Live Report: Angra 05/02 a Milano

Di Redazione - 9 Febbraio 2005 - 12:33
Live Report: Angra 05/02 a Milano

Milano, 5 febbraio 2005

C-Side

Mi sono concesso qualche giorno di tempo prima di scrivere le righe che state leggendo, solo ed esclusivamente per riflettere e tentare di raffreddare il sangue diventato bollente esattamente alle 22.35 del 5 febbraio scorso, data nella quale, i brasiliani Angra sono tornati nel capoluogo lombardo per aprire il tour di supporto a Temple of Shadow, disco neonato ed in attesa di essere presentato dal vivo al pubblico delle “arene” di mezza Europa.
No, non è certo un errore l’aver virgolettato la parola arene, il fantomatico C-Side, sebbene dotato di una superficie quadrata sufficientemente credibile per contenere il migliaio o più persone presenti quel sabato, è il vincitore assoluto della classifica destinata ai locali detentori della peggior acustica. Rainbow, Alcatraz, Rolling Stone, Transilvania Live, Inkubo cafè, Black Crown, Woodstock e ci metto anche l’abominevole Supermarket di Torino tanto per allontanarci di qualche kilometro,  al suo cospetto fanno un figurone inimmaginabile.

La torta non è ancora completa dei suoi ingredienti: e gli Angra?

Rewind, facciamo tornare indietro il nastro fino alle 18.30, orario della partenza dalla beneamata Como spedito verso la tangenziale ovest stranamente percorribile, e mandiamolo un po’ avanti, sino alle 19.00, quando finalmente tra me e il C-side si frapponeva “soltanto” la strada che va dall’uscita di Famagosta all’entrata del localaccio (che ho scoperto solo 3 ore dopo, essere una discoteca frequentatissima).
1 ora esatta… Alle 20 in punto sono riuscito ad inquadrare all’orizzonte i soliti “baracchini” oberati dalle T-Shirt nere, ahimè non ero stato avvisato della presenza di un labirinto stradale e del fatto che avevo a disposizione una sola opportunità su un milione di riuscire a trovare il “bar” al primo colpo. Ritenta, sarai più fortunato recitavano le bottiglie di birra Moretti qualche anno fa.

Il tempo di una birra al freddo e al gelo e di un gustosissimo Kebab, eccomi baldanzoso davanti alla mega entrata con tanto di tappeto rosso srotolato ai fortunati possessori di un biglietto-accredito, mi ritrovo dunque nel bel mezzo della selva oscura rappresentata, in questo caso, da centinaia di cappotti che avremmo pototo appoggiare su “delicatissimi” stendi-abiti per la modica cifra di 3 euro ma, un “finissimo” suono di chitarra elettrica distoglie il mio sguardo e la mente dal pre-locale: mi sono bastati due brani per capire che gli Edenbridge hanno fatto una gran bella figura sotto il profilo visivo avendo tra le fila una splendida vocalist desnuda, stenderei un velo grande come lo Stadio San Siro sulla prova tecnica ed in generale sonora che hanno influito pesantemente sulla professionalità di quanto eseguito.
Mettiamola così: ritentate, sarete più fortunati!

21.15, una ventina o più di minuti dedicati al soundcheck stile Manowar ed ecco finalmente il tanto agognato abbassamento di luci e l’inizio di Gate XIII con l’aggiunta di Deus Le Volt, per un totale di 6 (sei) infiniti minuti di introduzione che hanno separato me e i presenti dalla stupenda Spread Your Fire qui riproposta interamente in versione strumentale…
No, anche qui nessun errore ortografico; Edu Falaschi, simpaticissimo nelle movenze e principale protagonista nell’ultimo album, è stato letteralmente umiliato in quanto provvisto di un volume al microfono pari a zero alla quinta e, non riuscire a sentirlo da 6/7 metri al centro del parterre non credo sia un problema riguardante le orecchie delle dozzine di anime che riempivano quella metratura, vero cara Crew?
Piccolo aneddoto: mi è giunta la voce da un uccellino alla fine del concerto che una parte consistente delle casse in alto alla nostra sinistra si sono fulminate in modo irreparabile qualche secondo dopo dal loro utilizzo, detto questo la Crew si scusa.
Di conseguenza, riesco anche a comprendere il motivo che ha portato i tecnici ad un missaggio ai limiti dello scandalo ed a suoni impastati e scoordinati ed a farmene una ragione ma, non posso giustificare un sound della batteria che si avvicina più a quello di una batteria di pentole lanciata dal decimo piano, non posso giustificare il fatto di non aver attaccato la chitarra classica quando il povero Edu ha tentato di farci almeno ascoltare come suona, non posso concepire il non riuscire a sentire la chitarra elettrica in un concerto heavy metal e non posso concepire che una data live di un tour di supporto ad un lp duri una settantina di minuti.

Provando a descrivere nel modo più ottimistico possibile, posso confermare che dal punto di vista squisitamente tecnico gli Angra si sono mostrati come sempre musicisti professionisti ed in grado di esaltarsi sulle parti sonore relative al “sangue brasilero” e splendidamente espressivi quando si è trattato di performare parti prog oriented con le chitarre di Loureiro e Bittencourt ed il basso di Andreoli.
Sebbene il suono orribile, anche Priester alla batteria ha fatto un’ottima impressione e l’unico elemento davvero incredibilmente danneggiato è senza dubbio Falaschi per i motivi già debitamente descritti in precedenza che sono intercorsi per l’intera durata dello show.
Deturpato l’alone mistico del brano che ho tanto amato, Carolina IV, ed abbattuto in precedenza dalla sensazione negativa che mi ha gentilmente concesso Nothing to say mi sono ripreso appena con l’innesto in scaletta di Rebirth, che perlomeno nelle parti acustiche ha fatto un’ottima figura.
Inutile raccontare il resto del concerto, sappiate che la scaletta finale è stata decurtata di 4/5 brani tra i quali spiccavano l’intramontabile Carry On che tutti sognavamo e la sprintosa The Temple of Hate… motivo? Eccone altri due: i concerti devono terminare non oltre le 22.30/23.00 come stabilito da leggi comunali, a questo si aggiunge che i proprietari del locale ci hanno praticamente buttato fuori per permettere una veloce pulizia per una repentina apertura della from disco to C-side disco.

Complimenti dunque alla Live, al C-side ed ai colpevoli Angra e Crew che se ne sono andati tra i fischi del pubblico, per aver trasformato una serata pregustata e sognata da tempo, in un incubo sonoro al quale, da quindici anni a questa parte, raramente avevo assisito. Non aggiungo altro.

Gaetano “Knightrider” Loffredo