Live Report: Anathema a Roma e Roncade

Di Francesco Sorricaro - 22 Novembre 2010 - 0:10
Live Report: Anathema a Roma e Roncade

Truemetal presenta il resoconto di due delle date italiane del tour di We’re here because we’re here, ultima fatica in studio degli Anathema i quali, per questa occasione, hanno scelto come spalle i geniali The Ocean ed il cantautore Petter Carlsen. Il concerto dell’Alpheus di Roma e quello della sera successiva al New Age Club di Roncade sono stati due perfetti esempi della grande vena artistica in cui verte oggi la band inglese, alla luce dei suoi vent’anni di storia in continua evoluzione.

 

Report e foto di Roma a cura di Francesco Sorricaro

Report e foto di Roncade a cura di Nicola Furlan

 

Alpheus, Roma 12-11-2010

Gli Anathema e Roma: un rapporto particolarissimo di amore reciproco, che parte dalla passione del pubblico capitolino per la musica di questa band inglese, che ha attraversato i loro vent’anni di carriera senza mai essere scalfito dai cambi di direzione artistica o dalle ultime estenuanti attese discografiche; un’affezione ricambiata, d’altra parte, dai fratelli Cavanagh, che non si sono praticamente mai fatti mancare una discesa nella città eterna per donare uno dei loro intensi spettacoli.
È stato questo il caso anche della data del 12 novembre all’Alpheus dove, per l’occasione, ad accampagnarli erano il folle collettivo berlinese dei The Ocean ed il cantautore Petter Carlsen.

 

Apertura affidata ad una voce solista, dicevamo, quella del norvegese Petter Carlsen, una scelta inusuale ma calorosamente sostenuta dagli stessi Anathema all’interno di una varietà del bill abilmente bilanciata a livello emotivo. A dimostrazione di ciò, è stato lo stesso Danny Cavanagh a presentare sul palco l’artista che ha aperto le danze.
L’esibizione del timido ma entusiasta Carlsen è trascorsa all’insegna della leggerezza; la sua voce da aspirante Jeff Buckley, privo però del suo fascino bruciante, ha sciorinato una serie di brani abbastanza innocui che però, fortunatamente per lui, sono riusciti comunque a raccogliere un tiepido consenso ed addirittura qualche coro dalla platea (lanciato in più di un’occasione dall’amico Jamie Cavanagh, mimetizzato tra il pubblico). Alla fine molti sorrisi di gratitudine e l’annuncio di qualcosa di un tantino più pesante a seguire.


                                

Quel qualcosa sono i The Ocean, i quali si sono dimostrati la vera sorpresa (almeno per chi non li conosceva ancora a sufficienza) della serata.
In tour per presentare il recente fantastico Heliocentric, ed in attesa della prossima uscita del suo naturale seguito Anthropocentric, i cinque tedeschi erano certamente considerati la molto attesa ciliegina sulla torta della serata.
È bastato un brevissimo soundcheck per permettergli di calcare il palcoscenico ed esplodere letteralmente come una bomba carta. Firmament e The first commandment of the luminaries, rispettivamente prima e seconda traccia (intro esclusa) del succitato Heliocentric, sono le armi di distruzione di massa che hanno scatenato tutta la loro potenza sul pubblico e che hanno permesso la trasformazione di quelli che potevano sembrare un gruppo di nerd un po’ impacciati, in un’accozzaglia di invasati in preda alla sindrome di Tourette.
L’impetuosa energia della musica dei The Ocean ha lasciato i più a bocca aperta tanto più che, nel mentre si susseguivano i complicati passaggi strumentali di un brano come Ectasian/De Profundis, per esempio, un armadio come il chitarrista Robin Staps, si esercitava a tuffarsi, continuando a suonare il suo strumento, sulla gente di sotto; con sicuro impatto scenico, ma anche con il risultato di aver alla fine, purtroppo, ferito qualcuno.
Nel complesso il loro show si è fatto comunque apprezzare per la precisione incredibile nell’eseguire arrangiamenti sofisticati e non facili e le improvvise variazioni nel mood dei brani che sono il loro tratto distintivo. Sugli scudi la perfetta sessione ritmica che ha governato sapientemente i flutti impetuosi sprigionati dalla band anche nelle ultime due in scaletta, che sono anche le conclusive dell’album Heliocentric: The origin of spieces e la concatenata The origin of God, per un degno gran finale. Un vero e proprio muro sonoro anche se ricco di molteplici chiaroscuri quello presentato dai The Ocean i quali, dopo questo tipo di impressione, chissà se avranno trovato l’agognata ospitalità per la notte richiesta più volte cortesemente durante la serata.

 

Quando finalmente arriva il momento degli Anathema, sotto il palco si è formato ormai un discreto assiepamento di persone: una folla molto eterogenea, sia dal punto di vista anagrafico che proprio dal punto di vista della tipologia di identità che si possono distinguere; il tutto a dimostrare quanto questa band sia riuscita, con la sua evoluzione artistica, negli anni, a penetrare la corazza di superficialità cui si è costretti dalle categorizzazioni esterne, facendo trasparire invece la genuinità della propria proposta elegante e dotata di una potenza intimista che è la chiave del suo indubbio successo.
La macchina guidata dai tre gemelli Cavanagh: Danny e Vincent a chitarre e voci e Jamie al basso, con la collaborazione del tastierista Les Smith, del sempre fedele batterista John Douglas e, ultima in pianta stabile, sua sorella Lee Douglas per le voci femminili, è apparsa perfettamente oliata da tutti gli anni trascorsi in estenuanti e continui tour per tutta Europa; anni anche difficili, in particolare i 7 che hanno preceduto la tanto attesa pubblicazione del loro ultimo lavoro We’re here because we’re here, che hanno visto i nostri costretti a presentare ripetutamente scalette fondate sul loro pur fortunato passato.
Proprio questa è l’impressione che si è avuta assistendo alla prima parte del loro show: un set composto esclusivamente da brani estratti dai dischi Alternative 4, Judgement, A fine day to exit e A natural disaster, proprio i 4 lavori che hanno preceduto l’ultimo suddetto.
La successione collaudatissima di emozionanti frammenti della loro storia, da Deep a Lost Control, da Closer a Flying, ad una Judgement con tanto di intro morrisoniana ha scaldato il pubblico di affezionati, accontentando anche la nostalgia di quelli più datati con tutte quelle composizioni che lentamente sancirono il passaggio dal pesante gothic doom degli esordi a qualcosa di diverso.
Perfetta l’esecuzione e l’empatia con il pubblico, come al solito e, dopo un’ora e mezza di concerto, il piatto forte doveva ancora venire.
Il clou di questo tour degli Anathema è infatti l’esecuzione di We’re here because we’re here proprio così come era stato concepito, come un pezzo unico diviso in momenti diversi; ed è proprio così che il pubblico dell’Alpheus ha potuto ascoltarlo: dieci brani suonati tutti d’un fiato, con la soddisfazione di chi finalmente può presentare a tutti il figlio laureato.


                                

Il lungo periodo di attesa ha giustificato certo una scelta così radicale e rischiosa alla luce di un live ma, ad onor del vero, quella degli Anathema è risultata forse un po’ eccessiva. We’re here è un album riflessivo, un lungo viaggio onirico, introspettivo e, a suo modo, un album difficile da assimilare, che per dimostrare il suo valore ha bisogno di un ascolto attento; le sue lunghe divagazioni strumentali, gli inserti elettronici, i duetti eterei tra Vincent e la Douglas e, soprattutto, un’ora intera di materiale di recente uscita tutta di seguito in un concerto, hanno sortito l’effetto di appesantire un po’ lo show, facendo perdere per larghi tratti l’attenzione degli astanti.
Decisione condivisibile dunque, ma non del tutto felice a mio parere.
Quando sfumano gli ultimi suoni di Hindsight, solo il “direttore d’orchestra” Danny Cavanagh che, con la passione di un padre che segue la sua creatura, mai ha smesso di sottolineare i momenti salienti dei pezzi precedenti con smorfie e con ampi gesti delle mani, è rimasto sul palco pronto ad intonare Are you there? accompagnato solo dalla sua chitarra. Un mare di cellulari ed accendini ha composto allora un cielo stellato nel buio della sala: l’attenzione dell’audience viene nuovamente rapita per uno degli highlights assoluti della serata.
L’ora è già tarda quando, nonostante tutto, la band dichiara di voler eseguire comunque gli ultimi due pezzi per un gran finale.
La scelta cade sulle sempre amate One last goodbye e Fragile dreams le quali, cantate a squarciagola dal pubblico, sono andate a chiudere nel migliore dei modi le ben due ore e mezzo di concerto che gli Anathema hanno offerto ai loro fan.
Anche questa sera a Roma, la band di Liverpool si è dimostrata una garanzia per chi ha deciso di acquistare il biglietto: passione, grande professionalità ed empatia invidiabile con la platea; in breve, una bella serata di musica da ricordare a lungo e che servirà di certo da ennesimo volano per la loro carriera.

Francesco ‘Darkshine’ Sorricaro

SETLIST ANATHEMA
Deep
Pitiless
Forgotten Hopes
Destiny is dead
Empty
Lost Control
Destiny
Balance
Closer
A natural disaster
The end/Judgement
Temporary peace
Flying

We’re here because we’re here:
    Thin air
    Summernight horizon
    Dreaming light
    Everything
    Angels walk among us
    Presence
    A simple mistake
    Get off, get out
    Universal
    Hindsight

Are you there?
One last goodbye
Fragile dreams

 

New Age Club, Roncade (TV) 13-11-2010

Apertura di serata affidata al chitarrista solista norvegese Petter Carlsen, autore per l’occasione di una prova davvero emozionante e ricca di pathos. Il raffinato e malinconico songwriting che ha caratterizzato i brani proposti ha incantato coloro che hanno posto attenzione all’esibizione. Molti infatti i maleducati che, sulle note acustiche e dal volume contenuto, hanno sghignazzato, urlato in maniera scomposta e disturbato irrispettosamente chi si stava godendo il concerto nonché il chitarrista stesso. In ogni caso, maleducazione italiota a parte, i brani estratti dall’unica fatica discografica all’attivo, You go bird hanno colpito al cuore per grazia espositiva, ricercatezza e poesia e, a tratti, è stato possibile aver percezione che proprio gli Anathema possano aver ispirato il minuto chitarrista scandinavo in corso di stesura in sala prove. Ad istinto mi sento di affermare che questo ragazzo ha un futuro.

Devastante la prova dei tedeschi The Ocean che, come sempre (personalmente li ho visti live tre volte), hanno dato vita a un concerto perfetto: mai fuori tempo, coinvolgente, pregno di energia e giochi di luce. E pure il seguito è stato da veri ‘metaller’ quando, a giochi conclusi, i cinque si sono sparsi tra il pubblico a firmar autografi, condividere scatti, a vendere magliette ‘scontate’ quando un ragazzo non aveva tutti i soldi necessari, a batter mani per ricevere i meritati plausi. Robin Stap ci sa fare e pure il suo manipolo di schizzati, davvero coinvolgenti sulle note di quelli che sono, a mio parere, i brani tratti dal più bel disco della loro carriera ovvero quell’Heliocentric uscito a marzo di quest’anno. Ecco allora: The First Commandment of the Luminaries, The Origin of Species e The Origin of God, veri schiacciasassi ricchi di spunti musicali, idee non comuni circa le ritmiche e le armonie. Tempo anche per un’anteprima estratta dal nuovo disco e seconda parte del precedente di recentissima uscita Anthropocentric e lo show volge al termine, in un baleno. Ancora un’ultima richiesta per un letto scritta su un cartoncino in stile homeless in quanto, di recente, la band ha subito un furto e ora si ritrova senza soldi… Immensi, avessi vissuto più vicino non avrei esitato un secondo ad aprirgli le porte di casa mia. Di ragazzi di questa maledetta razza la scena metal avrà sempre bisogno.


                            
    

L’alternative rock per eccellenza: Anathema. Quella che al momento, assieme a Muse e Coldplay, la band britannica è la massima espressione di questa straordinaria corrente artistica. Una band che ha sempre saputo rinnovarsi senza seguire uno schema che non fosse il reticolo di emozioni che vibra col le pulsazioni di un ispiratissimo Vincent Cavanagh, la cui voce è un continuo fluir di passione. Il concerto del sestetto (ebbene sì, questa volta sul paclo è comparsa anche la cantante Lee Douglas) è durato due ore e trenta minuti in cui, oltre ai superclassici attesi (non tutti!), è stato riproposto per intero l’ultimo full-length We’re Here Because We’re Here. Ebbene sì, tutto quel capolavoro, da Thin Air ad Hindsight. Pelle d’oca certo, se si pensa che nell setlist ‘ordinartia’ hanno fatto capolino le varie Empty, Closer, A Natural Disaster, Judgement mentre nella tripletta dell’encore finale hanno trovato posto Fragile Dreams e One Last Goodbye. Ragazzi, dovete credermi. Tutto è stato perfetto, questa volta pure i suoni dato che, nelle mie esperienze precedenti targate Anathema, qualche fruscio di troppo aveva offuscato la brillantezza del loro operato. Uno show da incorniciare. Raramente sono uscito da un locale (per l’occasione quasi pieno) così soddisfato e non credo d’esser stato l’unico.

Nicola Furlan