Live Report: Bon Jovi a Milano

Di Stefano Burini - 2 Luglio 2013 - 9:00
Live Report: Bon Jovi a Milano


BON JOVI
29/06/2013 @ Stadio Giuseppe Meazza, Milano

Ci sono voluti due anni di lunghissima attesa, da quel 17 luglio 2011 allo stadio Friuli di Udine, per poter ammirare di nuovo i Bon Jovi in Italia e tante cose sono cambiate da allora. Il mondo occidentale ha perso parte delle sue certezze ed ha iniziato a confrontarsi più da vicino con problemi di natura politica e sociale che fino a poco tempo fa sembravano reliquie di epoche ormai dimenticate e nemmeno l’universo Bon Jovi è rimasto lo stesso di allora, toccato nel vivo da problemi di varia natura che hanno colpito in prima persona la band (l’abbandono più o meno temporaneo di Richie Sambora) e la famiglia del suo leader indiscusso, Mr. Jon Francis Bongiovi Jr., al secolo Jon Bon Jovi

Eppure, oggi più che mai, il messaggio di speranza e di positività da sempre insito nella musica dei ragazzi del New Jersey appare attuale e di sicura presa su un uditorio che mostrerà, lungo tutto lo show, il proprio apprezzamento per le hit (vecchie e nuove) di questa storica band e anche per le doti umane dei suoi musicisti, tra coreografie da brividi e un sostegno incessante fatto di urla, cori e braccia levate al cielo. Ma andiamo con ordine.

 

 

La cornice è quella delle grandi occasioni e lo Stadio Meazza di San Siro è forse il teatro migliore, almeno in quanto a colpo d’occhio, per il ritorno in Italia di uno dei big del rock internazionale da ormai trent’anni a questa parte. Dopo l’ovvio smistamento ai vari ingressi in base ai settori d’appartenenza, parte la scalata verso la tribuna e se, da un lato, è certamente vero che da lassù si finisce per perdere un po’ di contatto con gli artisti sul palco, è altrettanto vero che grazie ai megaschermi e alla potenza degli amplificatori ci si ritrova in ogni caso catapultati al centro della scena.

La scenografia approntata è imponente e molto curata: sullo sfondo il muso di una quelle delle tipiche auto da film anni ’50, 100% made in U.S.A., largo una trentina di metri e posto sul lato lungo del campo; lo spazio al di sopra di esso e ai lati del palco è infine riservato a tre megaschermi, come anticipato, davvero indispensabili per permettere a tutti gli spettatori di godersi lo show.

Scenografie e dispiegamenti di forze a parte, le cinquantamila persone presenti sono ovviamente accorse per la musica e di certo la mancanza (annunciata, sì, ma non per questo indolore) di Richie Sambora costituiva già di per sé, a priori, un punto interrogativo tutt’altro che trascurabile. Chi vi scrive, infatti, ammette candidamente di non aver mai sentito nominare, almeno fino a pochi giorni fa, il buon Phil X, musicista dal curriculum ad ogni modo invidiabile (Alice Cooper, Rob Zombie, Tommy Lee e Methods Of Mayhem tra le varie collaborazioni), chiamato a far le veci di Richie: il “test” avverrà dunque sul campo.

Puntuali, come ormai buona abitudine nei concerti da qualche tempo a questa parte, i Bon Jovi salgono sul palco alle 20 e 35 ed esordiscono con la nuovissima “That’s What The Water Made Me” e la reazione del pubblico è fin da subito estremamente calorosa, nonostante si tratti di un pezzo solamente discreto estratto da “What About Now”, ultima fatica da studio dell’ormai terzetto a stelle e strisce. Pochi secondi di pausa ed è già delirio con la sempreverde “You Give Love A Bad Name”, paradigma del pezzo da stadio con gli irresistibili cori cantati, non a caso, da tutti i presenti, e con la seguente “Raise Your Hands”, un’altra scheggia di hard rock scatenatao estratta dal magico “Slippery When Wet“. I volumi e in generale la resa sonora non sono inizialmente al top, ma le cose migliorano nel giro di pochi minuti mettendo in luce il più che buono stato di forma  fisico e vocale da parte di Jon, protagonista assoluto sulle prime canzoni, inguainato in un giubbetto che più americano non si può e impegnato a dispensare sorrisi ed energie con il piglio del leader.

“Runaway” rappresenta un graditissimo estratto dal preistorico album omonimo: grande resa strumentale e vocale per il primissimo singolo in assoluto pubblicato dalla band nel 1984. Seguono a ruota la piacevole “Lost Highway” sulle cui note lo schermo centrale si trasforma nel parabrezza di una classic car anni ’50 in viaggio sull’Autostrada Perduta, l’acclamata “Born To Be My Baby”, per la verità un pelo confusionaria in quanto a riuscita, e il primo dei “classici moderni” firmati Bon Jovi, la mitica “It’s My Life”, forse il loro brano più conosciuto nel Belpaese.
 

Il terzetto successivo indugia forse eccessivamente sui   toni tiepidi delle ultime fatiche discografiche di Jon e compagnia trovando, tuttavia, un momento da ricordare grazie alla splendida coreografia creata sugli spalti con cartelli colorati a disegnare la bandiera a Stelle e Striscie e una vera e propria dichiarazione d’amore da parte dei fan nei confronti della band. Vedere un simile colpo d’occhio e, poco dopo, Jon in lacrime distogliere il viso e quasi scusarsi per aver “pianto come una ragazzina” non è di certo cosa di tutti i giorni, segno di grande e reciproco rispetto e apprezzamento. Da qui in avanti lo show aumenta fortemente d’intensità con la doppietta tratta dall’ottimo “Keep The Faith” e costituita dalla title track e da “In These Arms”: sul finale della prima c’è un po’ di gloria per Phil X e David Bryan, protagonisti di una piccola jam strumentale sorretta alla grande dal percussionismo energico dell’inesauribile Tico Torres mentre la seconda viene parzialmente cantata in solitaria (e con ottimi risultati) dal fido David Bryan. Tra di esse (e il primo cambio d’abito di Jon che si ripresenta sul palco con un giubbetto di pelle nera) si frappone l’accorata “Amen”, con le vocals che si fanno addirittura vibranti, a spazzare via ogni residuo dubbio sull’attuale tenuta live del cantante americano. “Captain Crash And The Beauty Queen From Mars” è un pop/rock allegro ed innocuo, ad ogni modo molto apprezzato dal pubblico, ma il ritmo è destinato a risalire con “We Weren’t Born To Follow”: tipico inno alla Bon Jovi a base di speranza e grandeur tipicamente Made in U.S.A., sulle cui note lo stage si tinge interamente di rosso con il nuovo logo della band messo in bella mostra sullo schermo centrale.

Sull’incipit di “Who Says You Can’t Go Home?” Jon se la prende bonariamente con i presenti, rei di non aver risposto con sufficiente baccano all’orecchiabile richiamo di «…It’s alright, it’s alright!» ed ovviamente la reazione del pubblico non si fa attendere; seguono “Rockin’ All Over The World”, prima e unica cover (si tratta di un brano di John Fogerty, storico cantante dei leggendari Creedence Clearwater Revival) e, assieme alla spettacolare e riuscitissima “I’ll Sleep When I’m Dead”, è puro delirio rock ‘n’ roll. La chiusura della prima parte dell’esibizione è riservata alla sempre spettacolare “Bad Medicine”: parte lo storico giro di tastiera e il boato del pubblico sottolinea il grande apprezzamento per una delle maggiori hit estratte dall’altro caposaldo dei BJ, l’immenso “New Jersey”, mentre Jon si fa un bagno di folla camminando sulla passerella posta al di sopra del muretto che delimita la zona Gold Ticket.
 

Sono passate poco meno di due ore e si potrebbe pensare che l’esibizione volga al termine con la riproposizione di un paio di superclassici; tuttavia, dopo una breve intro con l’ormai familiare classic car sullo sfondo lanciata in una corsa al’impazzata su strade buie e ponti di legno, è il turno della perla assoluta della serata (e di tutta la loro carriera): l’incredibile “Dry County”. L’atmosfera è scura, il cantato di Jon sentito ed efficace e le liriche sempre splendide, inoltre, a ritagliarsi un ruolo da protagonista assoluto è finalmente Phil, in oltre sei minuti di intensissimo guitar work coronato dal torrenziale assolo, forse il più bello mai uscito dalla penna di Richie Sambora ed eseguito in maniera superlativa dal chitarrista canadese. Brividi a profusione che non terminano certo sul finire di “Dry County”: cambia l’atmosfera ma l’esibizione prosegue su livelli d’eccellenza con “Someday I’ll Be Saturday Night”, fresca e travolgente come poche, un altro high-light assoluto della serata. Dopo il terzo cambio d’abito, con Jon questa volta in canotta blu per la gioia delle signore, è il turno della potabile “Love’s The Only Rule”, ma quando giunge il momento di “Wanted Dead Or Alive” i riflettori sono tutti per il frontman e la sua chitarra acustica, assecondati alla grandissima da Phil X, ottimo sostituto di Richie anche sulle delicate parti vocali. Lo show sembra non finire mai e su esplicita richiesta dei fan delle prime file la band ripesca la più che buona “Undivided”, unico estratto dal discreto “Bounce” e per la prima volta riproposta dal vivo nel “Because We Can Tour”, una piccola ma gradita sopresa, che preannuncia il momento d*ell’agognata “Livin’ On A Prayer”, eseguita inizialmente in acustico e poi ripresa in tutto il suo vigore elettrico, sempre con il sostanziale apporto di Phil alla chitarra e al talk box.

Idealmente dovrebbe trattarsi della fine del set, tuttavia alle pressanti richieste da parte dell’intero stadio in delirio Jon attacca “Never Say Goodbye” in acustico tra le urla dei presenti salvo lasciare spazio, nel volgere di un paio di strofe e dell’immortale refrain, ad una versione da pelle d’oca di “Always”, cantata in maniera semplicemente perfetta da un JBJ assolutamente stupefacente, in grado di chiudere in crescendo un’esibizione che va avvicinandosi alle tre ore. Mai sazio, nemmeno dopo tanta musica e tanta qualità, il pubblico preme per avere ancora una canzone, prontamente accontentato con la bella “These Days”; eppure non è ancora finita qui: dopo un breve siparietto con Jon intento a valutare a quale dei cartelli dar retta (“Bed Of Roses”?,  “I’ll Be There For You”, addirittura “Santa Fè”, dal suo primo album da solista, tra le richieste), la scelta ricade sulla pregevole “This Ain’t A Love Song”, degna chiusura (e questa volta per davvero) di un concerto degno di essere mandato a memoria.

10/10, cinque stelle, 110 con lode. Potete esprimerlo come meglio preferite ma si è trattato di uno show di altissimo livello: un set di oltre tre ore di durata che ha spaziato su ogni singolo album della band (anche troppo, in alcuni casi, diranno i più malevoli), valorizzato dalla splendida cornice dello Stadio Meazza e da una scenografia imponente ed efficace. Sicuramente ci sarà chi avrà da ridire per qualche piccola imperfezione vocale (su “Keep The Faith” e “Born To Be My Baby” in particolare) ma tenendo conto dell’età (nonostante l’aria da eterno ragazzo, il tempo passa per tutti e quest’anno per Old Jon sono cinquantuno candeline sulla torta), dell’impegno profuso e del gran finale con ben tre lunghi bis, lamentarsi sarebbe davvero scorretto e ingeneroso. Non resta altro da dire se non «Thank you, boys!» e lunga vita ad artisti di questo calibro.

Live Report a cura di Stefano Burini, fotografie per gentile concessione di Alex Casiddu
 

Setlist:
01. That’s What The Water Made Me (“What About Now”, 2013)
02. You Give Love A Bad Name (“Slippery When Wet”, 1986)
03. Raise Your Hands (“Slippery When Wet”, 1986)
04. Runaway (“Bon Jovi”, 1984)
05. Lost Highway (“Lost Highway”, 2007)
06. Born To Be My Baby (“New Jersey”, 1988)
07. It’s My Life (“Crush”, 2000)
08. Because We Can (“What About Now”, 2013)
09. What About Now (“What About Now”, 2013)
10. We Got It Going On (“Lost Highway”, 2007)
11. Keep The Faith (“Keep The Faith”, 1992)
12. Amen (“What About Now”, 2013)
13. In These Arms (in parte cantata da David Bryan, “Keep The Faith”, 1992)
14. Captain Crash And The Beauty Queen From Mars (“Crush”, 2000)
15. We Weren’t Born To Follow (“The Circle”, 2009)
16. Who Says You Can’t Go Home? (“Have A Nice Day”, 2005)
17. Rockin’ All Over The World (Cover di John Fogerty)
18. I’ll Sleep When I’m Dead (“Keep The Faith”, 1992)
19. Bad Medicine (“New Jersey”, 1988)

Encore I:
20. Dry County (“Keep The Faith”, 1992)
21. Someday I’ll Be Saturday Night (“Cross Road”, 1994)
22. Love’s The Only Rule (“The Circle”, 2009)
23. Wanted Dead Or Alive (“Slippery When Wet”, 1986)
24. Undivided (“Bounce”, 2002)
25. Have A Nice Day (“Have A Nice Day”, 2005)
26. Livin’ On A Prayer (“Slippery When Wet”, 1986)

Encore II:
27. Never Say Goodbye (in acustico, “Slippery When Wet”, 1986)
28. Always (“Cross Road”, 1994)
29. These Days (“These Days”, 1995)

Encore III:
30. This Ain’t A Love Song (“These Days”, 1995)