Doom Hard Rock Sludge Stoner

Live Report: Baroness + Graveyard + Pallbearer @ Live Club, Trezzo Sull’Adda – 06/11/2024

Di Davide Sciaky - 8 Novembre 2024 - 16:22
Live Report: Baroness + Graveyard + Pallbearer @ Live Club, Trezzo Sull’Adda – 06/11/2024

Live Report: Baroness + Graveyard + Pallbearer @ Live Club, Trezzo Sull’Adda – 06/11/2024
a cura di Davide Sciaky

Un freddo e nebbioso mercoledì sera porta al Live Club di Trezzo Sull’Adda l’unica data italiana del tour dei Baroness e Graveyard da co-headliner.
Un tour che sicuramente avrà attirato l’attenzione degli amanti delle due band dal primo momento in cui è stato annunciato. L’accoppiata dei due gruppi, con i Pallbearer ad aprire la serata, è una commistione di generi e abbastanza diversi, pur con certi punti di contatto. Insomma, per chi avrà gusti più variegati il concerto sarà indubbiamente molto interessante, anche se arrivando al locale ci chiediamo quanti saranno interessati a tutte le band come noi, e quanti invece arrivino attirati solo dagli uni o dagli altri.

I Pallbearer arrivano forti della pubblicazione dell’ottimo “Mind Burns Alive” da cui suoneranno un paio di pezzi. Un Doom Metal pesante, pesantissimo, che non tarda a smuovere le prime teste che si si dedicano ad un cadenzato headbanging. Tra queste c’è anche la testa del bassista, unico tra i quattro sul palco a muoversi, mentre gli altri membri della band sono poco dinamici e interagiscono col pubblico ancora meno, tutta l’attenzione rivolta alla musica. Purtroppo il Live Club è ancora abbastanza vuoto, ma l’inizio puntuale alle 7 di mercoledì, per di più in un locale non certo in centro ad una metropoli e non facilissimo da raggiungere per chi non è automunito, lascia poco scampo alla band americana. Nonostante ciò, le melodie suadenti e melanconiche si insinuano tra i presenti e che sembrano apprezzare la proposta.

Quando arriva il turno dei Graveyard il locale è già parecchio più pieno, e si nota anche molta eccitazione per la band in procinto di salire sul palco. Gli svedesi sono figli di quella scena revivalista di un Hard Rock vecchia scuola che sembra uscito dagli anni ’70. Nello specifico, la band ha deciso di seguire la strada di un Hard Rock con forti venature Blues e psichedeliche (e occasionali incursioni in territori più Heavy), un mix che sanno creare in maniera assolutamente efficace e con una resa di grande qualità. Particolarità del tour è che, come annunciato a ottobre, il frontman Joakim Nilsson, reduce da un’operazione alla spalla, ha deciso di appendere al chiodo la chitarra per queste date ed è quindi sostituito da John Hoyles, noto per il suo passato con i Witchcraft, e recentemente in forze negli Spiders. È subito evidente che Joakim sia un po’ impacciato senza il suo strumento tra le mani… questo toglierà qualcosa allo spettacolo? In realtà ben poco dato che, pur non sapendo dove mettere le mani, il cantante sa decisamente come usare le corde vocali, e la sua performance è di altissimo livello. In un paio di occasioni è il bassista Truls Mörck a diventare protagonista dietro al microfono e, anche se meno incisivo di Joakim, anche lui si destreggia dignitosamente mentre il frontman rimane nelle retrovie a suonare un tamburello. Tra brani più adrenalinici come Twice, con cui aprono il concerto, e Ain’t Fit to Live Here, e quelli più atmosferici come la meravigliosa Slow Motion Countdown, i cinque conquistano il pubblico che saluta canzone dopo canzone con fragorosi applausi. Forse sono i brani più lenti quelli dove gli svedesi brillano di più, e un pezzo come Rampant Fields fa sognare tutti i presenti, ma anche Uncomfortably Numb non è da meno. Il nuovo chitarrista sembra assolutamente a proprio agio con il catalogo della band, e scambia assoli con Jonatan Larocca-Ramm con gran naturalezza e buon gusto. Per 75 minuti i Graveyard catapultano il pubblico in un fumoso locale degli anni ’70, e a giudicare dalle reazioni tutti i presenti sembrano gradire la cosa.

Come premesso le band coinvolte nella serata suonano musica abbastanza diversa, quindi dopo un’accoglienza così calorosa all’ultima band, viene da chiedersi cosa succederà con i Baroness. Apparentemente però il pubblico, o almeno una buona parte di esso, è fan di entrambe le band e anche i secondi headliner ricevono un’accoglienza decisamente calda. Gli americani hanno pubblicato lo scorso anno “Stone”, primo album che non porta il nome di un colore, e si vede che ci credono dato che aprono subito il concerto con una doppietta di canzoni nuove, Last Word e Under The Wheel. L’atmosfera si scalda davvero al terzo brano, March to the Sea, un classico molto amato dai fan della band. L’ultima arrivata, la chitarrista Gina Gleason, è ormai perfettamente integrata nel gruppo e la si vede scambiare sguardi di intesa con gli altri membri mentre suona passaggi intricati senza battere ciglio. La sua voce, nei brani in cui accompagna il frontman John Baizley, impreziosisce la musica e viene quasi da chiedersi come facessero i Baroness prima del suo arrivo. Certo, è un dettaglio secondario nel grande insieme delle cose, ma anche brani nati prima del suo arrivo a nostro parere risultano ancora migliori con l’accompagnamento della sua voce. Il già nominato Baizley è scatenato e salta sul palco, non sta fermo un secondo se non quando deve stare dietro l’asta del microfono per cantare, e sembra realmente impressionato dalla risposta dei fan italiani. Distribuisce ampi sorrisi, ringrazia, e non manca neanche una rapida citazione di come oggi sia una giornata difficile per la band, accennando alle elezioni presidenziali americane vinte da Donald Trump. La musica dei Baroness è di difficile catalogazione, tra Sludge e Stoner con elementi sicuramente Progressive, quello che è certo è che in quasi tutte le canzoni c’è una forte componente emotiva. Sia in brani più rallentati come If I Have to Wake Up (Would You Stop the Rain?), che dove il ritmo diventa più sostenuto come in Shock Me o Swollen and Halo, il cantato di Baizley raggiunge un’intensità emotiva a cui nessuno può rimanere indifferente. Tanti nel pubblico cantano i brani, ma la partecipazione raggiunge sicuramente il culmine con l’ultimo paio di canzoni, Isak e Take My Bones Away. Ormai diventati classici, i due pezzi chiudono in bellezza un concerto di grande qualità che non può che lasciare tutti i presenti soddisfatti.
Mettere insieme tre band tanto diverse, pur con i loro punti di contatto, può essere stata una scommessa, ma al termine della serata possiamo assicurare al 110% che sia stata vinta.