetto dei suoi predecessori Allen West e Ralph Santolla, sciorinando assoli da brivido ed una distorsione dal sapore squisitamente death. Ma è quando John Tardy sale sul palco che l’audience impazzisce, colgo l’occasione per girare la testa alle mie spalle e noto che il pubblico arrivava sino alle bancarelle degli stand posti dalla parte opposta della struttura ospitante (da dove fosse uscita tutta quella gente guardate, non ne avevo idea…), i boati divengono realmente assordanti e quando parte “Centuries Of Lies” (opener dell’ultimo studio album) tra il pubblico sembra di assistere ad un terremoto dato che si comincia a pogare come mai finora era successo, e la cosa trascina appresso anche il sottoscritto contro la sua volontà, visto che mi son ritrovato di colpo dalla seconda fila alla quinta. Approfitto del buco creatosi a causa del pogo e riprendo con orgoglio la mia posizione in seconda fila. Nel frattempo la band è in stato di grazia, su tutti John Tardy, autore di una performance vocale degna dell’olimpo del death metal, quindi si continua saccheggiando alla grande il loro debut-album e dopo “Til’Death” la band abbandona il palco, forse per far riprendere fiato a John Tardy. Si ricomincia dopo pochi minuti, si riparte alla grande con un assolo di batteria del buon Donald Tardy che poi attacca assieme al resto dei nostri eroi con “Don’t Care”, seguita da “Back To One” (il sottoscritto conosce i pezzi dei floridiani a memoria, eheheh): su “Violence” la violenza parte davvero, dato che il pogo comincia a farsi realmente pericoloso e qualche piccola pozza di sangue comincia a versarsi sul terreno ancora oscillosamente fangoso. Nulla di grave, comunque, nessun ferito. Il loro breve set, forse troppo breve, si conclude con il duetto di “Inked in Blood” (title-track dell’ultimo disco in studio) e “Slowly We Rot” che porta davvero fine sia al Festival che alle energie di presenti, che di colpo abbandonano lo show ed imbracciano, infinitamente stanchi, la propria strada verso casa. Aldilà della setlist come già accennato forse troppo breve, c’è da dire che la band ha dato il massimo sul serio, Tardy ha elogiato più volte il pubblico dichiarando che «non aveva mai visto un’audience così ridotta fare così tanto casino», senza contare i suoi numerosi sorrisi di approvazione durante le parti strumentali dei pezzi. D’altro canto, Trevor Peres dedica a questo piccolo manipolo di pazzi accalcati sotto al palco numerose ovazioni birraiole in un italiano con accento pesantemente americano, concedendosi persino un bel bestemmione che fa schizzare alle stesse la follia dei presenti. Il sound on stage è stato il migliore della serata, tutto appariva chiaro e preciso al contrario di ciò che era il suono proveniente dal palco fino alla performance degli Inquisition, rendendo l’impatto dei floridiani ancora più devastante.
Tiriamo le somme…
Quindi alla fine, come è stata questa nuova edizione del festival metal più importante del Sud Italia? Sicuramente si è trattato di un’edizione notevole, spiace per la mancata partecipazione dei Carthagods all’evento, evento che ogni anno si riconferma come un grande spasso, una grande festa all’insegna del divertimento e del metallo più intransigente. È stato veramente piacevole confermare la bontà dei musicisti presenti dato che molti di loro hanno presenziato subito dopo la loro esibizione proprio nel bel mezzo del campo, assieme a tutti, ora vagheggiando la le lande fangose del campo sportivo, ora firmando autografi e regalando foto ai numerosi fan presenti (anche in questo campo gli Arthemis si son dimostrati di una gentilezza unica, Martongelli soprattutto, ma anche i membri degli altri gruppi presenti non son stati da meno). È stato anche piacevole chiacchierare del più e del meno con i membri dello stand di EMP Mailorder, così come scattare almeno un paio di foto con i Necrodeath al completo, davvero simpatici e disponibili su tutto. Gli unici appunti, anzi l’unico a parte i peggiori bagni pubblici in cui il sottoscritto abbia mai orinato (!) e le pessime foto del sottoscritto*, riguarda una norma di ‘sicurezza’ posta all’interno dell’area: trovo assurdo ritirare tutti i tappi delle bottiglie all’ingresso affinché queste non vengano tirate addosso a qualcuno col senno di far male, davvero assurdo, oltre che ridicolo il cartone posto all’uscita dell’evento che permetteva a chiunque, una volta terminato l’evento, di prelevare un tappo a caso da quella scatolaccia per il ritorno verso casa (dato che guidare con una bottiglia aperta in mano non sembra una cosa molto fattibile), molto igienico! Non esiste che si debba girare per tutta la durata dell’evento con una bottiglia sempre in mano, senza tappo, quindi senza la possibilità di custodirla in una borsa apposita: quindi il Festival in se ne esce promosso a pieni voti in quanto tutte le band hanno dato il massimo ma spero che il prossimo anno simili ‘norme’ vegano cesellate a dovere, dato che si tratta di un fattore che per certi versi potrebbe rovinare, e non poco, la fruibilità dell’evento per alcuni.
* = mi scuso davvero per la pessima qualità delle poco foto presenti, ma non potendo contare come già accennato sulla mia bastardissima fotocamera (crepa, bastarda!) ho dovuto ripiegare sulle foto di pessima qualità scattate con un cellulare la cui fotocamera è di ben 0,3 megapixel, più qualche foto sparsa prelevata dalla fotocamera di uno dei miei compagni di viaggio, vale a dire il giovane Alessio Cirillo. L’assenza di qualsiasi filtro notturno ha reso impossibile l’effettuazione di qualsiasi foto di qualità pressoché accettabile nei confronti delle notturne esibizioni di Edguy ed Obituary. Grazie della comprensione.
Giuseppe “Maelstrom” Casafina