Live Report: Alter Bridge, Roma (Orion) 05/07/2017
La calata degli Alter Bridge nella capitale è uno di quegli eventi che gli amanti di certe sonorità più old-fashioned non possono trascurare, vista la penuria di proposte di livello che Roma offre alla scena Hard’n’Heavy non underground.
Inizialmente doveva trattarsi di un mega evento incastonato nella cornice del Postepay Rock in Roma 2017, poi spostato in una location circa venti volte più piccola a causa di una fase di prevendita che definiamo eufemisticamente “pigra” (e volendo essere cattivi, che non ha potuto beneficiare di meccanismi – oggetto di indagine – correlati al “secondary ticketing”).
Raggiungiamo l’Orion giusto in tempo per l’inizio dell’esibizione del main act, avendo quindi perso l’opening affidato agli svedesi Blues Pills, per renderci conto che la temperatura all’interno è – grado più, grado meno – il punto di fusione del carbonio. Come se non bastasse, gli enormi piloni portanti al centro della struttura del locale limitano di molto la visuale sul palco per una buona parte del pubblico presente.
Fortunamente per giornalisti e fotografi è stata allestita un’area riservata, protetta da cordoli, attigua al vertice destro del palco. In realtà il pit non è stato predisposto, per cui non solo siamo costretti a scattare foto da un’angolazione improbabile (rinunceremo ben presto), ma dobbiamo annotare come la sicurezza dello stage sia tutt’altro che garantita da un servizio d’ordine letteralmente schiacciato tra pubblico e palco.
Resta solo da incrociare le dita e sperare che l’acustica offra all’unico organo di senso rimasto ad anelare soddisfazioni uno spettacolo quantomeno decente.
Invece no.
I primi tre brani sono riconoscibili solo dai ritornelli cantati dal pubblico a squarciagola, a memoria, senza bisogno di riferimenti ritmico/melodici, peraltro assenti a causa dell’inguacchio sonoro prodotto dall’esplosivo mix delle scelte in console, della struttura sopra citata e della nostra posizione: “Come To Life”, “The Writing On The Wall” e “Addicted To Pain”, eseguite dai nostri senza soluzione di continuità, rischiano di diventare una nenia insopportabile, per cui siamo costretti a spostarci in una zona più centrale rispetto al fronte del palco, anche se la visibilità è disturbata dai pilastri di cemento armato che riflettono le onde sonore in maniera incontrollabile.
Il problema più grande, però, è la saturazione degli effetti (reverberi, eco, compressioni) applicata stile rullo su tutti i canali mixer.
Dopo la presentazione di rito, dunque, “Ghost Of Days Gone By” offre un po’ di tregua ai padiglioni auricolari maltrattati fino a quel punto dalle distorsioni, e il pubblico apprezza davvero il feeling trasmesso da Myles Kennedy, che spesso e volentieri invita Mark Tremonti a condividere lo scettro di frontman, contando sull’effetto degli azzeccatissimi controcanti, davvero ben eseguiti. Tuttavia, anche la voce di Kennedy risente pesantemente per il “trattamento” che le è riservato in zona mixer: le frequenze high-pitched si assottigliano e mettono a nudo quella timbrica oltremodo nasale, così faticosamente nascosta da studio… Gli stessi refrain più acclamati, come per esempio quello della successiva “Cry Of Achilles”, caratterizzato dall’armonizzazione minore sulla chiusura, diventano un punto interrogativo per l’ascoltatore che si voglia affidare alla tonalità suggerita dal coro proveniente dal pubblico.
La melodia torna a ruggire con “My Champion”, singolone tratto dall’ultimo album, “The Last Hero”, orecchiabile ai limiti del pop (trovata a cui gli Alter Bridge ci hanno ormai abituato): sarà una canzonetta – dal riffing orrendo, peraltro – ma è ciò a cui ci si deve attaccare in tali precarie condizioni. “Ties That Bind” segue la stessa scia, e anche se non altrettanto smaccatamente ruffiana come la precedente, riesce comunque a evitare di sforare nella cacofonia, a differenza della successiva “Crows On a Wire”, che tecnicamente definiremmo “un vero casino”: song melodicamente e armonicamente troppo fuori schema per sperare in un coinvolgimento di pubblico in quel dell’Orion.
Su “Water Rising” si tocca uno degli apici: il microfono passa a Tremonti, ma l’equalizzazione e gli effetti applicati non cambiano, e gli sguardi spaesati di qualche presente sembrano sottolineare lo sconforto. La canzone è già brutta di suo, giusto per essere chiari, e la situazione tecnica le rende l’imbarazzo soltanto meno oneroso.
A far dimenticare (quasi) tutto arriva puntuale la ballatona di rito, quella “Watch Over You” eseguita in acustico dal solo Kennedy, richiesta a gran voce dai fan già a partire dal giorno prima del concerto, e in effetti si tratta di quei brani che da soli varrebbero il prezzo del biglietto.
Sì, se i prezzi dei biglietti fossero fermi a quindici anni fa…
Torniamo verso il suolo di quei trenta-quaranta centimetri, il necessario per ricordarci che i timpani sono a dura prova già da quasi un’ora, e le prime avvisaglie di resa si palesano: ragazzi non più giovanissimi, zuppi dalla testa ai piedi, si appropinquano alle uscite (aria!!!) scuotendo la testa, sulle ultime note di “Isolation”, e forse si perdono anche le prime di “Blackbird”, suite sulla cui parte centrale il concerto vive la sua fisiologica fase di stanca, prima di tuffarsi con “Open Your Eyes” nella parte finale della scaletta: song che ormai conoscono pure i sassi, commerciale e ruffiana al punto da candidarsi a colonna sonora di una serie TV a caso tra quelle dedicate alle teenager (e non solo) con mezzo neurone.
Si prosegue con “Metalingus”, brano tra i migliori della produzione dei nostri, le cui eco grunge richiederebbero un supporto che – non ci stancheremo mai di sottolinearlo – in data 5 luglio dell’anno domini 2017, presso l’Orion Live Club di Ciampino (Roma, Capitale d’Italia), non è nemmeno lontanamente sfiorato.
E’ tempo di chiudere: il primo degli encore è “Show Me A Leader”, che Kennedy dapprima storpia in maniera imbarazzante nell’arpeggio introduttivo, e poi esalta sul refrain accendendo un pubblico tutt’altro che sazio di musica; il secondo è “Rise Today”, in cui tutte le difficoltà tecniche si concentrano sul basso di Brian Marshall, costretto a suonare la parte strumentale centrale del pezzo francobollato al suo amplificatore per distinguere le sue note nella poltiglia indistinta delle saturazioni.
Dopo nemmeno un’ora e mezza i nostri salutano e danno (con l’amaro in bocca) appuntamento ai fan al prossimo live: un vero peccato, perché i brani della setlist erano perfetti per la proposizione dal vivo, ma quando la situazione tecnica non è all’altezza (diciamo così), anche delle live-hit possono perdere tutta la loro efficacia.