Live Report: Amon Amarth, Obituary e special guest a Bologna
Parole di Riccardo Angelini, Lorenzo Bacega e Angelo D’Acunto
Foto di Angelo D’Acunto
Full Of Hate Fest: un titolo gradito al Nekrowizard per un piccolo festival estremo che combina violenza e varietà. L’attrazione della serata sono senza dubbio loro, i vichinghi più richiesti del momento, sospinti per la prima volta sulle lande felsinee dal grande successo di pubblico dell’ultimo Twilight Of The Thunder God. Ma la serata copre una bella fetta di estremo, dal death che più tradizionale non si può degli Obituary al black melodico e up-to-date dei nuovi Keep Of Kalessin, passando per il thrash teutonico dei Legion Of The Damned. Scorpacciata assicurata e appassionati che giungono in buon numero, decisi a non farsi sfuggire l’occasione. Sorprende solo fino a un certo punto l’elevata percentuale di giovani e giovanissimi, ai quali probabilmente sarebbe bastata e avanzata la presenza dei soli headliner. Incoraggiante l’entusiasmo con cui hanno rumorosamente salutato i loro beniamini, un po’ meno le impasse mostrate di fronte ad alcuni pezzi di storia in musica. Ma di questo parleremo meglio nel seguito.
Ore 19:30: tocca ai norvegesi Keep Of Kalessin aprire la serata e scaldare per bene l’esiguo pubblico raggruppatosi all’interno dell’Estragon. Autore di un black metal fatto di ampie aperture melodiche e inserti acustici, il quartetto di Trondheim si destreggia ottimamente nei quaranta minuti scarsi a disposizione, tenendo bene il palco e offrendo ai presenti assiepati nelle prime file uno spettacolo davvero potente e coinvolgente, concentrato esclusivamente sugli ultimi due studio album del gruppo (rispettivamente Armada e Kolossus). Nonostante i soliti problemi di suoni che colpiscono come da tradizione i gruppi di apertura (per oltre metà dell’iniziale A New Empire’s Birth voce e chitarra vengono completamente sovrastate dal suono martellante della batteria e dal basso) la prestazione dei quattro nordici è di ottimo livello e riceve ampi consensi da parte della stragrande maggioranza del pubblico presente. Sugli scudi soprattutto il batterista Vyl, autore di una prova maiuscola, energica e praticamente perfetta, culminata in un breve assolo nel mezzo della conclusiva Kolossus. Uno spettacolo quindi pienamente convincente da parte di questi Keep Of Kalessin, nella speranza di poterli rivedere in seguito, magari con maggiore tempo a disposizione e con suoni migliori.
Lorenzo Bacega
Dopo una breve pausa arriva il momento degli olandesi Legion Of The Damned, autori di un thrash/death metal di chiara matrice teutonica fatto di riff taglienti e ritmiche martellanti. Freschi della pubblicazione sul finire del 2008 del quarto full length intitolato Cult of the Dead, il quartetto di Geldrop guidato dal frontman Maurice Swinkels si dimostra da subito in un ottimo stato di forma, travolgendo il pubblico con brusche e continue accelerazioni alternate a momenti più cadenzati. La scaletta, pur mantenendo un occhio di riguardo verso l’ultimo album (il già citato Cult of the Dead), punta a mescolare i brani più recenti con i classici estratti dai primi due dischi: così canzoni del calibro di Pray & Suffer, House of Possession e The Final Godsend vanno ad aggiungersi a pezzi come Werewolf Corpse, Legion of the Damned, Diabolist, Malevolent Rapture o Sons of the Jackal. Nonostante il genere proposto non sia certo il massimo quanto a originalità e a varietà, e la tenuta del palco da parte del gruppo sia quantomeno rivedibile, la maggior parte dei presenti dimostra di apprezzare lo spettacolo, lanciandosi in continue ovazioni e urla di approvazione. Un ottimo antipasto quindi, in attesa delle esibizioni più gustose della serata.
Lorenzo Bacega
Dopo i set di “riscaldamento” ad opera di Keep Of Kalessin e Legion Of The Damned, tocca alla leggenda floridiana Obituary salire sul palco dell’Estragon. Come al solito, l’approccio del quintetto statunitense e fra i più cinici e spietati: poche pause, dialoghi con il pubblico praticamente assenti e tanti, tantissimi fatti. Sebbene i suoni (vera e propria croce per tutti i gruppi della serata) lascino molto a desiderare, la band è riuscita a mettere ugualmente in atto uno show preciso e coinvolgente sotto tutti i punti di vista, creando un muro di suono, contraddistinto dal quel riffing riconoscibile a miglia di distanza, che ha lasciato pochissime vie di scampo a tutti i presenti. In primo piano ci sono, come sempre, i latrati di John Tardy e le escursioni solistiche di Ralph Santolla, con una particolare attenzione da parte di tutti i presenti nei confronti di quest’ultimo. Non da meno l’operato di una sezione precisissima, sopratutto per quanto riguarda il drumming di Donald Tardy e il riffing aggressivo della chitarra di Trevor Peres. Per quanto riguarda la scaletta, al contrario degli altri compagni di viaggio, i quali mirano a promuovere le nuove pubblicazioni, la band dei fratelli Tardy propone una varietà di pezzi che vanno a ripescare in tutta la discografia a disposizione. Fra tutte spiccano sicuramente Evil Ways (dall’ultimo Xecutioner’s Return) che in sede live convince ancor più rispetto alla versione in studio, Threatening Skies (da Back From The Dead), Final Thoughts e Kill For Me (entrambe da World Demise), il classicissimo Cause Of Death e, a sorpresa, l’innesto di The End Complete (dall’omonimo album), la quale non si vedeva in setlist da anni e anni. La conclusione viene invece affidata alla cover Dethroned Emperor dei Celtic Frost e all’immancabile gran finale con Slowly We Rot che chiude cinquanta minuti circa di show coinvolgente e convincente sotto tutti i punti di vista (suoni altalenanti esclusi, ovviamente). Insomma, la solita e assoluta garanzia, anche se non è di certo una novità.
Angelo D’Acunto
Si è detto e ripetuto fino alla nausea che gli ultimi album degli Amon Amarth sono stati pensati appositamente in ottica live. Considerato il notevole successo di pubblico degli stessi, era prevedibile che parte della scaletta fosse dedicata ai brani di maggior successo del periodo più recente. Altrettanto prevedibile però che una scaletta in cui – tolta l’intro – undici pezzi su quattordici sono tratti dagli ultimi tre album lasci un pelino di amaro in bocca ai fan di vecchia data. Johann Hegg e soci, per carità, sono sempre delle bestie da palcoscenico. Si avventano sul pubblico con la doppietta iniziale di Twilight Of The Thunder God e non mollano più la presa fino alla fine. Presenza scenica, dialogo col pubblico, coreografie semplici ma efficaci, qualche tamarrata da vecchio vichingo, senza mai esagerare: come sempre l’attitudine è quella giusta, incarnata (nel senso più “carnoso” del termine) dalla figura di un frontman carismatico come pochi. E in effetti l’ascendente di Johann nei confronti dei suoi fan (soprattutto i più giovani) sembra crescere in modo proporzionale al suo girovita – esperienza memorabile sentirgli tradurre il roccheggiante “alright!” d’ordinanza in un più o meno convinto “tutto bene!”. Solita grande prestazione sul palco, pogo entusiasta delle prime file, pubblico che mostra di sapere i testi e accompagna la band cantando i ritornelli. Tutto perfetto? Non proprio. Primo, perché i suoni arrivano tutt’altro che chiari e forti: la batteria giganteggia, ma le chitarre suonano gracchianti e spesso confuse, nonostante la prestazione di muscoli e sudore sull’asse Mikkonen/Söderberg. Sul lungo periodo lo stesso Hegg mostra evidenti segni di fatica nello screaming, sebbene l’autorevolezza col microfono fra le mani gli permetta di gestire i cali con disinvoltura. Secondo, perché di pezzi da novanta gli Amon Amarth ne hanno scritti tanti già nei primi anni della loro carriera: dopo mezz’ora di ping-pong fra Twilight… e With Oden… lo show comincia a risentire della mancanza dei vecchi classici. Così, quando un trionfante Johann annuncia Ride For Vengeance, un pur minuto gruppo di die-hard fan esplode in un boato liberatorio. Peccato che il mormorio un po’ spiazzato delle prime file, preparatissime sugli ultimi brani, non dia seguito al grido di benvenuto. Poco male: la letale cavalcata di Once Sent… non fa prigionieri, schiacciando vecchi e nuovi estimatori sotto i suoi riff tritaossa. Per capire la differenza fra i pezzi degli Amon Amarth di ieri e di oggi basta seguire il solo: epico e drammatico come nessun altro nel loro genere ha mai saputo fare. Comincia qui il momento più intenso del concerto: con la romantica (!) Under The Northern Star seguita a breve distanza da Death In Fire, sempre deliziosamente tamarra dal vivo, e dall’altra gemma della serata, l’implacabile Victorious March. Peccato che i giochi siano ormai fatti: tempo giusto per un ultimo brindisi e un rapido encore, con l’acclamata The Pursuit Of Vikings a chiudere definitivamente la partita.
Il plauso del pubblico conferma lo status attuale degli Amon Amarth: band di grandi professionisti, capaci di tenere il palco come pochi e di cavalcare con disinvoltura l’onda del successo, senza montarsi la testa e restando fedeli al proprio credo. Peccato che gli anni più barbari e selvaggi siano ormai alle spalle, e che i gusti dei fan dell’ultim’ora impongano dolorosi sacrifici nella scaletta. La certezza, se non altro, rimane una: chi c’era si è senza dubbio divertito.
Riccardo Angelini
Setlist:
(Intro)
Twilight of the Thunder God
Free Will Sacrifice
Asator
Varygas of Miklagaard
Fate of Norns
Tattered Banners and Bloody Flags
Guardians of Asgard
Ride for Vengeance
Under the Northern Star
With Oden On Our Side
(Horns Break)
Death in Fire
Victorious March
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Cry Of The Black Birds
Pursuit Of Vikings